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Autore: RedBeth    02/02/2015    3 recensioni
Edith è una giovane donna cresciuta e maturata nel terribile scenario di distruzione della seconda guerra mondiale.
Tra gli incubi che, a distanza di anni, continuano a popolare i suoi sogni ogni notte, un piccolo spiraglio di luce si fa strada, salvandola, come una sorta di fiore nato nel cemento. Ed è a quel ricordo che si aggrappa al risveglio, al ricordo di un giovane soldato e dei suoi occhi color ghiaccio.
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"Urla di dolore e pianti avevano preso il posto delle grida di gioia dei bambini che giocavano per le strade e il cielo non poteva più godere delle attenzioni di milioni di occhi, tutti troppo spaventati da ciò che avrebbero potuto trovare a terra, distraendosi anche solo per un momento.
Ma io ero lì, a dispetto di ciò che ero diventata in quei giorni, a dispetto dell'odio che provavo e della paura per una guerra in cui sentivo di trovarmi dalla parte sbagliata."
Genere: Romantico, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali, Novecento/Dittature
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Nichts so ist, wie es scheint
Niente è come sembra



Avrei dovuto capirlo, nel momento stesso in cui i miei occhi incrociarono i suoi, di un color ghiaccio, ghiaccio freddo, così freddo da farmi venire i brividi. Sembrava volerti scavare dentro, quando ti guardava e rubarti ogni piccolo frammento di anima, facendolo suo.
Avrei dovuto capirlo dal modo in cui parlava; le parole uscivano come fiumi, una dietro l'altra, senza mai sembrare abbastanza, anzi, più parlava, più ogni singola fibra del tuo corpo cominciava a desiderare di sentirlo. Era come il tessitore di una tela in cui certamente prima o poi saresti caduta accidentalmente e lo sapeva, sapeva che quel volto etereo e perfetto lo rendeva così desiderabile e distante e sfruttava quella maschera come copertura per nascondere il fuoco che aveva dentro, il calore che emanava a dispetto del mondo in cui era stato costretto a crescere, di modo che il fumo risultasse invisibile.
Una goccia d'acqua in un incendio.

Quando lo vidi per la prima volta erano da poco passate le undici e le strade erano deserte, se non per le guardie che le controllavano a tutte le ore, come se non avessero mai bisogno di dormire. Probabilmente, anzi, sicuramente si davano il cambio, ma non mi ero mai soffermata a pensarci su, perché quei tipi in uniforme mi erano sempre sembrati tutti uguali: crudeli, senza scrupoli e del tutto privi di umanità. Sebbene il loro ruolo fosse quello di proteggerci, o almeno era quello che amavano dire in giro, vederli mi faceva sentire a disagio, ancora più spaventata di quanto lo sarei stata da sola.

Di colpo sentii bussare alla porta e mio padre, subito dopo, disse qualcosa che non capii, ma dedussi che stava andando ad aprire. Una voce strana, dura, profonda e dei passi pesanti, che diventavano sempre più vicini, spezzarono il silenzio in cui era avvolta quella casa, la nostra casa.
Mia madre mi ripeteva continuamente di stare alla larga dai soldati e di non farli mai avvicinare. In quel periodo ci eravamo ritrovati a trasformare lo scantinato in un rifugio per ebrei e se ci avessero scoperto avremmo finito per fare la stessa fine delle persone che ci eravamo tanto impegnati a proteggere.
Tuttavia spesso capitavano incursioni in notti come quella e allora tutti si spostavano in un passaggio nascosto sotto le assi di legno del pavimento.
Dovettero muoversi più rapidamente, quella notte, facendo ancora più attenzione a non fare rumore. Ogni passo di troppo, ogni colpo di tosse, poteva sognificare una sola cosa: morte, per noi e per loro.
Ma, spesso, tutte le precauzioni di cui si può disporre non bastano ad evitare il danno.
Qualcosa successe quella sera, qualcosa che attirò il proprietario degli scarponi, che continuavano a muoversi al piano di sopra, giù per le scale, velocemente.
Assunsi la posa più naturale possibile, seduta sul divano rosso al centro della stanza.
Poi, non appena la figura spalancò la porta, attraversandone la soglia, tutte le mie ipotesi trovarono conferma.

«Buonasera a voi, potevate anche bussare, magari mi sarei tolta lo sfizio di dire "avanti" e sareste potuti entrare salutando, o magari commentando la casa con falsi complimenti». Lui ignorò il mio monologo, come se stessi parlando esclusivamente con il muro alle sue spalle «Ho sentito dei passi» disse solo, con voce dura, seria, ma non minacciosa. Lo capii subito e, per quanto seccata fossi in quel momento, me ne sorpresi.
Incrociai le braccia, continuando la sceneggiata «Già, mia madre mi ha insegnato a camminare anni fa, ma sto ancora perfezionando l'andatura» di natura avevo un filtro mente-bocca malfunzionante, ma qualunque cosa mi capitasse di dire, raramente arrivavo a pentirmente. Forse, però, in quel momento accadde, quando vidi proprio la donna che avevo appena nominato, entrata di corsa nella stanza subito dopo lui, impallidire e guardarmi come se riuscisse a farmi tacere solo con la forza del pensiero. Il soldato, rimasto immobile fino ad allora, senza dire nemmeno una parola, alzò impercettibilmente un angolo della bocca e uscì dalla stanza. Sembrò quasi divertito, o magari la mia immaginazione preferiva crederlo, piuttosto che convincersi di aver firmato la mia condanna a morte.

Richiamai più volte alla mente a quel bizzarro incontro. Spesso mi soffermavo a pensare a cosa potesse esserci dietro la divisa che erano sempre costretti a portare, in quale luogo sarebbero tornati dopo il loro turno di lavoro e chi avrebbero trovato ad accoglierli. Il ragazzo di quella sera non mi sembrava così grande da poter avere moglie o figli e probabilmente viveva in una semplice caserma, insieme a tanti altri come lui; eppure mi piaceva credere che aprisse la porta di una di quelle piccole case graziose, con il portico davanti e un giardino pieno di fiori sul retro; che entrasse, salutasse i genitori, magari con un bacio sulla fronte e si dirigesse a passi spediti nella sua stanza. Me lo immaginavo mentre ripiegava l'uniforme e la sostituiva con dei vestiti più comodi, semplici, che rendevano giustizia alla sua giovane età.
Poi, forse, si sdraiava a pancia in su sul letto e restava in silenzio a guardare il soffitto, con quegli occhi ghiaccio che sembravano voler congelare il mondo per farlo smettere di girare. Non lo vedevo come una persona cattiva, ma più come succube di un sistema in cui l'avevano costretto a credere.

La seconda volta che lo vidi e lo sentii parlare, la sua voce mi parve diversa, più vera, più umana. Fu in quella occasione che tutte le mie ipotesi sulla sua vita oltre quella divisa sembrarono trovare in parte conferma, nelle parole gentili di quel soldato così diverso dai suoi simili.
«Credo che abbiate bisogno del mio aiuto» disse con tono spaventosamente cordiale, allungando una mano per prendere una delle buste che trasportavo, a fatica, verso casa.
Più il tempo passava, più raccimolare scorte di cibo che bastassero a sfamare famiglia e i nostri "ospiti segreti", come mio padre amava definirli,  diventava difficile.
Comprare beni di prima necessità più che una normale attività quotidiana, cominciava a prendere le sembianze di una vera e propria missione segreta.
«Non ne ho proprio bisogno, ma grazie» risposi, appena prima che afferasse il sacchetto più pesante senza permettermi di fare molti tentativi per impedirglielo. «Però...» commentò con tono ironico alzandola e abbassandola con un finto fiatone «...In quanti siete in casa? Pensavo che l'esercito fossimo noi».
Alzai gli occhi al cielo, nascondendo il fastidio che quella domanda scomoda mi causava «Mia madre preferisce esagerare con le porzioni e conservare il resto. Per lei è meglio troppo che troppo poco... Di questi tempi la prudenza non è mai troppa, no?». Mentire stava diventando maledettamente facile, specialmente se mi soffermavo a pensare al perché quelle mie parole dovessero risultare il più convincenti possibile.
Lo scortai lungo il vialetto che partiva dal piccolo cancello marrone, concludendosi sulla veranda e lì ripresi la mia busta affrettandomi ad aprire la porta e a dire a gran voce, per farmi sentire da chiunque fosse in casa «Grazie dell'aiuto, soldato, ora potete andare».
All'interno non si udivano rumori e per un attimo ne fui sollevata, ma mi sembrava quasi di sentire il respiro irregolare di mia madre, lo percepivo come un brivido lungo la schiena assieme ai suoi occhi, probabilmente ridotti ad una sottile fessura, che osservavano quella scena con il desiderio ardente che finisse il prima possibile.
«Aspetti un momento» trattenne la porta per impedirmi di chiuderla, facendomi gelare il sangue nelle vene, mentre la mia mente cominciò a pensare a tutti i possibili spiacevoli finali di quell'altrettanto spiacevole incontro «Non mi avete nemmeno detto come vi chiamate» disse infine.
Chiusi gli occhi emettendo un silenzioso sospiro di sollievo, aprendo di poco l'uscio per guardarlo «Edith, mi chiamo Edith».
Mi sembrò soddisfatto da quella risposta, risposta che, evidentemente, non si aspettava  «Piacere di conoscervi Edith, io sono Adrian» mi porse la sua mano, ma io usai la mia per indicare la sua divisa «Quando indossate quella non siete Adrian, siete un soldato» e indietreggiai, chiudendomi poi la porta alle spalle. Per quanto egli risultasse diverso, mi era impossibile nascondere del tutto l'odio per quegli uomini a cui cercava di somigliare, per ciò in cui tutti loro credevano e per l'oscuro baratro in cui avevano fatto precipitare la Germania.

Restai i giorni seguenti a chiedermi se la mia risposta avesse causato o meno l'ira di uno dei soldati più cordiali che avessi mai incontrato in città, ma non riuscii a capire se quella preoccupazione fosse più per ciò che il mio comportamento avrebbe potuto causare alla mia famiglia o perché temevo davvero che lui ce l'avesse con me, non con gli altri, proprio con me. Non mi soffermai mai a pensare se quei pensieri ricorrenti si ricollegassero ad un'ipotetica attrazione verso i suoi modi, accecata com'ero dall'odio per ciò che faceva. Immaginarlo mentre puntava l'arma sulla fronte di un pover uomo mi causava una sorta di dolore fisico, come se il mio corpo rifiutasse di credere reale ciò che i miei occhi avevano visto fare più volte e la mia mente aveva nascosto, non senza difficoltà, in un remoto angolo della mente, nel vano tentativo di allontanare dai miei incubi quelle scene di distruzione.

Fu proprio quando mi ritrovai persa per l'ennesima volta in quei pensieri, che mi recai nel posto in cui amavo giocare da bambina e dove ero spesso tornata, soprattutto in quel periodo. Era una semplice collina erbosa, generalmente ricoperta di un sottile strato di fango che mi costringeva a pulire con pazienza la suola delle scarpe ogni volta che tornavo a casa, ma nonostante tutto, mi era sempre sembrata una sorta di mondo incantato.
Era il tramonto ed io ero convinta che di quei tempi nessuno si sarebbe fermato a guardarlo; oramai le giornate iniziavano e finivano, dopo essere passate troppo velocemente e con troppe vittime. Urla di dolore e pianti avevano preso il posto delle grida di gioia dei bambini che giocavano per le strade e il cielo non poteva più godere delle attenzioni di milioni di occhi, tutti troppo spaventati da ciò che avrebbero potuto trovare a terra, distraendosi anche solo per un momento.
Ma io ero lì, a dispetto di ciò che ero diventata in quei giorni, a dispetto dell'odio che provavo e della paura per una guerra in cui sentivo di trovarmi dalla parte sbagliata.

Poi, mi resi conto che non ero sola.
Quando lo rividi, in abiti civili, feci quasi fatica a riconoscerlo.
Si avvicinò con un sorriso da bambino e nessuna arma, oltre quegli occhi indagatori, o forse ne aveva, nascoste da qualche parte, ma cercai di allontanarmi da quel pensiero, per quanto reale potesse essere.
«Ora che dite? Posso chiamarmi Adrian?» chiese indicandosi da capo a piedi. Annuii imbarazzata, ma senza darlo a vedere, mentre quel giovane, che tutto sembrava fuorché un soldato, prendeva posto accanto a me in quella distesa di erba e fango.
E così entrambi ci ritrovammo seduti ad osservare quel gioco di luci, in silenzio.
«Non vi stancate mai?» domandai ad un certo punto, senza riflettere.
«Di cosa?» rispose confuso.
Strinsi le mani a pugno, reprimendo ogni impulso che in quel momento mi spingeva a colpirlo nell'unico punto in cui uno come lui poteva sentir dolore: nell'orgoglio. Per quanto odiassi quella risposta mi resi conto di essere abbastanza lucida da capire quali erano le cose che non dovevo fare «Di essere senza pietà» dissi, seria in volto.
Sorrise leggermente, ma in quel momento non notai la sfumatura di amarezza che quel sorriso nascondeva «Ogni cosa dipende dai punti di vista».
Mi alzai di scatto, puntando un dito accusatore verso il confine estremo della città, che da lì era possibile vedere, indicando le maestose recinzioni spinate, che circondavano un edificio spoglio e triste, immerso in una nuvola di fumo nero.
«Quelli li avete fatti voi. Se cambiamo i punti di vista non diventano miei, nè di una delle persone che portate chissà dove. Sono vostre e basta. Così come l'uccidere uomini, donne e bambini solo perché diversi da voi. Se cambiamo il punto di vista non siete degli eroi, restate dei codardi» parlai senza pensare, o forse fu la rabbia a pensare al posto mio. Sebbene sapessi che con quell'ultima affermazione avevo portato alla rovina del castello di menzogne che avevo costruito con tanta fatica, non riuscii a ritrattare nemmeno una parola.
Anche lui si alzò in piedi e cominciò ad avviarsi verso la strada che portava al centro abitato «Si...» rispose soltanto.
«Si cosa?» urlai a quella figura che diventava sempre più piccola.
Lui si fermò e si voltò verso di me sospirando «Si, mi stanco spesso».

Quella sera, tornando a casa, mi resi conto della veridicità dei miei migliori pensieri.
Quella sera capii che lui era diverso, non solo per le sue parole, ma soprattutto perché, dopo le mie, ero ancora viva e senza un graffio.
Quella sera mi assalì la voglia improvvisa di rivederlo.
Quella sera delle bombe colpirono la città, causando innumerevoli morti e feriti.

Fummo costretti a lasciar andare tutti i fuggitivi a cui avevamo offerto protezione, semplicemente perché non avevamo più una casa in cui ospitarli.
I lavori di ricostruzione degli edifici furono lunghi e assidui, ma quelli di ricostruzione delle vite di chi era sopravvissuto furono ancora peggio.

Non vidi mai più quegli occhi ghiaccio che erano riusciti a spiccare tra gli altri per il calore che emanavano.
Confesso che cercai più volte il suo nome tra quelli delle vittime e il suo volto in quello dei soldati che correvano freneticamente da una strada all'altra, senza mai trovarlo.
Capii che ogni persona che incontri ti lascia dentro una parte di sè, per la sua storia o per il suo modo di porsi, per essere un modello di come vuoi (o non vuoi) essere.
Quel giovane fu per me un simbolo, il simbolo della speranza che da quel momento fino alla fine della guerra, non mi avrebbe più abbandonato, la speranza che le cose potessero cambiare e che le notti non fossero più accompagnate dal frastuono degli aerei da guerra che sorvolavano la città, ma solo e soltanto dal morbido canto dei grilli e dal gentile soffiare del vento.



Note
Eccomi qui con la mia prima mini-storia.
L'avevo scritta tempo fa e lasciata nel dimenticatoio... fino ad ora.
L'idea originaria era di mostrare un nuovo punto di vista
, non solo di chi era costretto a nascondersi, ma anche di chi nascondeva.
Volevo parlare di una ragazza costretta a nascondere l'odio - con scarsi risultati - nei confronti della società in cui era costretta, a crescere per proteggere se stessa e i propri car
i
;
e di un soldato diverso dagli altri, un soldato che non avesse paura di mostrare il suo lato umano, un soldato che, forse, non condivideva ciò che il suo ruolo lo portava a fare, ma doveva, spinto dalla necessità. Nulla di questo giovane uomo, però, è scritto esplicitamente, ognuno di voi può dargli una propria interpretazione, vederlo come vuole.
Io sono qui, in attesa di conoscere
cosa immaginate per lui.

E chissà, magari un giorno sapremo cosa e chi si nascondeva dietro quegli occhi color ghiaccio.


-RedAnnabeth

 
   
 
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