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Autore: lilyhachi    07/02/2015    4 recensioni
(Se Jordan Parrish fosse, in realtà, Camden Lahey, il fratello "morto" di Isaac?)
Camden Lahey era morto in guerra, non poteva essere davvero lui.
Isaac ricordava il giorno in cui avevano bussato alla porta di casa per rifilare a suo padre quelle parole appuntite che avevano distrutto la sua famiglia, già fragile per la perdita della mamma. Isaac ricordava il giorno in cui avevano seppellito una bara vuota, poiché il corpo di suo fratello non era mai tornato a casa, per colpa dell’esplosione che lo aveva ridotto in cenere. Eppure, era proprio lì dinanzi a lui: la sua pelle non era ricoperta di terra e cenere, i suoi occhi non erano iniettati di sangue e non odorava di fumo. Al contrario, il suo viso era pulito e fresco, mettendo ancora più in evidenza la limpidezza dei suoi occhi.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Deputy Parrish, Isaac Lahey
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Because I don't have anyone'
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"Is that alright? Give my gun away when it's loaded"

Hey, brother
 
 
“Slowly fading away. You're lost and so afraid.
Where is the hope in a world so cold?”.
 

Isaac osservava le goccioline di pioggia infrangersi contro il vetro del suo appartamento.
Quella giornata uggiosa gli metteva una sorta di tristezza addosso, rendendo sempre più palese la mancanza di Beacon Hills e del sole che batteva costantemente sulle sue spalle.
Isaac non era mai stato un tipo da posti caldi, era così abituato al freddo che ormai ne aveva fatto quasi il suo habitat naturale.
Si sentiva al sicuro, mentre camminava con un leggero vento a fargli compagnia, l’aria fredda che si scontrava con il suo volto e il naso un po’ più rosso rispetto al resto del viso. Eppure, quel sabato pomeriggio Isaac sentiva la mancanza del sole della California, o più semplicemente, delle persone che camminavano al suo fianco durante quelle giornate soleggiate.
Tante volte aveva pensato di tornare indietro, aveva fatto le valige, per poi bloccarsi sul ciglio della porta, senza nemmeno il coraggio di aprirla. Rimaneva immobile, come una statua di cera.
Forse Isaac era allergico all’idea di tornare indietro, come se il suo organismo non ne volesse sapere.
Forse Isaac era semplicemente destinato a rimanere solo, chiuso in quell’appartamento troppo grande per una sola persona ma troppo piccolo per tutti i silenzi opprimenti che lo affliggevano da mesi.
L’appartamento era arredato in maniera spartana, un po’ come il loft di Derek, e Isaac giustificava quello stile come pigrizia, come poca voglia di girare per negozi e trovare mobili adatti, quando forse era un modo per ricordare quella che era stata la sua casa.
La luce entrava debolmente dalle due finestre poste in cucina, che offrivano una meravigliosa vista della Torre Eiffel e la zona circostante, in tutta la sua bellezza. Chiunque avrebbe considerato Isaac fortunato, per aver trovato una casa con una perfetta collocazione nel bel mezzo di Parigi. Tuttavia, che senso aveva tutta quella meraviglia se Isaac non poteva condividerla con qualcuno?
Guardò l’orologio che segnava le sei e mezza del mattino.
Quando era diventato così difficile addormentarsi?
Da bambino, sembrava molto più facile, grazie alla mamma e Camden.
Diverse volte si era svegliato in preda agli incubi, trovando Camden già disteso nel sacco a pelo ai piedi del suo letto, come se sapesse. Era sempre stato così con suo fratello, fin quando non aveva dovuto dire addio anche a lui.
Adesso non c’era più nessuno capace di aiutarlo a prendere sonno.
Il suono del campanello interruppe le sue riflessioni. Sentiva la testa che quasi gli scoppiava, mentre si avvicinava alla porta, pronto a sentire l’ennesima scusa che la sua vicina di casa aveva architettato per bussare. Prese del caffè dalla dispensa, intuendo che quella mattina la scusa di quell’adorabile ma invadente ragazza francese potesse riguardare la colazione.
Roteò gli occhi e afferrò la maniglia. “Claude, ma tu a quest’ora non dovresti-“.
Isaac si bloccò sull’uscio di casa, mentre una sagoma longilinea lo squadrava.
Due occhi verdi si piantarono nei suoi, come se lo avessero cercato per tanto tempo, come se l’azzurro dei suoi occhi non fosse stato altro che un’immensa distesa d’acqua in cui trovare qualcosa.
Il viso liscio e spigoloso era fermo, immobile come il resto del corpo che faceva sembrare il ragazzo dinanzi a lui una perfetta statua. La bocca si aprì per dire qualcosa ma le parole restarono impigliate.
Isaac ripercorse i tratti del ragazzo che se ne stava ancora impalato nel corridoio, senza parlare.
Non era la prima volta che Isaac faceva sogni simili, quindi si disse che parlare non doveva essere difficile. In fin dei conti, aveva dinanzi a sé la figura di suo fratello morto in guerra.
“Camden”, sussurrò lui, sentendo il tremolio nella sua stessa voce. “Lasciami dormire”.
Il ragazzo, che forse sarebbe stato meglio definire “uomo”, alzò un sopracciglio e scosse la testa.
“A Beacon Hills mi conoscono come vicesceriffo Jordan Parrish, adesso”, esclamò lui, portando lo sguardo sulla moquette non esattamente perfetta e poi sull’appartamento di Isaac.
Isaac tremò nel sentire quel nome e deglutì forte: ricordava il vicesceriffo che era arrivato a Beacon Hills proprio quando il Nemeton si era risvegliato, ma non aveva mai avuto modo di incrociarlo.
Scott gli aveva parlato di lui durante una delle ultime telefonate: gli aveva raccontato di come fosse rimasto coinvolto nelle loro ultime indagini per trovare il Benefattore, stringendo una specie di amicizia con Lydia e di come si fosse ritrovato sul “totomorte”, senza esserne al corrente. Eppure, perchè il vicesceriffo Parrish aveva le fattezze di suo fratello?
“Sei morto ed io sto sognando. Non sei reale”.
“Sono reale almeno quanto la tua licantropia”, esordì il vicesceriffo, beccandosi un’altra occhiata confusa del ragazzo che cominciava a sospirare pesantemente, come se gli mancasse l’aria.
Il cuore prese a battere nervosamente nel petto e la bocca si fece improvvisamente secca, insieme alla gola, il cui interno era raschiato da parole non pronunciate.
Camden Lahey era morto in guerra, non poteva essere davvero lui.
Isaac ricordava il giorno in cui avevano bussato alla porta di casa per rifilare a suo padre quelle parole appuntite che avevano distrutto la sua famiglia, già fragile per la perdita della mamma.
Isaac ricordava il giorno in cui avevano seppellito una bara vuota, poiché il corpo di suo fratello non era mai tornato a casa, per colpa dell’esplosione che lo aveva ridotto in cenere.
Eppure, era proprio lì dinanzi a lui: la sua pelle non era ricoperta di terra e cenere, i suoi occhi non era iniettati di sangue e non odorava di fumo. Al contrario, il suo viso era pulito e fresco, mettendo ancora più in evidenza la limpidezza dei suoi occhi.
Scosse il capo violentemente, come se bastasse ad annullare ciò che stava accadendo.
Strinse forte gli occhi, per scuotersi e cercare di svegliarsi da quel sogno più reale e nitido rispetto agli altri, e forse più doloroso proprio per quel motivo.
“Isaac”, lo chiamò con voce calma e pacata, proprio come quella che usava suo fratello per metterlo a letto ogni sera, dopo che la mamma li aveva lasciati. “Isaac, respira”.
Quella frase gli suonò maledettamente familiare, insieme al ricordo delle dita di Camden che si stringevano attorno alla sua spalla per dargli coraggio, rammentandogli di essere forte.
“Isaac, respira. Sii forte…per me e per la mamma”.
“Isaac”, esclamò ancora l’altro, ottenendo un verso strozzato in risposta. “Va tutto bene”.
Una molla scattò nella testa di Isaac, facendolo sobbalzare. Quell’espressione avrebbe dovuto rassicurarlo, tuttavia, su Isaac non ebbe l’effetto sperato, in quanto il ragazzo sentì solo il sangue ribollirgli nelle vene e una collera che prendeva possesso di lui.
“Va tutto bene?”, ripetè Isaac con tono canzonatorio. “No che non va bene!”.
Aveva urlato e Isaac non aveva mai alzato la voce a quel modo, lasciando che le sue emozioni prendessero il sopravvento e che gli occhi scintillassero, rivelando la sua natura.
Il vicesceriffo non indietreggiò ma continuò a guardarlo come se niente fosse. In fin dei conti, ritrovarsi nella sua macchina che andava a fuoco, sopravvivere ad un tentato omicidio e fare la conoscenza di un branco di licantropi lo aveva reso immune al soprannaturale.
“Non aspettarti che corra ad abbracciarti, scoppiando in lacrime”, gli aveva detto Lydia, con il suo tono tipico di chi era sempre un passo avanti rispetto agli altri, e Stiles le aveva dato ragione.
Doveva essere morto, doveva restare morto, invece era lì, vivo e vegeto a lasciare che il suo fratello più piccolo, quello che aveva cresciuto, gli riversasse addosso la sua collera.
Parrish lo guardava mentre faceva dei respiri profondi, preparandosi a parlare, e voleva sorridere, perché vedeva perfettamente lo stesso bambino con cui era cresciuto.
Non sorrise soltanto perché Isaac lo avrebbe sbranato, letteralmente.
Isaac aveva  la stessa espressione ferita e risentita di quando dei ragazzini a scuola lo avevano preso in giro perché non aveva la mamma. Isaac non aveva detto nulla, si era limitato a chinare il capo e tornare a casa ma lui aveva capito fin da subito che qualcosa non andava. Gli aveva messo le mani sulle spalle, abbracciandolo e intimandogli di non permettere mai a nessuno di trattarlo a quel modo o di farlo sentire debole, perché non lo era. Lui era un sopravvissuto e doveva resistere, per la mamma. Peccato che, con il passare degli anni, c’era stato qualcun altro a far sentire Isaac ancora più debole, e Camden non lo aveva impedito.
Nel frattempo, Isaac lasciò che la sua mente vagasse libera, permettendo a tutti i fili di incrociarsi e dare vita a tutti quei collegamenti che, prima di allora, non lo avevano mai sfiorato. Ripensò alla lavagna di Stiles e al filo rosso che se ne stava fermo tra diversi punti, e una domanda riemerse da quell’oceano di quesiti che inondavano la sua mente, schiantandoglisi addosso.
“Lo sapevi?”, domandò Isaac, portando una mano sul fianco e tenendo lo sguardo fisso sul pavimento, cercando di non mostrare la sua spossatezza. “Quando sei arrivato, lo sapevi?”.
Parrish tentennò, prendendo quella domanda come un vero colpo di pistola, sparato appositamente per colpirlo dritto in petto, poiché Isaac conosceva già la risposta, voleva solo sentirglielo dire.
“Sì”, ammise con voce arrendevole, ripensando a quante volte avesse ponderato l’idea di andare a trovarlo, presentandosi alla porta di casa McCall. “Lo sapevo”.
“Ma non sei mai venuto da me”, constatò Isaac, scuotendo il capo con un sorriso amaro. “Hai aspettato che me ne andassi dall’altra parte del mondo per venire a cercarmi. Perché?”.
Il vicesceriffo fece per rispondere ma Isaac non gli permise di continuare, troppo occupato a disseppellire tutto il male subito, insieme a quella bara vuota nella quale ci sarebbe dovuto essere il cadavere di un fratello sopravvissuto ma tornato troppo tardi per rimediare.
“Eri vivo”, continuò il ragazzo mentre i suoi occhi chiari divenivano quasi trasparenti a causa delle lacrime che stava trattenendo a forza, facendosi quasi male. “Per tutto questo tempo eri vivo e non sei mai tornato a casa. Eri mio fratello, pensavo mi avresti protetto. Sai cosa mi ha fatto nostro padre per tutti questi anni? Sai che è morto e che sono stato un sospettato per il suo omicidio? Lo sapevi questo? Qualcosa mi dice di sì, vicesceriffo Parrish”.
C’era disprezzo nelle ultime due parole, come se Isaac volesse sottolineare la menzogna che quel nome custodiva. Isaac lo stava colpendo, gli stava sparando addosso e non gli importava.
Per Parrish andava bene, era ciò che meritava. Era rimasto nascosto nell’ombra, con suo fratello a pochi passi da lui, senza mai trovare il coraggio di farsi vedere, di urlargli che era lì e che avrebbe tanto voluto fare qualcosa per sottrarlo alle torture che aveva subito.
“Sì”, confessò lui, sentendo un nodo allo stomaco e alla gola, come se una corda fosse tenuta stretta attorno al suo collo, soffocandolo. “Ho scoperto tutto quando sono arrivato qui”.
Aveva letto i fascicoli riguardanti suo padre durante una notte di lavoro e senza farsi vedere dallo Sceriffo Stilinski. Quella notte il mondo gli era crollato addosso e Parrish aveva provato la stessa identica sensazione che lo aveva invaso il giorno dell’esplosione: si era sentito morto per la seconda volta. Non aveva protetto suo fratello, lo aveva lasciato solo nella mani di un padre violento.
Era morto anche lui, ed Isaac era rimasto solo, senza nessuno accanto.
“Perché?”, chiese Isaac, con la voce più calma ma sempre intrisa di rabbia.
Parrish respirò a fondo, ripetendo a sé stesso che Isaac doveva sapere.
 
“Looking for a distant light. Someone who can save a life.
Living in fear that no one will hear your cry. Can you save me now?”.
 
Quando c’era stata quell’esplosione sul campo, Camden aveva creduto di essere morto.
Gli era rimasto soltanto il ricordo della cenere che calava sulle teste di lui e dei suoi compagni, mentre l’odore di fumo si faceva sempre più vicino e le fiamme divampavano intorno a loro.
Dopodiché c’era stata soltanto oscurità, seguita dal risveglio in un letto d’ospedale con una benda attorno alla testa. Dicevano che era sopravvissuto per miracolo, a quel tempo aveva creduto davvero che fosse un colpo di fortuna e nulla di più. Se allora avesse saputo di essere in grado di sopravvivere alla fiamme per qualche motivo sconosciuto, forse avrebbe riso.
In quei giorni l’ospedale pullulava di anime in pena che tentavano di non attraversare la linea sottile tra vita e morte ma per alcuni la situazione non era tanto rosea da permettergli di sopravvivere.
Una di quelle anime in pena era Jordan Parrish, l’unico sopravvissuto del suo plotone insieme a lui: senza una famiglia, senza nessuno da cui tornare e senza alcun futuro, a causa di una lacerazione dello stomaco, provocatagli dalla stessa esplosione in cui era rimasto coinvolto e ustioni di quarto grado al viso che lo rendevano irriconoscibile.
Si riuscivano a scorgere soltanto gli occhi verdi e tristi di un ragazzo spaurito, proprio come lui. Perché Camden era sopravvissuto e Jordan se ne stava su un letto in fin di vita? Allora non poteva certo saperlo.
Camden gli rimase accanto fino al suo ultimo respiro.
Giocavano a carte come se nulla fosse, si ponevano indovinelli assurdi, ricordavano le serate che avevano passato a fare gli stupidi con gli altri, come se si trovassero in un pub e non in trincea.
“Sto per morire e nessuno potrà mai ricordarsi di me”, gli aveva detto una sera, mentre erano nel bel mezzo di una partita di poker. “Credevo mi sarei sentito più triste. Invece, va bene”.
“Io mi ricorderò di te”, gli aveva detto Camden senza un filo di incertezza nella voce.
“Ma tu hai qualcuno da cui tornare, Lahey?”, gli chiese, con il volto nascosto dalle bende e la voce così flebile che sembrava sul punto di spegnersi da un momento all’altro, come una candela.
Camden pensò a suo fratello, chiuso nella sua stanza con le ginocchia strette al petto, in attesa.
Non rispose e promise che un giorno avrebbe rivisto Isaac, ma quel giorno non sarebbe arrivato molto presto. In realtà, non aveva intenzione di tornare a casa. Non voleva tornare come Camden Lahey, eroe di guerra e unico sopravvissuto ad un’esplosione mortale che aveva portato alla morte tutto il suo plotone. Lui non era un eroe ma soltanto uno stupido dotato di una fortuna sfacciata e totalmente bastarda che lo faceva sentire un criminale. Sarebbe dovuto morire e decise che sarebbe andata a quel modo.
Quando Jordan Parrish morì, strinse la mano di Camden e lui non lo lasciò andare fino a quando i suoi occhi non si chiusero completamente, dicendogli addio. In quell’istante, anche Camden morì insieme a lui, vedendo la luce nei suoi occhi abbandonarlo e spegnersi del tutto.
Dopo la sua morte, fece qualcosa di cui non credeva essere capace: prese il suo nome, perché Parrish doveva essere ricordato, vivendo attraverso lui e lasciò che Camden Lahey venisse ritenuto morto.
In un primo momento, si sentì colpevole ma quella sensazione svanì, sostituita dalla consapevolezza di aver fatto un favore al mondo. Lui non meritava di essere ricordato, come non meritava di essere un sopravvissuto. Non l’avrebbe mai detto, eppure lo aveva fatto: non era tornato a casa perché non  ne aveva più una. Si era costruito un’identità nuova, sotto il nome di Jordan Parrish.
 
“I am with you. I will carry you through it all.
I won't leave you. I will catch you”.
 
Isaac non aveva aperto bocca per tutto il tempo, guardandolo allibito e quasi stordito.
La sparatoria si era arrestata in quei minuti che avevano fatto da cornice alla storia di Parrish e Isaac non gli aveva più sparato addosso, rovesciando il suo dolore. Purtroppo quella sensazione di pace fu soltanto effimera, poiché Isaac gli si scagliò davvero addosso.
Parrish non se lo aspettava ma non si tirò indietro, e lasciò che Isaac lo spintonasse ancora con la mano, come se volesse dare inizio ad una rissa. Il suo volto era contratto dal dolore e sulla fronte si erano formate tante piccole rughe, segno di tutta la sua contrarietà.
“Isaac”, cercò di chiamarlo ma ottenne un altro pugno sulla spalla.
“Cazzo, Camden!”, sbottò improvvisamente Isaac, pronunciando il suo nome per la prima volta.
Quando lo fece, Parrish provò una sensazione strana.
A primo impatto, l’avrebbe definita “completezza”, come se sentire suo fratello pronunciare finalmente il suo nome avesse risvegliato qualcosa che temeva di aver perso tempo fa e di non voler più ritrovare: sé stesso, perché lui era tale solo in compagnia di Isaac.
Quando il ragazzo cercò di colpirlo ancora, Parrish gli afferrò il bolso, bloccandolo.
Isaac si sarebbe potuto liberare con estrema facilità e rompergli il collo ma entrambi sapevano che non l’avrebbe fatto, e rimasero fermi a scrutarsi, studiando lo scorrere del tempo sui loro volti.
“Mi dispiace”, si scusò Parrish, lasciando che le parole trovassero dolcemente la strada per uscire e con lentezza, cercando di non spaventare Isaac che lo guardava con il solito sguardo tremante che aveva anche da bambino. “Mi dispiace così tanto. Mi manca mio fratello e sono qui per lui”.
Parrish avrebbe tanto voluto leggere le sue sensazioni, sentire il battito del suo cuore per capire cosa stesse provando, proprio come faceva Isaac ma l’unica cosa che sapeva era di poter sopravvivere alle fiamme, senza neanche avere idea di cosa fosse realmente.
Si limitò a studiare Isaac, accorgendosi di come tutta l’ira albergata in quelle pozze azzurre stesse svanendo lentamente per lasciare il posto a tutta la melanconia che aveva tenuto sepolta sotto un ammasso di collera.
La certezza che Isaac stesse iniziando a perdonarlo arrivò con un abbraccio improvviso e voluto da entrambi, perché si incontrarono quasi a metà strada: Parrish aveva compiuto un passo verso di lui e non appena Isaac lo aveva intercettato, si era sporto completamente per abbracciarlo.
Era un abbraccio quasi doloroso, sapeva di abbandono, angoscia e di tutto il sangue che entrambi avevano versato durante gli anni in cui erano stati lontani l’uno dall’altro. Isaac poteva sentire l’odore delle lacrime trattenute di Parrish che gli aveva stretto forte il busto, ma non disse niente perché andava bene. Nell’esatto momento in cui lo aveva abbracciato, quel senso di mancanza era volato via dalla finestra, insieme a tutto ciò che gli impediva di lasciare la Francia e tornare a Beacon Hills. Desiderò fare subito i bagagli, attraversare quella porta e prendere il primo aereo per tornare a casa dai suoi amici, insieme a ciò che restava della sua famiglia. Avevano tante cose ancora di cui parlare e tanti dubbi da chiarire.
Dal canto suo, Parrish avrebbe giurato che anche Isaac stesse trattenendo le lacrime ma non disse nulla, né cercò di liberare le sue, perché poteva sentire il battito inarrestabile del cuore di suo fratello in completa sincronia con il suo e non poteva desiderare nulla di più, in quel momento.
Quando si separarono, non sapevano cosa dire e forse era meglio.
Erano corto di parole, ne avevano dette così tante nell’arco di quell’ora che sembravano non avere più la forza nemmeno di respirare ma soltanto di scrutarsi e constatare che si fossero riuniti.
“Sai”, cominciò Parrish, trattenendo un sorriso. “Sembrava una scena alla Supernatural. Sam,  Dean, i fratelli Winchester con i loro abbracci strappalacrime. Beh, il soprannaturale c’è”.
Isaac gli diede uno strattone contro la spalla ma senza fargli alcun male, e facendolo ridere.
Parrish quasi non si accorse della risata scaturita anche in Isaac perché non credeva che l’avrebbe udita: suo fratello stava ridendo, lasciandosi alle spalle il dolore che aveva mostrato in volto.
Lo guardò meravigliato, scorgendo il modo in cui quel sorriso rendesse il suo volto più luminoso.
Era tornato ad essere il suo fratellino: il bambino che era corso a svegliarlo la mattina di Natale, saltando sul suo letto e urlandogli che dovevano correre ad aprire i regali; il bambino che gli aveva lasciato l’ultimo bastoncino di zucchero preparato dalla mamma; il bambino che lo occhieggiava storto quando lo prendeva in giro per il suo orsacchiotto; il bambino che rideva senza alcun ritegno quando lo issava sulle sue spalle e lo faceva girare per la casa. Osservò il panorama al di là della finestra: un lieve raggio di sole illuminava Parigi.
Isaac si voltò, seguendo lo sguardo di suo fratello e notando quella luce lieve ma intensa.
Sorrise e guardò Parrish: erano insieme e stavano per tornare a casa.
 
“When you feel like letting go, cause you're not, you're not alone”.
 
 
Angolo dell’autrice
 
  • Qualche precisazione sulla questione Jordan Parrish/Camden Lahey: da quando l’adorabile vicesceriffo ha fatto la sua comparsa, detto di avere 24 anni e di essere stato nell’esercito, mi sono chiesta (complici le immagini di tumblr): “se fosse il fratello di Isaac?”. Quindi, stando alla teoria che in Teen Wolf quasi nessuno "resta morto", ho pensato che fosse un’ipotesi possibile, poi la somiglianza fisica c'è;
  • per la storyline di Parrish/Camden ho provato a dare una spiegazione sensata e inventata da me, cioè se Jordan è davvero Camden, deve esserci una spiegazione al cambio di identità e a come mai non sia mai tornato, così ho supposto che sia sopravvissuto all’esplosione (grazie ai suoi poteri nascosti) ma il senso di colpa nei confronti dei suoi compagni che non ce l’hanno fatta gli ha impedito di tornare. Inoltre, la perdita del suo amico, ossia il “vero” Jordan Parrish influisce ancora di più, così dopo la sua morte ne prende il nome e decide di non tornare a Beacon Hills e quindi da Isaac; 
  • non ricordo se durante la 3b Isaac e Parrish si siano mai incrociati in qualche puntata ma mi sembra che non abbiamo mai condiviso una scena, infatti ho pensato fosse il caso di precisare che Isaac non lo ha mai visto (ma ha sentito parlare di lui da Scott); 
  • i versi sono tratti dalla canzone "9 crimes" di Damien Rice e “Not alone” di Red.
 
Se siete arrivati fino alla fine, vi ringrazio immensamente perché capisco che non ha molto senso tutto quello che ho scritto. Spero di aver spiegato tutto per filo e per segno, e se ovviamente avete qualche dubbio (il che sarebbe perfettamente legittimo) non esitate a chiedere. Spero davvero di aver reso bene i sentimenti di entrambi, visto che mi hanno dato parecchio filo da torcere.
A rileggerla non tanto mi convince e non so cosa cappero ho combinato, come sempre.
Ringrazio di vero cuore chi ha avuto la pazienza di arrivare fino alla fine e chi mi ha supportata.
Smetto di tediarvi e spero che vi sia piaciuto, lasciate un commentino se vi va.
Alla prossima,
Lily.
   
 
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