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Autore: Atarassia_    04/02/2015    1 recensioni
Il sorriso.
Il sorriso è la cosa più enigmatica che sia mai esistita.
C’è il sorriso di circostanza, quello sensuale, quello che si delinea sulle tue labbra dopo che hai sentito qualcosa di divertente o visto qualcuno che ti interessa. Il sorriso è un modo per dire “ciao”, “arrivederci” o anche “addio”. È un modo alternativo per chiedere scusa, uno per dire “mi piaci” e perché no, anche per dire “ti odio”. C’è il sorriso imbarazzato, quello che provoca delle fossette ai lati della bocca e quello inquietante.
Ecco, il sorriso è universale e enigmatico. Si proprio così, universale e enigmatico.
Una persona sorride ma può essere felice, arrabbiata, emozionata, triste, dubbiosa, imbarazzata. Il sorriso può voler dire tante cose che nemmeno riusciresti ad immaginartele. È misterioso, ingannevole, seducente. Una maschera.
Quante volte dietro ad un sorriso si nasconde il dolore? Quante volte i problemi, le lacrime, i turbamenti vengono celati dietro di esso? A te non è mai successo?
Siamo tra amici tesoro, puoi anche calare la maschera.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Trailer

 
Il rumore del silenzio è la cosa più fastidiosa che esista.
Ogni suono si propaga all’infinito, i pensieri premono nella testa per uscire fuori e disperdersi negli echi. Annika nei silenzi si perde perché si sente privata di ogni sicurezza, di ogni certezza. Ci sono dei momenti in cui si ritrova ad essere come all’interno di una bolla di sapone: si solleva leggera e vaga nell’infinito, annaspa per un filo di aria in più e fa attenzione a tutto, perché ogni movimento, anche il più piccolo e insignificante, potrebbe farla scoppiare, precipitare, annullare.
Annika ha così tanta voglia di evadere, di strillare e far sentire la sua voce, forte e chiara, ma da troppo tempo è costretta a tacere. Un grande fracasso e la voce stridula della madre le fanno abbandonare la vecchia copia della Divine Comedy sul letto e esce di corsa dalla stanza.
Non ci vuole molto prima che le schegge dell’ennesimo piatto in frantumi feriscano il palmo del suo piede destro, sospira stanca e si appoggia con la schiena allo stipite della porta. La madre si muove a scatti, la rabbia è ben evidente e la tensione palpabile. Le tremano violentemente le mani e la cenere della sigaretta oramai consumata è dispersa sul pavimento. Annika alza un sopracciglio nel sentire le imprecazioni mal trattenute e le maledizioni che sembrano colpire tutto quello che le capita a tiro. Maledice la vita, il mondo, la gente, la famiglia e se stessa; maledice tutto quello che non riesce a capire e getta i piatti nel lavabo con gesti stizziti, violenti e i cocci aumentano inesorabilmente.




-Come le è sembrato durante l’ultima visita?- chiede Annika aggrappandosi con le dita affusolate al tessuto ruvido dei jeans che le solletica dolcemente i polpastrelli.
Cerca di rimanere composta, di non far trasparire la preoccupazione e l’ansia, ma la dottoressa riesce a cogliere lo strano luccichio nei suoi occhi e il labbro, continuamente morso, è un ulteriore testimone di quello sconvolgimento interiore che si ritrova a vivere.
-Non ci sono evidenti segni di miglioramento ma, piuttosto, in alcuni casi ho riscontrato anche un lieve peggioramento- spiega la dottoressa Margot e Annika trattiene bruscamente il fiato – Gabriel presenta una memoria frammentaria e la sua realtà appare ancora distorta. Per tale motivo credo che dovremmo cambiare terapia perché, in questo modo, ancora non è riuscito a rielaborare il tutto. E tu sai meglio di me che continua tuttora a sentirsi sbagliato, diverso, a vedere in sé la personificazione del male- conclude appoggiandosi alla scrivania e inarcando leggermente la schiena in avanti. Annika batte nervosamente il piede contro il pavimento e distoglie lo sguardo perché non ne può più. Sa che il suo autocontrollo sta per venire meno, che da un momento all’altro potrebbe esplodere. Lei tutto ciò non lo trova giusto, perché Gabriel non si meritava niente di tutto quello che è accaduto e, se proprio doveva succedere, avrebbe voluto egoisticamente che la vittima fosse stata un’altra persona. La prima lacrima solca la sua guancia e il labbro inferiore, seppur stretto nella morsa dei denti, trema leggermente.
La dottoressa rimane in silenzio, rispettosa nei confronti del dolore della ragazza e, sotto certi aspetti, distante da tutto il problema. E è distante non perché non gli importa per niente del suo paziente, ma proprio perché ha a cuore la situazione deve restarne leggermente indifferente o rischierebbe di impazzire. Il suo lavoro è come un’arma a doppio taglio e lei, come tutti i suoi colleghi, ne è consapevole, deve esserne consapevole. E in casi come questo, non le resta che allungare il braccio al di sopra della scrivania, fino a sfiorare le mani congiunte di Annika che oramai è scossa dai singhiozzi.
-È solo questione di tempo e poi vedrai che, con la giusta terapia, anche tuo fratello imparerà a venirne fuori- sussurra queste parole semplici, ma efficaci. La dottoressa Margot fa anche uno strappo alla regola stringendo delicatamente con la sua mano quella della ragazza, forse perché sa che ora ha bisogno di una forza che da sola non può trovare, o forse perché in Annika rivede, per certi aspetti, sua figlia.
 


 
La macchinetta gli ha dato il tè caldo, ma il resto se lo è tenuto. Harry sbuffa rassegnato perché oramai ci ha fatto il callo. Saluta con un cenno del capo la vecchia infermiera seduta al banco informazioni e appunta bene la penna nel taschino del camice. Fuori piove e i rami degli alberi, dominati dalla forza del vento, sbattono costantemente contro i vetri delle finestre più basse. Nei corridoi della clinica c’è una calma innaturale, come se un velo invisibile fosse stato calato su ogni cosa congelandolo in quel preciso istante. I suoi passi sembrano quasi risuonare e lo stridere del bastoncino contro la plastica del bicchiere gli fa venire i nervi, tant’è che decide di lasciar perdere e bere il tè anche se amaro. Passando davanti alle scale che portano al piano superiore, riesce a sentire i bambini che ridono e il clown di turno che fa le imitazioni di un personaggio dei cartoni animati. Sono delle risate innaturali in quel contesto, risate che contrastano nettamente con l’aria tetra e soffocante del primo piano. Ma sono anche risate che ti permettono, per un attimo, di estraniarti dal tuo dolore e sorridere, sperare.
Sua madre, ogni volta che lo va a trovare nell’appartamento sopra ad un locale di Tesco, non fa altro che chiedergli perché non si fa spostare in nuovo reparto dato che, anche da parte del primario, gli era stato proposto di lavorare negli ultimi due piani della clinica. Sia chiaro che lei è sempre e comunque  fiera di lui, ma teme che per il ragazzo affrontare tutta quella situazione, in un’età così giovane, sia troppo difficile. Ma Harry è caparbio e di cambiare reparto non ne vuole sapere. Insomma, lui si trova bene così anche se sa che è difficile, ma si è preparato al peggio dal momento in cui ha accettato questo lavoro e, cercare di dare ogni volta il suo contributo nel curare i pazienti, è l’unica cosa che gli resta. Gli piace tornare a casa e riflettere sulle possibili strade da percorrere, essere felice perché qualcuno di quei piccoli angioletti sta facendo dei progressi e allo stesso tempo avere l’umore a terra perché dopo le ultime analisi qualcuno non dimostra di stare reagendo bene alla terapia.
Ha speso anima e corpo per diventare medico, ha sacrificato, senza rimpianti, la maggior parte del suo tempo per lo studio e, con determinazione e una buona capacità di apprendimento, ha concluso l’apprendistato in pochi anni e con il massimo dei voti. Il giorno della laurea sua madre gli aveva regalato una ventiquattrore in pelle dove avrebbe potuto conservare tutti i suoi documenti, il padre aveva acquistato un set di penne eleganti perché queste ti serviranno di sicuro, mentre la sorella si era limitata ad un semplice non mi farei mai curare da uno come te, per poi saltargli al collo e riempirlo di abbracci e complimenti. E così, con il sostegno della famiglia e con tutta l’attrezzatura nella piccola ventiquattrore, aveva varcato la soglia di quell’edificio vittoriano presentandosi al primario come un futuro medico e uscendone vittorioso con il suo nuovo orario di lavoro.
-Vola, vola, vola- una voce flebile lo distrae dai suoi pensieri e curioso allunga il passo affacciandosi dietro lo stipite di una porta che conduce in una stanza azzurra. Le pareti sono in gran parte ricoperte da disegni di pesci variopinti e alghe ondulate, la finestra si affaccia su una piccola parte di giardino ricoperta di fiori. La luce proietta riflessi colorati sui mobili e sui piccoli tavolini circondati dalle sedie rosse dei bambini. Accatastati in un angolo della stanza, vi sono giocattoli di ogni tipo, fogli, pennarelli e pastelli.
Al centro della sala, ben saldo sulle proprie ginocchia e con i gomiti puntati sulla superficie verdastra del tavolo, c’è Gabriel che agita tra le mani i pupazzi di due supereroi. Harry sorride e si avvicina lentamente seguendo con attenzione le parole del bambino impegnato nella discussione tra i due personaggi.
-Non mi avrai mai, io sono più veloce- aggiunge allungando in aria un braccio e stringendo nel piccolo pugno l’esile struttura del giocattolo.
-Io ti prenderò e sarò io a dominare il mondo- riprese simulando uno scontro tra i due, enfatizzato dalla riproduzione di suoni e versi. Il duello si conclude nel giro di pochi secondi e Gabriel si diverte a rappresentare le acclamazioni di un pubblico invisibile rivolte al vincitore dall’armatura rossa.
-Ciao Gabriel!- interviene Harry rimanendo a debita distanza, così da permettere al bambino di riaversi dopo l’iniziale sussulto e di rielaborare la sua presenza a pochi metri da lui.
-Posso stare qui con te?- continua il giovane medico per far sentire il bambino a proprio agio -Prometto che me ne starò buono e non ti disturberò- termina incrociando le dita della mano davanti alla bocca in forma di giuramento.
Gli occhi vigili di Gabriel lo scrutano indagatori e piega la testa di lato arricciando un poco il naso, come se fosse infastidito da quella interruzione. Lo osserva e tace, soppesando la situazione e cercando di capire se la presenza di Harry lì sia o meno un bene. Il giovane medico attende paziente,  conta i suoi respiri che scandiscono i secondi e tamburella con le dita sulla coscia sinistra.
Poi, senza fare un fiato, Gabriel si sposta cauto sulle ginocchia lasciando un po’ di spazio al suo fianco. Harry sorride consapevole di aver guadagnato in quell’istante la sua fiducia e si inginocchia al fianco del bambino afferrando il robot che quello gli ha lasciato per giocare con lui.
Gabriel lo guarda di sottecchi, con le mani che tremano leggermente e l’evidente impulso di dire qualcosa. -Li conosci i Transformer?- chiede poi con voce timida, vincendo la paura rassicurato dal ricordo di Annika che gli spiega che di Harry non bisogna aver paura.
-I Transformer? Si, quando ero piccolo come te guardavo il cartone in televisione- ribatte quello grattandosi il naso e sorridendo –ricordo che la mia mamma mi sgridava sempre perché passavo tantissime ore davanti al televisore e non ne volevo sapere di studiare!- continua sorridendo perso nei suoi ricordi e cercando di strappare al bambino una risata. Ma Gabriel non è un bambino comune e il tentativo di Harry di farlo sorridere è totalmente vano. Infatti lui lo scruta con un cipiglio serio, fin troppo serio per uno della sua età, e con voce chiara e sicura, a dimostrazione che quanto sta per dire è per lui  una cosa normale, dichiara una parte di quello che è costretto a vivere quotidianamente lasciando il giovane medico di stucco. –La mia mamma mi sgrida sempre, dice che sono un disastro!- E afferma ciò senza remore, senza batter ciglio ma in assoluta tranquillità perché lui non conosce realtà diverse dalla sua. Come se niente fosse distoglie lo sguardo e ritorna a giocare con il robot giallo che si piega sotto le sue piccole mani.
Harry avverte il sangue congelarsi nelle sue vene e per un attimo rabbrividisce perché sente freddo intorno a lui, perché quella frase, sebbene lui fosse già a conoscenza di tutta la situazione, gli ha tolto il fiato come un pugno ben assestato sullo stomaco. Ammutolisce e rimane immobile a fissare il bambino che sta costruendo un rifugio per il suo giocattolo. Prova a dire qualcosa, ma le parole non gli escono e il suo battito si fa accelerato. Gli prudono le mani e cerca di calmarsi stringendo tra i pugni la plastica fragile del robot. Prova a soffocare la rabbia per non spaventare ulteriormente Gabriel, ma la voglia di fare del male a quel miserabile non scema. Anzi, si trasmette in ogni cellula del suo corpo, avvolgendolo tutto e nascondendosi dietro una calma apparente, pronta a venir fuori in un momento più opportuno. Harry ha sempre pensato che commettere violenza su dei bambini fosse una cosa spregevole, o meglio disumana, ma, da quando ha intrapreso la carriera di medico lavorando per la clinica “Land of Angels”, il suo rifiuto verso questi mostri che commettono tali oscenità si è trasformato in odio allo stato puro. Ogni giorno lavora a stretto contatto con innocenti creature che si sentono sporche, violate nell’anima, che hanno una distorta visione della realtà. Perché si, quell’atto disumano che porta al piacere dei mostri, provoca un trauma insuperabile. La violenza è un trauma che determina una ferita inguaribile, che resta sempre lì, indelebile, palpabile e ricorda puntualmente quanto si è vissuto. Harry ha potuto constatare da sé che il processo di guarigione è lungo e difficile e che, alla fine, chi guarisce davvero è una rarità. La maggior parte delle vittime impara a convivere con la cosa, restando in un stato di precarietà, in bilico tra l’essere guarito e l’essere ancora sopraffatto dai ricordi. Infine, una buona parte dei bambini non supera il trauma, ma quest’ultimo diventa un bagaglio pesante che   quelli sono costretti a trascinarsi dietro per tutta la vita e che non permette loro di avere una vita normale. E questa è la cosa che gli fa più rabbia. Deglutisce sperando di riuscire a trovare la forza e il coraggio di dire qualcosa ma qualcuno lo precede.
-Gab, metti via i giochi che devi andare con la dottoressa Margot- sia il bambino che il medico sobbalzano al suono della voce di Annika. Contemporaneamente  si voltano verso la ragazza ma, mentre Gabriel poco dopo sposta lo sguardo fissando la dottoressa che si trova al fianco della sorella, gli occhi di Harry non abbandonano nemmeno per un secondo Annika. La scruta intensamente perché non riesce a fingere di non essersi accorto degli occhi gonfi e rossi, del leggero tremolio della mano e dell’agitazione e del dolore che ogni parte di lei sembra voler gridare. Per un attimo i loro sguardi si incrociano e Annika si sente messa a nudo, privata di ogni barriera e protezione. E in quello stesso attimo Harry cerca di farle capire che lui sa, che vuole aiutarla e che può contare su di lui.
-Ti va di venire a vedere una cosa nel mio studio?- domanda la dottoressa Margot a Gabriel che, dopo aver ricevuto un cenno del capo dalla sorella, si alza seguendola fuori dalla stanza dei giochi e lasciando soli i due ragazzi.
Rimasti solo loro due, dapprima Annika si appoggia allo stipite della porta, poi con passo lento si avvicina alla postazione del ragazzo che non smette nemmeno per un secondo di guardarla. Lei si siede accanto a lui, con le gambe incrociate sotto il tavolino e le mani ben salde sul pavimento accanto ai suoi fianchi. Restano in silenzio dicendosi molte cose, esplorando l’uno i pensieri dell’altro e cercando di cogliere ogni possibile segnale. Harry la guarda di sottecchi, consapevole di dover dire qualcosa e conscio di dover rimanere allo stesso tempo muto, giusto per lasciarle il tempo di abituarsi, di elaborare un pensiero e di trovare la forza per esplodere e sfogarsi.
-Vuoi giocare?- domanda agitando appena il giocattolo nella sua direzione, per poi mordersi internamente la guancia perché non avrebbe potuto trovare una cosa più stupida da dire. Annika lo guarda sorpresa con gli occhi sgranati e poi, reclinando leggermente il capo all’indietro, scoppia a ridere di gusto. Una risata, la sua, che si fa via via più strana, quasi isterica, e che lascia Harry spiazzato. Non sa se ridere con lei, darsi dello stupido o fare altro. Lui non sa come ci si deve comportare in quei momenti. Si, è bravo nel suo lavoro e sa relazionarsi bene con i propri pazienti, ma se viene privato del ruolo di medico diviene impacciato. E ora Harry teme di aver esagerato perché Annika non smette più di ridere e si è coperta il volto con le mani. Le spalle sussultano violentemente e lui ha paura di vedere quel riso trasformarsi in un pianto.
-Possiamo fare a cambio? Preferisco quello rosso!- chiede Annika quando riesce a darsi un contegno, la voce limpida e calda, lo sguardo divertito. Ed è grata a quel ragazzo perché, pur non ricevendo nulla in cambio, riesce ogni volta a consolarla o a farla distogliere dai suoi pensieri, poco conta il modo in cui lo fa. Harry boccheggia annaspando per un filo di aria in più e cerca di capire se lei lo stia prendendo in giro o se voglia veramente giocare. Poi, scrollando le spalle, annuisce e con un sorriso timido allunga il braccio acconsentendo allo scambio. Annika lo ringrazia dolcemente e raddrizza la schiena mettendosi comoda e spostando tutto il peso sulle ginocchia. Harry la scruta per un attimo, affascinato e incuriosito, poi, improvvisando una voce infantile e buffa si allunga sul tavolo e simula una camminata con il suo robot.
-Ciao signorina Annika, come sta oggi?- esclama senza mai perdere il sorriso e incoraggiando con lo sguardo la ragazza a seguirlo in quella scenetta assurda e imbarazzante per un ragazzo della sua età. Lei ride e, usando lo stesso tono, lo imita entusiasta. –Dottore, è un vero piacere incontrarla!- ribatte e con un dito solleva il braccio di plastica del robot inscenando un semplice saluto –Io sto bene, lei cosa mi racconta di nuovo?- continua divertita. Harry la fissa di rimando e le parole gli escono di bocca automaticamente, arrivando dritte al punto e senza girare intorno al nocciolo della situazione. 
-Se stai bene, perché hai pianto?- esclama abbandonando il gioco, con una voce calma e seria che stona con tutta l’atmosfera che si era creata poco prima. E bastano quelle poche parole a far tremare Annika, a farle assumere un cipiglio confuso e a far raggelare il suo sorriso. Il tempo di accorgersi che dal lei sono passati a darsi del tu, che i toni non sono più quelli giocosi, che Harry a catapultato entrambi fuori dal gioco per metterli davanti ad una scomoda realtà. La mano le trema leggermente e le viene la pelle d’oca, schiude la bocca e fa per parlare ma le parole le muoiono in gola, le unghie stridono contro la plastica del robot e un’espressione affranta fa capolino sul suo volto. Harry deglutisce, nasconde un braccio sotto al tavolo e si pizzica la gamba in un gesto disperato; osserva le sue spalle curvarsi, i suoi occhi scomparire dietro le ciocche spettinate dei capelli e si sente denudato quando lei, al limite della sopportazione, riporta lo sguardo lucido su di lui. In silenzio, aspetta che sia lei a fargli capire come si deve muovere, non tenta nessun approccio diverso perché non sa, non vuole compiere passi falsi. Annika sposta lo sguardo sulla superficie liscia del tavolo che li divide, si concentra prima sulle mani di Harry, ne traccia ogni centimetro con gli occhi, ripercorre ogni callo e le dita affusolate e, avida, fissa nella mente l’immagine della croce che si è tatuato tra il pollice e l’indice. Poi studia le sue di mani e le vede così sottili, fragili, dimentiche. Le sente fredde, intorpidite, sole e gli spazi tra le dita le sembrano così vuoti, profondi e ben definiti. Cerca gli occhi di Harry e li trova puntati su di lei, attenti e vigili, discreti ma invadenti.
-Abbracciami- ordina in un sussurro spezzato, la mano che agita debolmente il pupazzo davanti ad Harry in un patetico tentativo di riprendere il via con il gioco. La sua voce si infrange nell’aria provocando nel ragazzo emozioni contrastanti e avverte il sangue nelle vene scorrerle più velocemente: glielo ha chiesto, lo ha detto. Harry sussulta avvertendo quella richiesta e con movimenti goffi, impacciati, si muove sulle propria ginocchia fino a portarsi al fianco di Annika e mettendole una mano dietro la schiena, la spinge tra le sue braccia. Lei si aggrappa alle sue spalle, il viso nascosto nell’incavo del collo di lui e gli occhi socchiusi. Harry si sistema per quanto possibile fino a mettersi a sedere sul pavimento e porta Annika a spostarsi sulle sue gambe, un braccio dietro la sua schiena e il respiro di lei ad infrangersi contro la pelle delicata del suo collo. Le accarezza i capelli con la mano libera, li scosta dal volto e lascia che le solletichino piacevolmente i polpastrelli. Harry studia il suo volto, le curve delle labbra imbronciate, il neo vicino al labbro superiore, lo sguardo perso, le ombre che i capelli, arruffati e intrecciati alle sue dita, creano sulla sua pelle. Le accarezza delicatamente la guancia e segue attentamente le palpebre di lei che si socchiudono lentamente a quel contatto. Il robot, ancora stritolato tra le mani di Annika, punge l’addome di Harry da sopra il maglione che sa troppo di lui; il camice, bianco e stropicciato, diviene una via di fuga accessibile per la mano di Annika che, impaziente, si infila sotto di esso fino ad ancorarsi ad un fianco magro di lui. E così, con il tessuto del suo maglione stretto tra le dita, con il calore quasi palpabile che quel corpo emana e il ritmo, lieve e rassicurante, del petto di lui che si alza e si abbassa sotto il suo peso, Annika si sente così piena e al sicuro.
Restano in silenzio e si dicono molte cose, spiegano e illustrano, si proiettano l’uno con l’altro in una realtà diversa. Harry le accarezza nuovamente la guancia e le sposta una ciocca di capelli dietro all’orecchio. Annika alza lo sguardo e si ritrova a fissarlo dal basso. I tratti del viso ben definiti e marcati, le labbra strette in una linea sottile, la fronte aggrottata e i muscoli tesi. Ha un’espressione che la rassicura e che allo stesso tempo non le piace perché lo fa apparire troppo maturo per i suoi gusti e perché stona con alcuni tratti che fanno di lui ancora un ragazzino. Chiude gli occhi evitando il contatto visivo che Harry sta cercando di instaurare e, con le braccia strette al petto, si accoccola ancora di più contro il suo petto, ben salda tra la stretta delle sue braccia. Strofina la guancia contro il suo maglione e il suo respiro si infrange contro la pelle del ragazzo lasciata scoperta dal tessuto morbido.
-Sono stanca- sussurra piano, con il fiato corto e la sensazione di bruciore che le pervade la gola per tutte le lacrime trattenute. Harry trema sotto di lei e aumenta l’intensità della sua stretta perché non vuole lasciarla andar via.
China il volto su di lei e –Annika- sussurra tra i suoi capelli prima di lasciarvi un bacio.

 


1 anno, 1 mese, 1 settimana
Dopo tutto questo tempo ho finalmente avuto la decenza di aggiornare di nuovo. Se, nei mesi passati, alcuni tra di voi avevano letto il terzo capitolo, avranno sicuramente notato che la prima parte di questo capitolo corrisponde al “vecchio” terzo capitolo. Infatti, rileggendo la storia, mi ero accorta che con l’ultimo aggiornamento ero caduta nel banale quindi ho corretto le parti che non mi piacevano e operato varie modifiche.
Ci tenevo a ringraziare a tutte le persone che, nonostante tutto, sono rimaste e spero di non essere stata gettata nel dimenticatoio. Tengo molto a questa storia e, costi quel che costi, voglio portarla avanti fino ad arrivare ad una degna conclusione.
In questo capitolo vengono trattate diverse cose:
-la situazione in famiglia: è una scena molto breve ma, a mio avviso, davvero profonda. Annika che deve affrontare costantemente situazioni difficili come quella a cui la madre, in questo capitolo, la sottopone. Ci terrei a precisare che questi problemi tra la protagonista e la famiglia non verranno trattati superficialmente e non sono nemmeno nati da piccoli capricci, né tantomeno sono frutto di una trama in cui la piccola e indifesa protagonista è trascurata dalla famiglia che non la comprende. No, quella che voglio analizzare io è una famiglia che vive in tutte le sue sfaccettature un dolore dovuto ad un evento davvero spiacevole.
-Annika/Dottoressa/Gabriel: in questo capitolo veniamo finalmente a sapere qualcosa di più sull’evento spiacevole che ha sconvolto la vita di Annika e della sua famiglia. Naturalmente, è un tema delicato che tratterò in modo adeguato e con il dovuto rispetto. Si tratta di un tema delicato e prima di iniziare mi sono documentata tramite alcune ricerche.
-Annika/Harry: scrivere su di loro è così complicato. Vorrei riuscire a mettere in risalto la parte introspettiva e a non banalizzare tutto. In questa scena avete potuto vedere alcuni aspetti del loro carattere e una parte del legame che li unisce.
Detto questo, che ve ne pare? Mi auguro che il capitolo vi sia piaciuto e che la storia, per quanto se ne possa capire dopo solo tre capitoli pubblicati, vi stia piacendo. Fatemi sapere tutto quello che vi passa per la testa, critiche, consigli e aspetti positivi che ne avete colto.
Vi ringrazio calorosamente per aver letto il capitolo.
Spero di ricevere vostre notizie.                          
Con affetto,
Mel
 
PS: Ho già impostato il prossimo capitolo, verso la fine del mese (passati gli esami di questa cavolo di sessione invernale) aggiornerò nuovamente la storia! Questa volta lo prometto, sul serio.

 


 
   
 
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