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Autore: fuoritema    02/02/2015    3 recensioni
Con «Sonata al chiaro di luna» s'intende il bombardamento della città di Coventry, attuato da aerei tedeschi nella notte tra il 14 Novembre 1940 e il 15.
***
Dicevano che, se riuscivi ad arrivare fino a dieci, le bombe non ti avrebbero beccato neppure di striscio, e Neville un po' ci sperava. Certo, sapeva che era tutta una questione di probabilità: la radio lo ripeteva così spesso che ormai le probabilità gli erano entrate in testa, senza che neppure sapesse cosa fossero. Eppure quella parola così altisonante non lo tranquillizzava, perché tutte quelle b lo facevano perdere. [...]
Si era sempre chiesto come facessero i suoi compagni a sapere con tale certezza che al dieci tutti i pericoli sarebbero finiti, quando andava avanti così da tempo. Londra era stata più colpita della sua città – lo diceva pure la radio – ma gli speaker erano spesso dei gran bugiardi. Avevano detto che la guerra non era un affare importante, l'avevano dipinta simile a una battaglia navale, eppure le case bruciate non erano semplici X su un pezzo di carta: erano vere, loro. Se una barca nella casella A4 veniva affondata, non era un affare di Stato.
Genere: Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A mia nonna,
che non ha fatto in tempo a vederla venire alla luce.




Sonata al chiaro di luna




parte I
Il dado a sette facce






Neville odiava i numeri, eppure durante i bombardamenti gli chiedeva aiuto lo stesso. Sembravano scorrergli davanti, mentre il rombo degli aerei si mischiava a quello prodotto dalle bombe che cadevano sulla strada, incendiando, uccidendo, inghiottendo – proprio come la bocca di un famelico animale – ogni cosa che si trovavano davanti. In quei momenti il bambino, stretto tra le coperte, pensava che il rosso portava più morte del nero, già di per sé il colore del lutto per eccellenza. Se avesse potuto disegnare ciò che accadeva all’esterno – sbirciando oltre le persiane sbarrate – ne sarebbero usciti solo tratti impazziti tra il giallo e il cremisi, come in un quadro impressionista uscito male. Poi ci sarebbero stati i numeri, neri e ripassati più volte con la penna, che imbrattavano il cielo plumbeo.
Uno, due, tre.
Dicevano che, se riuscivi ad arrivare fino a dieci, le bombe non ti avrebbero beccato neppure di striscio, e Neville un po’ ci sperava. Certo, sapeva che era tutta una questione di probabilità: la radio lo ripeteva così spesso che ormai le probabilità gli erano entrate in testa, senza che neppure sapesse cosa fossero. Eppure quella parola così altisonante non lo tranquillizzava, perché tutte quelle b lo facevano perdere, e ogni volta che provava a pronunciarla invertiva le lettere o ne dimenticava qualcuna per strada.
Con quell’ultimo pensiero, iniziò a contare a mezza voce, accompagnando i numeri a dei movimenti compiuti con la calma dell’abitudine. Uno: il maglione è sgualcito, prendilo con le dita a pinzetta proprio sulle spalle. Due: non piegarlo così, scemo, la parte a destra deve corrispondere a quella a sinistra. Al tre era arrivato a sistemarlo in maniera quanto meno decente, sebbene le maniche fossero spiegazzate e aveva sicuramente fatto dei lavori migliori le volte prima, ma non aveva più voglia di dedicare del tempo a tutto ciò. Tanto si sarebbe sgualcito comunque, tra tutti i trasporti su e giù che gli faceva fare. Se non se lo fosse portato con sé ogni volta, l’indumento avrebbe iniziato a puzzare di stantio proprio come le coperte.
Quando ebbe finito quell'ingrato lavoro, fissando il soffitto, Neville riprese a concentrarsi sulla sua successione di numeri.
Sua madre e suo fratello Sean si erano messi a dormire sulle coperte ammassate nell’altra stanza, perché la prospettiva dell’ennesimo attacco aereo li aveva sfiancati più dell’attacco stesso. Sbadigliò. Forse, se si fosse unito a loro, il dolore alla pancia avrebbe smesso di tormentarlo in modo così insopportabile. Non era mal di pancia vero, Neville ne era convinto, perché se si metteva prono su una coperta non accennava ad andar via.
Quattro, cinque.
Un rumore sordo persisteva nell’aria, entrando nella casa dal camino, quello dell’ennesima bomba che si sarebbe schiantata a terra. Mentre lo ascoltava, i due numeri gli uscirono dalla bocca come un lamento. Strinse gli occhi. Si era sempre chiesto come facessero i suoi compagni a sapere con tale certezza che al dieci tutti i pericoli sarebbero finiti, quando andava avanti così da tempo. Londra era stata più colpita della sua città – lo diceva pure la radio – ma gli speaker erano spesso dei gran bugiardi. Avevano detto che la guerra non era un affare importante, l’avevano dipinta simile a una battaglia navale, eppure le case bruciate non erano semplici X su un pezzo di carta: erano vere, loro. Se una barca nella casella A4 veniva affondata, non se ne parlava per giorni ininterrottamente perché il padre del cugino della bottegaia dove prendevano i generi di conforto conosceva uno dei morti. Se perdevi una partita, non era un affare di Stato.
Sei.
Neville si lasciò cadere sul cuscino, senza pronunciarlo neppure. Era tentato di arrivare fino al dieci – alla sua salvezza – tutto di un soffio, pronunciando i numeri a raffica, ma sapeva che sarebbe stato come barare. E se bari, poi vieni qualificato. Sean non gli aveva mai parlato di una squalifica in tempo di guerra, quale potesse essere la penitenza, eppure qualcosa gli diceva che le bombe c’entravano qualcosa. Forse piovevano dal cielo perché lassù qualcuno aveva giocato sporco, rifletté. S’immaginò per un attimo gli aviatori, con le loro lunghe sciarpe e gli occhialoni dalle lenti spesse come fondi di bottiglia, che muovevano le pedine su un tabellone per il Gioco dell’Oca.
— Ho fatto sette.
— Non è possibile, si arriva solo fino a sei.
— Ma ti dico che è così!
Il tedesco tirava l’altro per il braccio, quasi intimandogli di non dire altro, e boom! L’eco dello scoppio, generato dalla caduta di una bomba dalla sacca dell’inglese, non arrivava neppure a quei due idioti, perché erano troppo in alto per sentirlo anche solo come un flebile suono di morte. Potevano udire, invece, il frusciare dei loro stupidi giacconi militari al vento. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, no?
Sette, otto, nove.
Decise che avrebbe assaporato la fine come una pietanza prelibatissima, gustandosela pian piano. Dall’altra stanza gli arrivavano distinti gli sbadigli di sua madre, ancora in allerta per via della sirena. Il bambino si sarebbe voluto andare a sedere vicino a lei, passarle una mano sui capelli sudati e chiederle perché si manteneva sotto la coperta come gli Spartiati sotto il loro scudo. Anche se l’aria era pesante, là sotto, di Heather non faceva capolino più di qualche ciocca di capelli scuri e le dita di una mano che soffriva troppo a stare costretta sotto il cuscino. Non aveva sempre dormito così: prima della guerra le piaceva sentire il leggero soffio del vento sulla pelle, si sentiva protetta da suo marito e dal tetto della casa e dalla stabilità del cielo da cui non cadeva altro che pioggia, se proprio doveva cadere qualcosa. In quegli ultimi tempi gli era parso che non si fidasse più di nulla: non immaginando il ritorno del suo soldato, aveva perso quel poco di speranza che le rimaneva. Per questo aveva bisogno della coperta: credeva che le mani di Oak non l’avrebbero più riparata.
Dieci.
Tirando un sospiro di sollievo, Neville lasciò che le sue mani gli circondassero le gambe, facendo ricadere la testa sulle ginocchia. Era salvo. Negli occhi azzurri, chiusi, erano intrappolati tutti gli incubi che aveva fatto sulle bombe cadenti. I due aviatori se n’erano andati, si poteva sentire il rombo dei loro motori in lontananza, e forse sarebbe finito per terra anche l’infausto dado a sette facce. Ma finì per terra ben altro, che fece allontanare contemporaneamente il bambino dalle sue coperte e le sue coperte da lui.
Sospeso tra sogno e realtà, le orecchie che si rifiutavano di sentire altri scoppi, si alzò in piedi tra fili d’erba ingialliti, fuori dalla sua casa. E corse via mentre gli uomini dell’ambulanza discutevano su quanti morti ci fossero dentro la casa, imprigionati tra le travi.

*



Quando il fumo iniziò a dissolversi nell’aria – come se non fosse successo niente – Neville si fermò a riprendere fiato, proprio all’angolo dove tempo prima c’era una merceria. Ora solo macerie di un edificio diroccato, che sarebbe caduto al minimo movimento al suo interno. A quel solo pensiero, il dolore ricominciò a punzecchiare lo stomaco del bambino. Aveva già provato una sensazione simile alla partenza di suo padre, ma allora il suo cuore non batteva così forte da volergli uscire fuori dal petto. Se fosse successo – si disse – lo avrebbe raccolto da terra e rimesso apposto, sperando che funzionasse meglio del meccanismo dell’orologio in soggiorno e non si bloccasse allo scoccare di ogni ora. Era diventato più bravo rispetto ad allora, nell’aggiustare gli oggetti, e anche abbastanza più alto da poter guardare Oak negli occhi, quando sarebbe tornato. Se sarebbe tornato. Tirò su con il naso, scacciando quell’ultima ipotesi. Aveva sentito parlare dei signori in divisa che portavano messaggi di morte ovunque andassero, con i berretti tra la mani e uno sguardo di silenzioso compatimento che non serviva a nulla. Tua mamma gli apriva, ignara del pericolo, e insieme alla notizia arrivavano anche parole compassionevoli e strette di mano dettate dal protocollo. Un aiuto di cui lui non aveva bisogno, da cui era fuggito allo scoppiare della bomba e per cui detestava gli abbracci.
Quando aveva visto gli uomini dei soccorsi, era scappato troppo in fretta per girarsi un’ultima volta verso la casa, ma era certo che nella metà che si era piegata su sé stessa c’erano i letti di Heather e Sean. Per questo il dolore sordo al petto continuava a tormentarlo, insieme al rombo degli aerei e le lacrime che avrebbero voluto rigargli le guance. E avrebbe infranto la promessa fatta a suo padre, se avesse giurato con le parole, invece che col cuore.
— Ehi, tu!
Quell’esclamazione lo fece saltare e appiattire ancora di più sul muro cui si era appoggiato, mentre il suo casco da militare cadeva per terra con un tonfo. Lo aveva tra le mani al momento dell’esplosione: ci stava giocherellando e non si era sentito in vena di abbandonarlo proprio in quel momento. Conscio che ormai si era fatto scoprire, Neville si piegò silenziosamente per raccoglierlo, ma la sua mano toccò ben altro.
— Leva la tua mano dal mio cappello — esclamò con la voce grossa una figura incappucciata, appena il suo sguardo s’incontrò con quello di Neville. Il suo giaccone, più grande di due o tre taglie, nascondeva una femmina dai tratti delicati e gli occhi azzurri.
— Levala tu. È mio.
— E tu dov’eri quando è caduto per terra? Sei arrivato dopo di me, quindi è mio. — Il ragionamento non faceva una piega, si ritrovò ad ammettere Neville, se non fosse che il suo piede era arrivato prima che le dita di lei toccassero la visiera. Con una certa aria di superiorità, lo fece notare alla ragazzina, che ora sorrideva mettendo in mostra dei denti bianchissimi.
— Ma potrei benissimo prendermelo e andarmene.
— Te lo impedirei.
— Non sembri il tipo. Di’ un po’, cos’hai perso oltre al cappello? — Sedendosi su una cassetta, le gambe accavallate, la ragazzina lo studiò con occhio critico e gli restituì l’elmetto. — Con ‘sta faccia, devi aver perduto qualcosa — concluse con semplicità. Doveva avere la stessa età di suo fratello Sean, ma non era menefreghista e stupida come lui. Fino a quel momento, Neville aveva sempre pensato che, crescendo, si perdesse quasi tutta la sensibilità verso gli stati d’animo altrui, ma quel giorno comprese che non era esattamente così. La perdevi solo se la lasciavi andare, per fare posto a cose da adulti, e anche in quel caso a volte faceva capolino.
Prima di rispondere, Neville rifletté con la calma che poteva permettergli una manciata di secondi: — un dado a sette facce. — In quell’Inferno di polvere e scoppi gli sembrò la cosa più sensata da dire, perché tanto lei aveva già capito tutto dalla prima occhiata che gli aveva riservato. Certo, non ci voleva un genio per intuire che la sua famiglia era morta, ma la rapidità con cui era arrivata a quella conclusione era strabiliante. Per un attimo, in quegli occhi di vetro Neville vide un pizzico di compatimento, che sparì con la stessa rapidità con cui era apparso.
— È per colpa sua che le bombe sono cadute, e… Io devo recuperarlo prima che l’aviatore bari altre volte e… —
Il frusciare di un cappotto al vento lo interruppe di colpo, mentre lei gli riservava l’ennesimo sorriso, ricominciando a camminare. — Capisco. Ti aiuterò, forse. Ma nel frattempo, che ne dici di muoverti prima che ricominci l’attacco?
A Neville non rimase che seguirla nell’oscurità dei vicoli, mentre il dolore che gli aveva stretto il petto fino a pochi minuti prima scemava fino a diventare sopportabile. Forse, se avesse trovato il dado, con esso sarebbero tornata anche la sua famiglia.



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Angolino dell'autrice:

È la prima volta che scrivo un originale, essendo abituata ad elaborare storia ad OC prevalentemente su Hunger Games, ma in questi ultimi tempi sto cercando di distanziarmi sempre di più dalle fan-fiction. In ogni caso, non credo siate arrivati fin qui per leggere dei miei sproloqui.
Questa storia prende il nome dall'omonima operazione tedesca del bombardamento di Coventry (Mondscheinsonate) e, proprio come una sonata, si divide in quattro parti. Si dice che gli inglesi fossero a conoscenza di ciò che stava per accadere, eppure non fecero niente per non fargli capire che erano riusciti a decifrare i loro messaggi in codice. E questa città fu quasi rasa al suolo. Pur essendo tratta da una storia realmente accaduta e inserita nella realtà della Seconda Guerra Mondiale, non sono stata capace di non inserire qualcosa di onirico, che rimandasse a soogni/incubi, e di fiabesco. Neville, poi, è un personaggio che si presta molto a questo genere di cose – l'ho creato per questo xD – e il suo aggrapparsi alla fantasia è uno dei fattori che mi ha spinta a mettere su carta computer(?) quest'idea.
Vi dico solo che il dado a sette facce, così come gli aviatori e la similitudine con il pittore e il quadro, saranno spiegati nei capitoli successivi e spero che tutto si chiarirà nell'ultimo – lo spero davvero tanto tanto <.<
Detto ciò, vi chiedo solo di farmi capire cosa ne pensate di questa storia. Vorrei che foste più sinceri possibile, perché la sto scrivendo per mandarla a un concorso di scrittura e non so se sia all'altezza.

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