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Autore: Ruta    01/02/2015    2 recensioni
Sherlock non sente come gli altri. E con ‘sentire’, Molly intende l’intero kit di sentimenti, corredato di farfalle nello stomaco, palmi sudati, ginocchia gelatinose e attacchi torci-budella.
Sherlock prova emozioni, le più disparate ed elevate. Sherlock sente e prova, soltanto in un modo diverso da lei, da loro. Non è mai stato quello il problema, sul serio. Non è il sentire, ma la misura del sentire l’ostacolo più grande.
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Molly Hooper, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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misura

Sherlock non sente come gli altri. E con ‘sentire’, Molly intende l’intero kit di sentimenti, corredato di farfalle nello stomaco, palmi sudati, ginocchia gelatinose e attacchi torci-budella.
Molto semplicemente, quelle cose, Sherlock le prova, ma quando lo fa - se capita che lui si permetta di provarle - riesce a gestirle con l’aplomb di un uomo d’altri tempi e la compostezza di una testa coronata.
Sherlock prova emozioni, le più disparate ed elevate. Ad esempio ha fatto suo il calore del contatto umano, di questo Molly è sicura; e ha fatto sua anche la sottile paranoia della paura, quella che fa guardare di sottecchi le persone che si amano e fa giurare a bruciapelo: ‘non me li porteranno via, non lo permetterò’.
Sherlock sente e prova, soltanto in un modo diverso da lei, da loro.
Non è mai stato quello il problema, sul serio. Non è il sentire, ma la misura del sentire l’ostacolo più grande.
Ostacolo a cosa, vorrebbe avere il coraggio di rispondersi Molly. Quel coraggio, dopo anni, langue ancora da qualche parte, non sembra desideroso di lasciarsi trovare.

 

*

 

Nei primi anni, tra un’occhiata languida e un’analisi da ultimare, Molly si era ritrovata a domandarsi spesso come sarebbe stato se Sherlock fosse stato uguale a tutti gli altri.
Sarebbe stato più facile, forse. Sarebbe stato tutto diverso, questo era certo, ma non si sarebbe trattato di un cambiamento positivo, tantomeno di un progresso. Sherlock non sarebbe più stato Sherlock in quel caso e questa semplice constatazione era bastata a renderla obiettivamente la peggiore delle congetture ipotetiche.
Ora Molly ha imparato che il proprio ‘sentire’ non ha limiti di sorta.
Sì, Molly conosce esattamente la misura di quel sentire e anche dove conduca.

 

*

 

ietro un accenno di sorriso. Cammina fiera, petto in fuori ma sbircia alle sue spalle sperando di essere seguita dal ricordo. Sbatte la porta sperando che non si chiuda del tutto e si nutrirà di quello spiraglio. La riconosci all’istante nello sguardo di chi hai di fronte perché ti trapassa alla ricerca di un rimpianto. La malinconia non è per tutti. E’ un fregio complesso per gli animi semplici.
Michelangelo Da Pisaietro un accenno di sorriso. Cammina fiera, petto in fuori ma sbircia alle sue spalle sperando di essere seguita dal ricordo. Sbatte la porta sperando che non si chiuda del tutto e si nutrirà di quello spiraglio. La riconosci all’istante nello sguardo di chi hai di fronte perché ti trapassa alla ricerca di un rimpianto. La malinconia non è per tutti. E’ un fregio complesso per gli animi semplici.
Michelangelo Da
In coscienza Molly sa di aver agito per il meglio con la stessa sicurezza con cui sa che non avrebbe potuto comportarsi in modo diverso. (La coercizione la scagionava? Non se l’imposizione arrivava dal cuore, da ogni parte dell’anima.)
Il meglio non è sempre bene e neppure completamente male. È una via di mezzo.
Molly, in piedi di fronte al bivio, non muove un passo in nessuna delle due biforcazioni.

Nella strada bianca, quella giusta, dove tutto è onesto e vero, Molly dovrebbe raccontare la verità a John e Mary, Greg e la signora Hudson. Uccidendoli. Uccidendo lui.
Nella strada nera, quella ingiusta, dove tutto è scorretto e falso, Molly dovrebbe mentire a John e Mary, Greg e la signora Hudson. Salvandoli. Salvando lui.
In entrambe le direzioni c’è dannazione e salvazione. 
C’è una terza strada, però, se l’è appena fabbricata. È la strada della solitudine, dell’espiazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La misura del sentire

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Non puoi ucciderlo.”

“E perché no, John?” Sherlock prende la pistola, come se stesse pregustando il momento in cui la userà. Ha il fuoco negli occhi e il profilo del suo volto risulta spettrale nella penombra dell’appartamento desolato. “Dimentichi che ho ucciso per molto meno.”
È una sentenza di morte.
Non può dire che gli dispiaccia. Le mani gli prudono dello stesso desiderio di sangue e morte che sembra aver afferrato Sherlock. Vendetta grida il suo sguardo. E vendetta sia, pensa John. Occhio per occhio.
Questa volta non lo fermerà. No, non lo fermerà.
Prende a propria volta la pistola e la nasconde nella tasca interna del cappotto.

 

*

 

“È morta. Molly Hooper ha fatto BUM!” Moriarty, in completo Vivienne Westwood e ghigno folle, accompagna l’ultima parola mimando la dinamica di un’esplosione.
John sente un morso avvelenato alle viscere, repulsione e nausea, mentre serra la mano attorno all’impugnatura della pistola. Lo ha sotto tiro e basta una parola di Sherlock perché gli spari. Al diavolo la Legge. Ha un debito da saldare nei confronti di Sherlock che neppure le scuse ufficiali di mezza nazione e un pezzo di carta controfirmata dalla Regina in persona sono riusciti a saldare ai propri occhi.
“Avevo deciso di spedirti una ciocca di capelli o un dito, qualcosa che tu potessi tenere come souvenir. Non di lei, ma di me,” indica se stesso e poi Sherlock, “che sono più furbo di te.”
“Perché non l’hai fatto?” domanda Sherlock, senza impregnare la richiesta di alcun tono particolare. Non compare neppure l’eco della furia omicida di poche ore prima. Alto e solido, Sherlock è un manichino di accurata eleganza, un abisso che si affaccia sull’ignoto. È tutta una facciata costruita a regola d’arte. Ha serrato i ranghi e chiuso le fila. Nulla è stato lasciato al caso.
Moriarty reagisce come previsto. Sembra deliziato dalla voce priva di intonazione che Sherlock ha usato. Si esamina le unghie, indirizzandogli occhiatine di sottecchi e quel sorriso di disgustoso compiacimento non lo abbandona. “Non c’era poi molto da prelevare. Alla fine non è stata più così graziosa. Ma tu lo sai, hai visto il suo corpo. Lei hai dato un ultimo bacio? Hai cercato di svegliarla come la principessa perduta di una favola? Oh, se soltanto potessi vederti! Il tuo dolore, Sherlock, è la mia vittoria. Strapparti il cuore dal petto, ricordi la mia promessa? E si tratta solo dell’inizio.”

 

*

 

“Da quando complotti con Mycroft?”
“Da quando questo può salvarti la vita.”
Non c’è ombra di indecisione o pentimento in Molly.
Sherlock le volta le spalle quando in realtà vorrebbe muoversi nella direzione opposta.
Verso di lei. Lontano da lei. Mai con lei. Quella possibilità, se mai c’è stata, è sfumata nel tempo, giace tra le salme delle altre sprecate.
“Sacrificandomi, John e Mary erano salvi,” sta dicendo Molly. “Relativamente parlando, s'intende. E così la bambina.”
“Margaret,” rettifica lui meccanicamente.
Non un alito o un tremito di emozione le brilla nello sguardo fiero, soltanto il presentimento di ciò che seguirà e in parte un guizzo di consapevolezza.
“Margaret,” prosegue Sherlock, inespressivo, “perché il tuo nome era diventato troppo difficile da pronunciare.”
Non per lui. Lui si è sentito braccato da quel nome, colpito dal suo nome come da pugnalate sferrate a tradimento. Colpi inferti a fondo nella carne, che lo lasciavano lacero, sanguinante e pesto dentro, intanto fuori rimaneva vivo il riflesso di un fantasma, il ricordo del passato.

Molly Molly Molly.
Nessuno ha più avuto l’audacia di ripetere quel nome davanti a lui, dopo la prima volta. (Il sangue sulle mani scorticate, i frammenti sparsi sul tappeto e gli occhi allucinati che lo osservavano di rimando da una scheggia superstite dello specchio sopra al camino.) E alla fine, lo sforzo di parlare di lei senza pronunciare il suo nome non ha che esacerbato la ferita. Gli altri hanno smesso di ripeterlo e lui ha ripreso a farlo, ininterrottamente, con il furore febbricitante di un invasato e il timore di un condannato che vada al patibolo. Il timore di dimenticare anche lui, di andare avanti.
Molly Molly Molly Molly.
No, non avrebbe potuto dimenticare neppure volendo. La lealtà ripagata col sacrificio più alto, nel nome di quei sentimenti che lui ha dato prova di disprezzare; l’amore con il dolore; la fiducia e la vita con la morte. I regali che lei gli ha fatto negli anni, lui li ha ripagati con i loro ossimori.  
“Mi hai mentito.”
“Sì, l’ho fatto.”
Vorrebbe scrollarla con forza. O forse no. No, non scrollarla.
È rabbia? È sollievo? È gratitudine? Ma nei confronti di chi? Di lei che lo ha tradito? Che ha tramato alle sua spalle?
Mentire a fin di bene, come unica possibilità di salvezza, in conformità di un piano più elaborato.
Cosa c’è da capire? Tutto. E niente.
Cosa c’è da perdonare? Tutto. E niente.
La domanda è: lui vuole farlo?
La risposta, destabilizzante: lo ha già fatto.
(Non è neanche allora che la bacia.)

 

*

 

Rivederla all’opera, nell’obitorio che è il suo dominio, lo costringe ad andarsene, la prima volta.
È tornata e sta bene, ma non è quello il punto, non lo è mai stato.
Il punto è che non sarebbe mai dovuta andare via.

 

*

 

“Rivoglio il mio gatto.”
Molly è là, pallida e determinata, che stringe un ombrello rosso che gocciola acqua sul pavimento.
Sherlock sapeva che fosse lei prima ancora che aprisse bocca o che la silhouette di lei si delineasse tra le porte scorrevoli della cucina. L’ha riconosciuta dal rumore impercettibile dei passi, passi che rimangono leggeri anche quando intrisi di risoluzione, insieme al profumo che la precede, di fiori e qualcosa che ha a che fare con l’igienizzante che si applica sulle mani prima di entrare al Barts e ogni volta che ne esce.
“Rivoglio Toby.”
Sherlock non si dà pena di scostare gli occhi dal microscopio e Molly passa all’attacco e occupa con la mano lo spazio tra l’obiettivo e il tavolino con fermacampione.
Con deliberata lentezza, affettando indifferenza, Sherlock mostra di accorgersi della presenza di lei e ne accetta con un sospiro pregno – esasperazione, tedio, fastidio - l’interruzione che ne sarà, è già, conseguenza.
Si scambiano un breve sguardo e a quello sguardo non si accodano saluti o frasi di rito. Hanno smesso di esserci da tempo. I muri di vocaboli vuoti come ‘circostanza’, ‘apparenza’, ‘convenienza’ sono crollati a colpi di realtà. Altri sono stati subito innalzati a rimpiazzarli, sulle macerie dei precedenti, a colpi di omissioni e menzogne.
Sherlock guarda verso il salotto, dove è pressoché certo che si trovi Toby. Sono tre i nascondigli che predilige: sotto il divano, dietro la scrivania o sulla poltrona di John. Il fatto che Molly, entrando, non lo abbia notato lo convince per il rifugio del divano.
Sconcertante, comunque, c’è il fatto che il gatto non si sia lanciato verso la padrona.
La pioggia ne ha alterato l’odore? O forse è il tempo trascorso, la separazione? La pioggia e il tempo schierati da una parte, il senso di abbandono dall’altro.
Ancora più sconcertante c’è che lui si scopri a provare empatia per un gatto.
Potrebbe rifiutare di restituirglielo. Potrebbe appellarsi a cavilli giuridici, all’acquisto di proprietà della cosa ritrovata. Potrebbe, invece mette a tacere l’ostilità.
Con un gesto blando del braccio descrive un arco accurato che indica il salotto. “Allora riprenditelo,” la invita e non suona affatto come una sfida.
Molly esita visibilmente, dopo mesi di visi duri e dignitosi, di labbra serrate e cucite in una calma fittizia. Appare ferita dalla sua placidità, dall’arrendevolezza dei suoi modi.
È un rifiuto anche quello, né più né meno, ma di un tipo diverso da quello che ha contraddistinto i loro rapporti nell’ultimo mese, come ruggine in un ingranaggio altrimenti perfettamente funzionante.
Rabbia, rancore, livore, rimprovero. Questo è qualcosa che lei può comprendere e accettare. Sono reazioni che si aspetta. Il suo tono noncurante e insieme freddo, il ritorno in auge di tempi remotissimi che entrambi ritenevano andati, no, di più, morti e sepolti. Questo la ferisce come non sono riusciti a fare i suoi silenzi e le asprezze, le piccole rappresaglie che ha messo in piedi a suo danno – passarle accanto nei corridoi del Barts e fingere di non vederla, mandare Wiggins a ritirare le analisi al posto suo, convincere Mike Stamford a farlo lavorare con tutti gli idioti incapaci che sono suoi colleghi anche e soprattutto durante i suoi turni.
Molly esita, quindi, e Sherlock prova uno scampolo di sentimento nel vederla irrigidire le spalle e contrarre la mandibola. Forse è colpa o rimorso.
Lei si sposta in salotto, chiama il gatto e Sherlock è colto dalla piena e tardiva comprensione di cosa significhi “mettere il cuore nella voce”.
Toby, nonostante i richiami accorati, non esce, non si mostra.
Di nuovo, empatia. Esiste qualcun altro più accanito di lui nel non dimenticare.
Di nuovo, lievissimo palpito presto calpestato, il rimorso.
Molly si china, ginocchia che strisciano sul pavimento polveroso, allunga la mano sotto al divano.
Sherlock sente e immagina, più che osservare, il soffiare astioso di Toby e il richiamo addolorato di Molly. Una manciata di secondi dopo, lei ritrae la mano graffiata, chiaramente sorpresa.
Le spalle non sono più rigide, la bocca non è più contratta. La tristezza divampa, fa impallidire il resto del suo viso che è sempre stato troppo pallido ed emotivo.
(È allora che la bacia? Potrebbe.
E invece no.)
La vede andare via e della fermezza con cui lo ha affrontato non è rimasta che cenere sfiduciata.

 

*

 

“Non mi perdonerà.” È un dato di fatto quello. Sherlock non le perdonerà quell’atto di presunzione e indipendenza, non glielo perdonerà perché andrà a intaccare le proprie.
“Non facilmente,” concede Mycroft, stirando le lunghe dita pallide e intrecciandole sopra la corona di incartamenti che affollano la scrivania, “e non nell’immediato, ma lo farà. È di Sherlock che stiamo parlando. D’altronde sarebbe quanto mai ipocrita da parte sua non perdonarle qualcosa di cui lui stesso si è macchiato in passato, non trova?”

Ipocrita, fa eco la mente addolorata di Molly. Capisce il gioco di Mycroft. Ne ha intuito la linea di portata appena entrata, tuttavia adesso le sembra di riuscire a scorgere con estrema precisione le trame che le si stringono contro, come la malia di un genio cattivo. 
No. Scuote brevemente la testa. No, non lo fermerà.
“Questo non lo fermerà.”
“Non lo ha mai fatto.” Mycroft non ha più quella luce di compassione che le ha riservato fino a un attimo prima. Forse si aspettava pianti, forse si aspettava di dover utilizzare le sue migliori doti persuasive per convincerla. “Ci saranno ripercussioni,” sta proseguendo, “com’è ovvio presumere, eccessi di cattivo umore nei mesi a venire. Nulla i cui danni ed effetti collaterali non possano essere circoscritti.”
Tra gli effetti collaterali, entrambi pensano senza dirlo a voce alta, ci sarà la disperazione dell’uomo che entrambi amano più della loro stessa vita.
Diventare il catalizzatore dell’attenzione di Moriarty e così facendo, farsi odiare per amore.
È arrivata fino a quel punto la misura del suo sentire, al silenzio.  

 

*

 

“Ti sei fatta carico del mondo.”
Molly tace avvilita prima di rivolgersi a lui con aria di avvertimento. “Non del mondo, Sherlock, del tuo mondo che, guarda caso, è anche il mio. E ha funzionato, no?”
“Saresti potuta morire.”
“So come lavorare con la morte.”
Lavorare con la morte, le ragioni dietro il suo essere, nell’agire di che ne induce lo stato. Anche lui riteneva di esserne capace. Ne è stato sicuro fino a quando non si è ritrovato nell’impossibilità di farlo, incapace di elaborare un lutto e nel lutto l’ineluttabile realtà: averla persa e doverle dire addio. ‘Basta un singolo lutto e cadiamo in pezzi come vetro’, John aveva scritto nel suo blog senza ulteriori aggiunte.
“Sono passati due mesi, Sherlock. Quanto ti ci vorrà per perdonarmi? A John sono bastati due giorni per perdonare te.”
“Io non sono John.”
“No, non lo sei.”
Negli occhi scuri di Molly Hooper si rincorrono vecchi fantasmi, labili richiami a quella che è stata la sua vita, insieme a ragnatele più recenti: accettazione della differenza tra sé e John e una comprensione più sottile e profonda, cioè che se lui fosse stato come John Watson non lo avrebbe amato allo stesso modo.
(Avrebbe potuto baciarla allora.
Era stata la prima volta che si era pentito di non averlo fatto.)

 

*

 

“Quando hai intenzione di metterci una pietra sopra?”
Mai.
John si massaggia la porzione di pelle tra le sopracciglia con due dita. Ha rughe incipienti sulla fronte e agli angoli della bocca, solchi che non sono sfregi prematuri del tempo, ma di troppe avventure insieme. I casi, presto o tardi, mi renderanno i capelli bianchi, ha preso a scherzare. Sherlock non ride. L’idea del tempo, volubile e inafferrabile, è una delle poche cose in grado di sconvolgerlo. Il tempo è qualcosa di relativo e contemporaneamente ne senti lo scorrere come grani di sabbia in una clessidra capovolta.
Chiude gli occhi.
In quello stesso momento ha otto anni e sta inseguendo Barbarossa sul versante della collina dietro casa. Sente il vento fluire sotto i piedi mentre corre, il cielo gli riempie gli occhi e nulla può fermarlo.
Ne ha dodici e sta seppellendo il suo primo amico. Ha scoperto che la vita indossa per vestiti le spire di un serpente, bisogna guardarsi dai suoi abbracci perché a metà di un piacere, mentre sei distratto, ne approfitta per colpirti alle spalle. 
Ne ha ventuno ed è alla sua quarta riabilitazione. Mike Stamford gli presenta una sua studentessa. Ha capelli color mogano legati in un nido di rondine e trattenuti da una fascia colorata, occhi di mercurio che lo guardano timorosi dietro la montatura degli occhiali da vista.
Ne ha trenta e ha al fianco l’uomo migliore che conosca. L’uomo è un soldato e un dottore, ha una risata vociante e scrolla le spalle senza cattiveria quando crede che lui abbia superato il limite.
Ne ha trentaquattro e ha giurato di proteggere ciò che gli è caro a qualunque costo. Le persone che gli sono care occupano una mano piena ed è per permettere che ce ne sia una sesta che uccide un uomo.  
Ne ha trentasei e Molly Hooper è morta e poi di nuovo viva.

Mai. Non glielo perdonerà mai. Decidere di perdonarla non è forse mettere una pietra sopra alla faccenda?
“Ti comporti da bambino petulante.”
“No,” gli dirà Mary due giorni più tardi. “Ti comporti da uomo innamorato che è stato tradito. John dovrebbe capirlo.” Suona incredula per la mancanza di perspicacia dimostrata dal marito.
“Perché sa come ci si sente?”
Mary non si offende. Sa che è vero e sa anche meglio di lui, meglio di chiunque altro tra loro, che la verità non è sempre gentile. Quelle espresse da lui, poco gentili, lo sono sempre state, ma adesso, quando le comunica, sono accompagnate da una certa luce e un certo calore, dalla curva un po’ obliqua del suo sorriso sghimbescio.
[“Vedo il ghiaccio che si scioglie, fratellino. Attento a non mostrare quanto si nasconde al di sotto.”]
I suoi affetti gli sono sempre stati cari, ma dopo che ha rischiato di perderli e dopo aver rinunciato a loro per metterli in salvo, dopo che ha avuto lo scorcio della vita che avrebbe avuto senza di loro, ha smesso l’abito del dissimulatore e ha appeso al gancio la maschera dell’indifferenza.
A che pro? Basta fingere e basta mentire. In pericolo, per colpa sua, lo sono stati sin dall’inizio, lo saranno per il resto dei loro giorni.
È questo che non può perdonarle.
Lei ha visto. Lei sa.
Il prezzo del provare, il costo del sentire.
Lei li conosce.
Saperlo, a quanto pare, non le ha impedito di spezzargli il cuore.
 

*

 

L’espressione di Mycroft, la sua voce, tutta eloquenza e retorica da quattro soldi, quando ha scoperto il tranello. Ci sei caduto dentro con tutto le scarpe. 
“L’allievo supera il maestro.” Si riferiva a Molly che, nell’angolo opposto della stanza, se ne stava dritta e impettita, il mento sollevato. Soltanto il suo sguardo mostrava il panorama completo della sua disperazione.
“Come ci sente, Sherlock?”

Come ci si sente a guastare chi ti circonda?
Traditi, ecco come.

 

*

 

“Dimmi, Sherlock, come ci si sente? A perdere il cuore, intendo.”
Sherlock vuole mettergli le mani al collo e stringere, stringere fino a fargli esplodere le cavità oculari, oppure, perché no, ucciderlo per asfissia da compressione. Comprimergli l’addome fino a farlo soffocare nei suoi succhi gastrici. Vuole che chieda pietà e vuole essere l’uomo che gliela nega. E, dopo che sarà morto, vuole annegare nelle orbite vuote di Moriarty la voragine che la morte di Molly Hooper gli ha scavato dentro.
“È bruciata gridando il tuo nome, ma tu non sei arrivato a salvarla. Hai fallito.”
Sente l’imprecazione di John, il crocchiare della mano che non stringe la pistola, l’odio che si dirama e che è speculare al proprio.
Sì, ha fallito. Non si permetterà di sbagliare una seconda volta. Eppure, nonostante le premesse, non è il suo dito a premere il grilletto. È Mary. Mary che vendica parte della famiglia. [“Non c’è nulla che non farei per la mia famiglia. La mia famiglia sono i miei amici.”]

 

*

 

La faccia sbiancata di Molly quando è piombato come una furia nell’ufficio di Mycroft, sbattendo la porta, la sua immobilità statuaria.
Il microsguardo di Anthea, che ha distolto per un attimo gli occhi dal blackberry e li ha puntati su entrambi, come se fossero esemplari rari di una specie in via di estinzione.
Non ha chiesto scusa. Molly non ha detto neppure una volta che le dispiaceva.
È questo che non le perdona?
Neppure lui lo ha fatto. Non ha chiesto scusa per aver ucciso un uomo. Non ha chiesto scusa a Mary per averle detto di ucciderne un altro al posto suo.
Ma ha chiesto scusa per essere morto e anche per non essere morto.
Ha chiesto scusa a John perché era quello di cui aveva bisogno per voltare pagina.
Sherlock non ha mai avuto bisogno di essere perdonato, non c’era niente da perdonare. Non ha fatto ciò che era giusto. La giustizia, dicono, è cieca, tanto è vero che anche i criminali vi si appellano, si credono nel giusto.
Ha fatto ciò che andava fatto perché era l’unica opzione ragionevole. Per questo riconosce che quella di Molly sia stata una mossa magistrale, risolutiva per stanare Moriarty.
Non c’è nulla da perdonare anche nel caso di lei, ma.
Ma.
Non può dimenticare che Molly Hooper sia morta.
Ieri era morta, oggi è viva e domani, chissà.
No, non può dimenticare.

 

*

 

“Non ci riesci proprio, vero?” La voce di Molly lo raggiunge nel limbo in cui si trova con la consistenza fasulla di antiche storie che ha immagazzinato. “Sapevo cosa stavo facendo. Sapevo che tu…” Le mancano le parole, o piuttosto il coraggio per pronunciarle. No, non il coraggio. Molly è una leonessa, lo è sempre stata, ma era priva dell’autoconsapevolezza. Non è questione di coraggio, quindi. Quello che la trattiene è altro. Molly è sprovvista dell’insensibilità, della fredda e spietata logica che le occorrerebbe per pronunciarle. La verità può essere crudele. Molly non potrebbe mai esserlo deliberatamente. Per lei si riduce tutto a una questione di vita o di morte. La vita di quelli che ama in cambio della sua. Una morte in cambio di una vita. La soluzione con cui nessuno dovrebbe scendere a patti, il compromesso che implica l’immolazione.
La voce di Molly sa di lacrime, ma Sherlock sa che non ne troverebbe traccia sui suoi lineamenti. “Sherlock, volevo dirtelo. Ogni istante in cui non l’ho fatto, in cui non ti ho fatto sapere che ero viva, l’ho odiato, ho odiato me. Se avessi ceduto, tutto il dolore che avevo provocato, tutto quanto, a che sarebbe servito? Non potevo tornare e non potevo dirtelo, anche se volevo farlo, lo volevo disperatamente. E mi dispiace, ma non posso dirti che mi dispiace perché lo rifarei. Se tornassi indietro lo rifarei.”
Lo rifarei.
Mi dispiace, ma lo rifarei.
Mi dispiace.
Quando ha detto a John che gli dispiaceva non ha mentito, ma non è stato del tutto sincero. Non gli dispiaceva di averlo ingannato perché quello, quello gli aveva salvato la vita. Non gli dispiaceva per le conseguenze della menzogna, perché, tra le altre, c’era da annoverarsi la salvezza sua e degli altri. Ciò che gli dispiaceva davvero era di aver impiegato tanto a tornare e ancora prima di essere stato costretto a partire. Non la causa, non l’effetto, ma la concatenazione di eventi. Gli dispiaceva perché non era pentito.
Mi dispiace, ma lo rifarei se necessario.
È come lui. Molly è come lui.
Sherlock batte le palpebre, registrando dal chiaroscuro nella stanza il tempo che ha trascorso altrove.
Sa che quel fremito è inquietante e gli fa assomigliare le ciglia a zampe di ragno, o così ci ha tenuto a informalo John.  
Batte le palpebre per accorgersi di essere solo nell’appartamento vuoto. Il tappeto rosso appare stinto sotto lo strato di polvere che lo ricopre e che ad ogni minima vibrazione si spande nell’aria in una danza macabra da romanzo gotico.
Toby, sul davanzale della finestra, si sta facendo le unghie su un’edizione di BREVE STORIA DEL TEMPO di Stephen Hawking. Non che gli importi. È stato il regolo di un cliente con evidenti problemi di senso dello humour e lui non ha mai avuto intenzione di leggerlo.
Toby, sentendosi osservato, smette la sua progressiva opera di demolizione. Arcua la schiena e agita la coda nera come una frusta per poi fare un balzo verso la porta chiusa e cominciare a grattarne il legno.

Empatia.
Se perfino un gatto smette di dargli il beneplacito del dubbio, forse la situazione si è spinta troppo oltre.
 

*

 

“Un attimo soltanto, per piacere. Finisco di analizzare questo campione e sono subito da te. Anche se sul serio, John, ti avevo detto che sarei venuta da sola, non era necessario che – Sherlock.” È impietrita.
Lui la fissa educatamente, ma inarca un sopracciglio, perplesso dallo sbigottimento di Molly.
“Scusa.” Molly evita di guardarlo direttamente e incomincia a sfilarsi i guanti di lattice. Ne sfila uno, ma non riesce a sfilare l’altro perché le tremano le mani. Senza fare commenti, Sherlock nota ogni particolare, come abbia serrato la mano che ancora calza il guanto attorno al bordo del tavolo da lavoro, come si stia sfregando gli occhi, che sono rossi e gonfi.
“Scusa,” ripete lei, “mi hai presa in contropiede. Non sono più abituata a vederti in laboratorio. Di solito mandi Wiggins.”
È bastato così poco perché si abituasse all’idea della sua assenza?
(Loro possono vivere senza di te e che la loro vita sia migliore o peggiore, qualitativamente, ha qualche importanza?

Loro possono vivere senza di te, hanno capacità di adattamento diverse dalle tue, sanno far fronte alle avversità dei sentimenti.
Tu, invece, in quei famosi due anni hai scoperto di non poter fare a meno di loro. Che, a conti fatti, la prospettiva di una vita senza di loro non ti interessa
.)
È bastato così poco? A quanto pare sì e no.
“Non preoccuparti,” sta dicendo Molly, intanto che raduna i fogli dei suoi appunti in una pila poco strutturata. “Sto andando via. Ti serve qualcosa? Domanda stupida, dimentica che l’abbia fatta. Se anche ti servisse aiuto, non lo accetteresti più da me.” Parlantina veloce, rapido susseguirsi di espressioni e ripensamenti. Molly fa una risata vuota, amareggiata e i suoi occhi sono opachi e stanchi. “Ormai mi odi, l’impegno con cui ci hai tenuto a dimostrarlo lo ha reso piuttosto esplicito.”

Lei pensa che la odi.
“Non ti odio,” si ritrova a controbattere in tono grave, misurato.
Molly trasale come se l’avesse colpita fisicamente. Ha ancora il guanto di latice mezzo infilato. Sherlock le prende la mano e glielo sfila, non badando al battito accelerato che sente sotto i polpastrelli. Lei lo fissa ad occhi sgranati, miracolosamente non più cupi come fino a pochi attimi prima. Può vedere le lacrime farsi strada prima ancora che le raggiungano le cornee.

No, non è affatto odio quello che prova.
La abbraccia e quasi istantaneamente percepisce Molly tendersi in quell’abbraccio e poi rilassarsi quando gli passa le braccia attorno al collo e si alza sulle punte. Per contro lui si china in avanti.
Quasi gli dispiace di averci impiegato tanto a capire e glielo sta per dire.
Le dita di Molly, morbide e affusolate, gli tastano le guance e la mandibola, le tempie, come se non credessero alla solidità del viso che respira ad un tiro di schioppo dal suo.
Sherlock le dice l’unica cosa che conti. Sa che capirà perché lo ha sempre fatto.
“Bentornata,” sussurra al suo orecchio, come lei ha fatto tre anni prima.
Molly ride ed è allora che succede. È allora che la bacia. La bacia e per un istante trionfale tutto ciò che ha preceduto quel bacio e tutto ciò che seguirà, il brulicare in fermento della propria testa, ogni cosa tace. 

La misura del suo sentire, comprende, è stato l’orgoglio. 

 

   

 



N/A:

Torno, in una toccata e fuga lo premetto, con questa storia ambigua e tendente al nonsense. L’introspettivo spadroneggia, con schiacciante vittoria del punto di vista di Sherlock su quello degli altri. Una di quelle cose che si scrivono quasi da sole, ma che poi, al rileggerle, ti chiedi d’istinto: ‘e adesso che ci faccio?’.  Questa è stata esattamente la mia reazione.
La trama, praticamente assente, si sviluppa nei nebulosi mesi che seguono la morte di Moriarty e fanno intuire (ci riescono, vero? Oddio, lo spero xD) quanto lo ha preceduto. Cioè che Molly, convinta da Mycroft, ha finto la propria morte così come ha fatto Sherlock in precedenza e, proprio come Sherlock, non le è stato permesso dirlo a nessuno dei suoi amici perché le loro reazioni dovevano essere autentiche e credibili. Molly lo fa, odiandosi nel farlo e sapendo di meritarsi l’odio di Sherlock, perché come lei stessa pensa è pronta a farsi odiare per il suo amore e questa, signori, è esattamente la misura del suo amore, la misura del suo sentire che è il silenzio e il sacrificio. 
Lì lì, mentre la scrivevo, ammetto di essere stata attraversata dall’idea di farne una long, ma sarebbe stato troppo impegnativo e quindi ho lasciato tutto così com’è. Inoltre sto cercando di impegnarmi in un’altra storia, una abbastanza lunga e abbastanza complessa che è una AU ed è qualcosa di vecchio che ho in testa da tipo due anni e qualche mese. Insomma, ho deciso che è giunto il momento di metterla su carta, ma il processo si sta rivelando più complicato del previsto e ci sono ostacoli ad ogni crocevia.

Spero come sempre che la lettura sia stata di vostro gradimento e che vi abbia trasmesso qualcosa. Un abbraccio fortissimo, spero di ritornare prestissimo :)

  
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