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Autore: Mannu    08/02/2015    0 recensioni
C'è chi butta via qualsiasi cosa senza starci a pensare nemmeno un minuto; c'è chi non riesce a buttare via nemmeno uno spillo. Ma c'è anche chi butta via una stazione spaziale! Quando la discarica si chiama Giove bisogna assicurarsi di aver preso davvero tutto prima di staccare la corrente e andarsene... La prima avventura solitaria (e involontaria) di Spyro con un ospite davvero inatteso.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Ferraglia spaziale'
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Cinque secondi per Spyro
1.

Il trillo dell'allarme di prossimità lo ridestò di soprassalto. Bestemmiò in silenzio: si era riproposto di non addormentarsi. Resistette all'impulso di frenare manualmente e controllò tutta la telemetria, cercando disperatamente di sgombrare il cervello dal torpore che lo aveva invaso.
La stazione era ancora lì. Piattaforma, si corresse subito. Era di poco più piccola di Niharra, da dove si era lanciato circa cinque ore prima. Ma sugli strumenti appariva molto grande a causa della distanza ridotta. Lanciò il segnale di richiesta di aggancio cui fece subito eco quello di conferma. Si rilassò sentendo la cimice animarsi di vita propria. Telecomandata dai sistemi della piattaforma che l'avrebbero portata a un ancoraggio dove sarebbe stata disassemblata e scaricata. Mahmet me la farà pagare cara, pensò con poco rammarico ma contento di essere uscito da una situazione che minacciava di diventare davvero brutta.
Credeva d'aver capito come funzionava la cimice, quello sgraziato veicolo dalla vaga sembianza d'insetto con un ventre spropositato, usato per raccogliere l'idrogeno dall'atmosfera di Giove. Quello era il suo ottavo salto, termine usato dai j-diver, come venivano chiamati i piloti di cimici, per indicare una missione di raccolta. Normalmente ogni salto prevedeva sia l'andata che il ritorno e proprio quest'ultimo aveva rischiato di venire meno. Poco dopo essere transitato attraverso la tropopausa, dove la stratosfera muta in troposfera e dove si comincia a trovare l'idrogeno migliore, la sua cimice era stata investita da correnti fortissime. La deriva era stata notevole: se l'era vista brutta. Aveva consumato gran parte della sua riserva di energia per non farsi travolgere e cercare di stare in quota. La manovra, il calore, la tensione e la paura l'avevano spossato. Quando finalmente il serbatoio si era riempito, raccattando chissà quali schifezze, aveva dovuto lottare anche per riemergere nella più tranquilla termosfera. Alla fine la deriva era risultata tale che Niharra era tramontata, divenendo irraggiungibile con l'idrogeno che gli era rimasto per alimentare il motore nucleare.
Gli spartani strumenti della cimice segnalarono l'inizio della fase finale dell'approccio alla piattaforma. Subito dopo sentì i rumori a cui stava cercando di abituarsi, deducendo di volta in volta da essi le diverse attività del veicolo: dall'orientamento degli ugelli degli scarichi vettoriali fino alla sonora botta della flangia di attracco che veniva agganciata e pressurizzata. Pensò con nostalgia al Raja, la sua nave, così grande da permettergli di ascoltare il lieve ronzio degli strumenti e il sospiro del climatizzatore anche durante il volo FTL.
Iniziò le procedure per uscire dalla cimice rassegnato a subire ogni conseguenza. Non aveva avuto contatti con nessuno della piattaforma: non avevano risposto a nessuna delle sue chiamate. Stanco, indolenzito e discretamente puzzolente: nonostante gli abiti succinti, la temperatura raggiunta nell'abitacolo della cimice lo faceva sudare abbondantemente. Gli avevano più volte assicurato che era tutto normale e che non c'era altro che si potesse fare, ma aveva ancora parecchie remore ad andarsene in giro così conciato. Aveva notato che i forti odori corporei a bordo della Niharra erano perennemente presenti e abbondantemente tollerati, ma non era certo che fosse così a bordo di ogni altra piattaforma. Quando dal portello in fase di apertura penetrò nell'abitacolo un getto di aria gelida e stantia, puzzolente di polvere e di lubrificante, pensò che forse nessuno si sarebbe accorto di lui. O forse abituati a questo odore se ne accorgeranno più facilmente, si disse puntando i piedi sui gradini della scaletta che conduceva fuori dell'abitacolo.
Si strinse le braccia al petto e unì subito le ginocchia: il freddo era micidiale. Aveva di fronte a sé un tunnel di collegamento, almeno così sembrava, terminante con un portello stagno chiuso. Non era certo vestito adeguatamente per quella temperatura ma sospettò che nemmeno se avesse avuto la sua bella uniforme da secondo ufficiale sarebbe stato meglio. Corse come poté fino al portello che si aprì stentatamente. Deve essere un bel po' che non usano questo approdo, pensò attendendo ansiosamente che il portello scorresse di lato. Quando ci fu spazio a sufficienza passò, senza attendere il completamento dell'apertura: aveva troppo freddo.
Comprese l'origine di quel rumore sferragliante alle sue spalle un istante dopo che uno strano congegno penzolante dal soffitto si fu fermato a pochi centimetri dalla sua testa. Qualcosa ronzò al suo interno e un braccio meccanico si abbassò, terminante con quella che sembrava una gruccia appendiabiti rotta. Dopo pochi secondi il braccio storto si ritrasse e il congegno ripartì sferragliando nella monorotaia incassata nel soffitto. Notò che alcune parti interne si erano staccate e penzolavano attaccate ai cavi di collegamento attraverso un pannello mancante. Il lampeggiatore che per legge doveva segnalare il meccanismo in movimento, accompagnato da un segnale acustico intermittente, non funzionava.
Domato il batticuore per lo spavento diede uno sguardo intorno. Si trovava in un corridoio palesemente curvo, apparentemente un anello. Era da decenni che non si facevano più in quel modo i moli di attracco: erano pericolosi e poco affidabili, oltre a non consentire l'attracco di navi grandi. Molte delle lampade erano guaste e l'ambiente, freddo e puzzolente di aria filtrata male, era anche piuttosto buio. Pensando molto male degli occupanti, così svogliati da trascurare anche i più elementari compiti di manutenzione, cercò una porta che conducesse fuori dall'attracco, nella porzione abitata della piattaforma. Gli parve chiaro infatti che non vi era un vero e proprio hangar come su Niharra. La tecnologia e i materiali impiegati per la costruzione di quella struttura apparivano parecchio datati. Tutte le piattaforme e le stazioni più piccole erano ora modulari: più economiche, più rapide da assemblare, più facili da riparare, da espandere e da rimpicciolire a seconda delle esigenze. Quel posto invece pareva realizzato tutto in un blocco solo.
Trovò le estremità della monorotaia: il congegno scassato che penzolava da quella si era fermato a qualche metro dal fine corsa e giaceva immobile. Dalle condizioni in cui versava il paracolpi di gomma, era facile intuire cosa avesse ridotto il meccanismo in quelle pietose condizioni in cui versava. C'erano ancora i pezzi per terra, lì intorno. La monorotaia che evidentemente percorreva per intero il soffitto del corridoio anulare, si infilava attraverso una paratia stagna. La rotaia era fatta in modo tale da non ostacolarne la chiusura.
Anche quel portello faticò a scorrere di lato per farlo passare, rivelando però un ambiente un poco più caldo. Lo stato di abbandono era il medesimo: polvere a fiocchi ovunque, armadi svuotati, tavoli spostati, oggetti abbandonati. C'era un computer sventrato su un tavolo, un vecchio schermo piatto con un adesivo su cui si leggeva ancora la scritta “guasto”, un calendario appeso alla parete. Quest'ultimo richiamò la sua attenzione per via dell'ologramma piatto che ritraeva una procace donna completamente nuda. Occupava l'intera pagina confinando il calendario vero e proprio in un angolo. Era vecchio di tre anni.
Era chiaro che quella porzione di piattaforma non veniva più usata, ma cominciarono a venirgli i primi dubbi. Gli strumenti della cimice erano piuttosto elementari e non potevano certo analizzare a distanza tanto in profondità da capire in anticipo come poteva essere fatta la piattaforma. Se fosse stato a bordo del Raja avrebbe potuto eseguire una termografia, analizzare le emissioni magnetiche, usare il radar per capire forma, dimensioni e livello di attività della struttura molto prima di attraccare. Aveva anche un bel telescopio a bordo che era tornato utile già più di una volta: spesso l'osservazione diretta era rivelatrice. Ma quella piattaforma, per quanto grande potesse essere, non poteva essere sotto organico fino al punto da smantellare completamente la zona di ricezione delle merci, uffici compresi. E se quel calendario era stato aggiornato fino all'ultimo, la situazione era invariata da tre anni abbondanti.
Le conseguenze gli piovvero addosso pesantemente una dopo l'altra. La struttura poteva essere abbandonata: nessuno l'avrebbe rifornito, nemmeno a pagamento. Non avrebbe più lasciato l'ormeggio dove gli automatismi di bordo lo avevano agganciato. Senza equipaggio la piattaforma era priva di manutenzione e quindi pericolosissima; ma soprattutto era abbandonata all'abbraccio di Giove, un rottame tra le dita del grande spazzino del sistema solare. Famoso per non scartare nulla di ciò che gli capita a tiro che non abbia velocità a sufficienza per sfuggirgli. Concludendo: era seduto su una bomba a orologeria in caduta libera verso Giove. Si sarebbe messo a ridere per quell'immagine che gli aveva appena attraversato il cervello, se non fosse stato per il fatto che la situazione era davvero quella.
Decise di attraversare la zona degli uffici per vedere se riusciva a tornare nel corridoio ad anello: voleva cercare gli altri approdi per vedere se vi erano navi o veicoli di qualche genere ormeggiati. Ignorò una sorta di salotto dove erano rimaste solo due sedie rotte, una zona ristoro con i tubi dell'acqua chiusi da cappucci improvvisati col nastro isolante e i segni dei mobili sulle pareti a ricordare la disposizione originale dell'arredamento. Ignorò anche una scala a chiocciola e un montacarichi spento, limitandosi ad annotare mentalmente la presenza di un livello superiore e di uno inferiore. Tutti i locali erano stati svuotati, i mobili traslocati, gli oggetti rotti o inutili abbandonati.
Tossì. Aveva la gola irritata. Perché stava respirando con la bocca? Non riusciva a inspirare abbastanza dal naso che prudeva. Polvere. Polvere ovunque. Si voltò indietro e vide distintamente alla luce azzurrastra dei tubi sopravvissuti che la polvere galleggiava nell'aria, sollevata dai suoi movimenti. Il suo sguardo cadde sul pavimento, seguì a ritroso le proprie impronte nella polvere e nella sporcizia accumulate sul pavimento. Un tuffo al cuore, il respiro paralizzato per un lunghissimo istante di spavento. Le impronte si incrociavano con altre che uscivano da un locale dove era certo di non aver messo piede. Si avvicinò con cautela, osservando le tracce. Le impronte lasciate dalle suole lisce delle sue ciabatte sembravano rimpicciolire di fianco a quelle di uno stivale da combattimento. La polvere era così fine da recare impresso il simbolo dei marine coloniali, ben riconoscibile.
Militari, si disse serrando le labbra per il disappunto. Non poteva sapere se l'impronta era recente o no: non era in grado di valutarlo. La sua sensazione di impotenza lo tormentava sempre più: si trovava su una piattaforma orbitale presumibilmente del tutto abbandonata, abbigliato come se si trovasse in vacanza al mare ad al-Idun, esposto a temperature polari e ai veleni di un'aria non filtrata. Nudo e indifeso e da qualche parte, forse, c'erano perfino dei soldati. Si drizzò in piedi strofinandosi le braccia per cercare calore. Dopo qualche istante di riflessione decise di seguire la sua idea originale: capire se vi fosse un altro veicolo ormeggiato. Solo negli olofilm il protagonista si sarebbe messo a seguire le impronte lasciate da estranei, finendo inevitabilmente in mezzo ai guai. Non aveva bisogno di ulteriori problemi: gli bastavano quelli che già aveva.
   
 
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