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Autore: Rocket Girl    06/02/2015    0 recensioni
L’estasi, il suo personale nirvana, risiedeva in quel nanosecondo di fine che gli concedeva di trarre un respiro meno affannato, meno attento a non inquinare il mondo.
Genere: Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Gli inizi non sono sempre facili. Non c’è nulla di gratificante nel dover costruire qualcosa da zero, benché ci sia un nutrito gruppo di persone che lo reputino eccitante, quasi estatico a volte. Era assurdo concepire l’ignoranza, l’aspettativa di dover conoscere ulteriori limiti al proprio ego, come esaltante. Ad ogni inizio, s’era ritrovato a dover ampliare l’orizzonte delle proprie capacità, delle proprie conoscenze, ed allo stesso tempo a doversi abituare alla consapevolezza di averne ulteriori, perfino altri rispetto a ciò che era prima. La consapevolezza di qualcosa di nuovo, l’inizio in sé ti catapultava in un altro mondo in cui avresti riscontrato altri difetti, e non c’era nulla di positivo nel riconoscere di essere peggiori rispetto a quel che ci si prospettava.
 Nel durante, rimpiangerai tutto quello che ti ha portato a quel bivio, a quella strada che, lungi dall’essere adatta, si era rivelata la più ostica e sbagliata.
Fondamentalmente, tutto era sbagliato. Qualsiasi dettaglio, perfino il debole barlume provocato dalla poca illuminazione che gli astri fornivano in una notte senza pietà, perfino quello aveva l’altra faccia, quella nera, quella sconosciuta. L’Altro era quello che lo terrorizzava, nel suo perfezionismo e nella sua smania di conoscere perfino l’insignificante, di analizzare e sezionare quanto c’era di tremendo attorno – ed in – sé. Ed il dover conoscere qualcosa di nuovo portava a soffocare quell’istinto malsano di dover ispezionare e avvolgersi nella melma di pensieri e novità che non permettevano di essere scomposte, essendo troppe per la minuziosità delle sue analisi.
L’estasi, il suo personale nirvana, risiedeva in quel nanosecondo di fine che gli concedeva di trarre un respiro meno affannato, meno attento a non inquinare il mondo. La fine gli concedeva quello sguardo in cui riviveva una vita intera, in cui poteva dilatare il tempo e scomporre ogni singolo episodio in un palcoscenico, per correggere gli attori e ridicolizzarne l’ostentazione della recitazione, della falsità.
Ne aveva viste fin troppe, di terminazioni, perfino più delle altre fasi. Amava la poeticità del pensiero di dover rivivere tutta la vita in un istante, ma non aveva mai avuto l’onore di poter testimoniare la veridicità di tal detto. Si sentiva un artista, al limite della poetica e della filosofia, parte di quella cerchia che faceva provare qualcosa a chi dell’altro conosceva solo un mero nome, o una facciata. Sarebbe dovuto essere il migliore degli artisti, non limitandosi solo a dare emozioni ricopiate e risputate da centinaia prima di lui, ma dando al prescelto l’occasione di poter rivivere il proprio vissuto nel momento in cui fosse venuto a contatto con la sua arte. Non lo era. Raramente ciò che l’uomo dice ha attinenza con quel che si riscontra, nel suo caso, le probabilità che ciò accadesse erano effimere. Era come l’antimateria, aliena a quel mondo ed in grado di provocarne la distruzione qualora fosse venuto a contatto. Aliena e teorica, poiché nessuno sapeva davvero chi fosse. Era una facciata per gli uni, un’altra per chiunque altro. In fin dei conti, c’era chi gli si rivolgeva per sfogare quella valvola di sadismo e violenza che avrebbe voluto chiudere ermeticamente, sebbene rivolgergli la parola strappava completamente via la sicurezza, lasciando che l’ipocrita di turno annegasse nella propria abiezione che, in fin dei conti, non sarebbe stata soddisfatta o trasmessa, perché lui era ben lontano dal percepire un minimo di quel marcio.
Non percepiva la repulsione di quel che aveva fatto. Non gli disgustava aver un cadavere fra le mani, quest’ultime inondate dal sangue altrui, benché si fosse assicurato della qualità dei guanti che indossava. Non aveva temuto lo sguardo della propria vittima fisso nel proprio, né aveva avuto un’ombra di rimorso nel vedere l’espressione che l’allora uomo cercava di trasmettergli, nel tentativo di portare a luce la pietà del suo carnefice. Era una pura contrazione di muscoli che forse, in un altro posto, avrebbero ritenuto perfino opposta. Obiettivamente, non c’era differenza fra un attimo prima e dopo che l’uomo smettesse di agitarsi, se non nel movimento stesso; quella che altri avrebbero ritenuto dimostrazione di terrore, però, non se n’era andata.
Non uccideva per piacere, o per rabbia. Provava diletto nel leggere lunghe ed articolate spiegazioni su ciò che quelli come lui facessero, motivi e una sorta di identikit dei loro pensieri. Era affamato di giudizio altrui, affamato nel voler riconoscere in sé nervosismo, o qualsiasi reazione che chiunque altro tanto decantava. Forse sarebbe stato capace allora di riconoscerne nei volti altrui. Forse avrebbe sentito un legame fra lui e quegli altri che, oggettivamente, erano della sua stessa specie.
Il suo movente era, forse, la noia. Benché il mondo apparisse dinamico e rapido, in sé era tutto così statico che era ridicolo pensare ci fosse una minima svolta al suo andare. Non vi era una vera e propria volontà di voler sentire, o di una qualsiasi vicinanza, piuttosto vi era il disgusto per quella sottile smania di voler essere in movimento, di voler intraprendere qualsiasi cosa per rendersi conto di quanti nuovi limiti sorgessero e quanto detestasse gli inizi. Probabilmente ai più non sarebbe stato un motivo valido per uccidere, e sarebbe stato bollato come folle. Vi era una sottile ironia al pensiero di esser costretto a trascorrere il resto della propria vita a contatto con coloro che tentavano di classificare la sua mente e puntualmente ne uscivano sconfitti.
Lui era, ad ogni modo, la carcassa sopra cui si sarebbero posati parecchi avvoltoi, avendone le possibilità; alcuni degli stessi, invece, avrebbero corso pur di accaparrarsi un boccone della carcassa che, al momento, stava dissezionando, allo scopo di farne perdere le forme umane. In fin dei conti, i suoi ordini erano di non lasciare tracce e tanto un cadavere non aiutava quanto non vi era differenza fra carne umana e carne animale, se non una mera distinzione culturale. L’uomo, come da decenni sosteneva, era un animale ragionevole e, se era disgustato al pensiero di mangiare qualcosa della propria specie, non lo era altrettanto al pensiero di cibarsi di altri viventi, seppure la distinzione fosse minima.
C’era una deliziosa ironia nel vedere come le membra di un uomo fungessero da banchetto dopo il proprio funerale, anche se la sfortuna maggiore era essere il solo a concepire la grottesca grossolanità delle costruzioni che l’uomo poneva per distanziarsi sempre più dalla propria natura ed essere sempre meno fedele a se stesso. Come risultato dell’uniformazione, la spontaneità e veridicità dell’umanità stava lasciando posto alla versione moderna ed acculturata di un uomo sempre più automatico e sempre più lontano dai principi della terra, fino al punto di essere terrorizzato da semplici creature viventi o eventi naturali.
In fondo, non ci si poteva prospettare altro da attori mal pagati e un palcoscenico instabile e sensibile ai tormenti e stupidità dei primi.

 
  
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