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Autore: _Fire    09/02/2015    13 recensioni
| Mini-long | Klaine | AU | Principe!Blaine |
Un amore che va contro tutte le convenzioni sociali della sua epoca.
Ne varrà la pena?
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Burt Hummel, Kurt Hummel, Rachel Berry | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Kurt si strinse nel caldo scialle di lana beige appoggiato sulle sue spalle. 
Gli arrivava fino alla vita, ora che era cresciuto, ma ricordava ancora quando da piccolo era lungo fin sotto i suoi piedi e lui andava in giro per i corridoi della sua piccola casa, giocando a fare il re, con una baguette come scettro. Ma non era più un bambino. Aveva imparato che quello che regola il mondo è un equilibro precario: vacilla continuamente, e basta una piccola scossa a creare un terremoto. 
Kurt si passò una mano tra i capelli castani, sospirando, rassegnato a quale fosse il suo posto nel mondo: un semplice popolano, figlio di un riparatore di carrozze e di una sarta. 
Avvolse ancora di più l’indumento intorno al suo torace, ispirando profondamente il profumo di sua madre, che ancora impregnava la stoffa. Stava svanendo però, e Kurt temeva che quando sarebbe scomparso del tutto avrebbe perso l’ultima cosa che lo legava a lei.
Si incamminò per le strade tortuose che abbracciavano le colline di Saint-Floret, pensando che tra qualche mese sarebbe stato maggiorenne e avrebbe dovuto cercare un lavoro. Burt, suo padre, gli ripeteva sempre che poteva lavorare con lui e poi – a questo punto Kurt si tappava sempre le orecchie - quando  sarebbe morto, ereditare l’attività. Ma lui voleva fare qualcosa che gli piacesse, che lo rendesse felice, per quanto possibile in un paesino come quello.
Un brivido di freddo lo scosse dai suoi pensieri.
Era novembre inoltrato a Saint-Floret, e sulle alture il clima gelido era ancora più accentuato. Il maglione blu che indossava si stava sfilacciando, e Kurt capì che avrebbe dovuto cucirne un altro, una volta a casa. Gli era sempre piaciuto disegnare abiti, fin da piccolo, quando sognava di essere ricco e potersi permettere tutte le stoffe più pregiate; sua madre però gli aveva insegnato che non sempre il vestito più bello è quello più costoso, così come non sempre le persone migliori sono le più ricche. Il ragazzo, crescendo, aveva quindi imparato ad usufruire di tutti i mezzi a sua disposizione per creare i prodotti migliori, qualcosa di cui essere fiero, qualcosa di cui sua madre sarebbe stata fiera.
Purtroppo però, non tutti apprezzavano. Kurt si era abituato ormai agli sguardi che tutti gli rivolgeva quando usciva vestito con una camicia ricavata da una tenda, un capello da un rivestimento di una sedia, eppure non gli importava. Si ripeteva che un giorno –un bel giorno - tutte quelle persone non avrebbero più riso di lui. Da due anni ormai, giurava a sé stesso che se ne sarebbe andato da quel luogo: e avrebbe trovato il suo posto nel mondo, libero dai pregiudizi e dalle sofferenze che lo circondavano a Saint-Floret, facendolo affondare in un mare di dolore e delusione, come un’ancora.
Kurt era giunto alla piccola piazza dove c’era la sua - altrettanto piccola - casa. 
Poi li vide. 
Sembravano aspettarlo davanti all’uscio, distraendosi calciando una palla, al posto della quale, temeva Kurt, presto ci sarebbe stata la sua faccia
«Ehi, signora sarta! La mia maglietta ha un buco, potresti cucirmela?» cominciò uno. 
«Amico, non vorrai che ti veda a petto nudo?» continuò un altro. «Sai come sono fatti questi qui.» sussurrò a voce bassa, ma non abbastanza perché Kurt non potesse udirla. Mentre i ragazzi ridevano, lui camminò dritto verso la porta, come se quello che succedeva intorno non lo riguardasse e non lo ferisse. 
Giunto davanti alla casa, si sentì tirare indietro: uno dei ragazzi l’aveva afferrato per la sciarpa verde, e ora lo trascinava verso gli altri. Kurt si portò le mani alla gola, per allontanare la sciarpa e non essere strangolato. Finalmente il ragazzo lo lasciò, ma solo per buttarlo a terra e dargli un calcio sulla faccia. Prima che anche gli altri potessero iniziare, suo padre – probabilmente avendo avvertito il chiasso - uscì correndo dalla porta con un aggeggio da lavoro piuttosto appuntito, con cui riuscì a far fuggire i ragazzi.
«Ci vediamo presto, Hummel.» disse uno, prima di sputare sulla terra dove lui era ancora accasciato.
Suo padre lo raggiunse, porgendo una mano per aiutarlo ad alzarsi, ma Kurt si sollevò piano da solo sulle ginocchia, raccolse lo scialle ormai lurido – non avrebbe mai più avuto l’odore di sua madre - e si diresse verso la porta, con un semplice «Sto bene papà.» pronunciato a labbra strette. Corse nella sua stanza, con le lacrime che rigavano le guance candide, scendendo dagli occhi azzurri, e lo scialle che ondeggiava dietro le sue spalle, ma non fu come quando era bambino.
Perché lo sapeva, nessun re sarebbe mai stato ridotto in quello stato.

***

Dopo qualche ora, suo padre bussò alla porta.
«Kurt…posso entrare?» chiese con fare timido, e il figlio se lo figurò mentre si passava il berretto da una mano all’altra, imbrattandolo, mentre lui andava su tutte le furie.
Prima di farsi vedere, Kurt si specchiò e- Dio. Il collo era rosso, con delle escoriazioni sui lati, dove la sciarpa aveva tirato più forte, aveva un taglio che partiva dal labbro per finire sotto il naso, e gli occhi gonfi e rossi. Lo scialle giaceva a terra, sporco e rovinato, senza più una traccia del profumo che tanto amava e che gli aveva sempre dato conforto in momenti come questo. 
Suo padre entrò e quando lo vide ridotto in quello stato strinse i pugni e la sua faccia si fece rossa. Kurt si sforzò di sembrare sereno, per confortare il padre, e lo abbracciò.
«Non mi hanno fatto tanto male.» mormorò, non del tutto convinto. Infatti, quando provò a sorridere, lo spacco cominciò a sanguinare e il ragazzo si pulì con un fazzoletto.
Suo padre si lasciò cadere su una vecchia sedia di legno, che scricchiolò sotto il suo peso, facendo ridacchiare Kurt: lì si sedeva sempre sua madre, leggiadra come una farfalla.
«Vuoi andartene da qui?» gli chiese Burt, rimettendosi il berretto. Il ragazzo lo guardò con gli occhi improvvisamente più luminosi: non c’era niente che desiderasse di più
«Dici sul serio?» esclamò.
Suo padre ridacchiò del suo entusiasmo, pensando che in quei momenti sembrava ancora un bambino, con gli occhi azzurri uguali a quelli di sua madre. Ma poi spostava lo sguardo sulle cicatrici, e si rendeva conto che suo figlio era cresciuto.
«Mi hanno offerto un lavoro a palazzo.»
Kurt sbiancò. Credeva che quello splendido castello di cui tutti parlavano, con affreschi, mobili pregiati, servitori in ogni angolo, colmo di oro, fosse solo una leggenda.
«E perché io potrei venire?» chiese Kurt, rendendosi conto che i sovrani avevano richiesto la presenza di suo padre, il miglior riparatore della piccola Saint-Floret, ma perché avrebbero dovuto volere anche lui?
«Ecco…» balbettò il padre. «Potrei aver elogiato le tue capacità di sarto e…e…dato che dovremo vivere lì, mi sono rifiutato di andarci senza di te.»
Per la seconda volta quel giorno, gli occhi di Kurt si riempirono di lacrime, ma questa volta erano di gioia sincera, come non ne provava dalla morte di sua madre. Finalmente avrebbe lasciato quel paesino.
Sarebbe andato a palazzo.


 
Blaine gettò la testa all’indietro, appoggiandola sulla comoda poltrona di velluto blu su cui sedeva.
«Rachel, potresti lasciarmi un po’ da solo?» chiese con un piccolo sorriso alla sua dama di compagnia.
«Certamente, principe.» Il ragazzo trasalì a quell’appellativo, come sempre.
Aveva chiesto a Rachel per favore di chiamarlo solo Blaine, ma non c’era stato verso.
Molti avrebbero desiderato essere al suo posto, essere lui, il figlio niente meno che del Re e della Regina, mentre lui aveva sempre sognato il contrario, di potersi sentire normale. Non che non gli piacesse la sua vita, certo, ma gli sarebbe piaciuto provare a vivere un giorno come tutti gli altri, senza dover aver intorno guardie o servitori, essere sempre sotto l’esame dei suoi genitori perché «Blaine sei il principe» e avere degli amici non solo per questo motivo.
Rachel si sollevò da terra, mantenendo con le mani l’ampia gonna, poi fece un inchino e uscì dalla stanza. Blaine conosceva la ragazza sin da piccolo, quando era stata adottata dal Conte e dalla Contessa Berry, fidati consiglieri e amici dei sovrani, ma non sapeva nulla della sua vera famiglia.
Pavarotti – l’usignolo che suo padre gli aveva regalato quando aveva otto anni - cinguettò dalla sua gabbia sulla finestra e Blaine sorrise.
Amava la musica, era una di quelle cose che lo faceva sentire al suo posto, specialmente quando era davanti al pianoforte e lasciava che le dita accarezzassero i tasti bianchi e neri.
Faceva molto caldo, nonostante il palazzo si trovasse sul punto più alto della collina. Il ragazzo si sistemò il panciotto rosso, afferrò gli stivali e sgusciò fuori dalla stanza infilandoseli. Corse il più silenziosamente possibile giù per la lunga scalinata di marmo bianco e blu. Uscì dal palazzo, correndo verso le stalle.
«Sam!» gridò, cercando lo scudiero, che era diventato anche il suo migliore amico. Il ragazzo arrivò poco dopo, con i vestiti sgualciti e i capelli biondi attaccati alla fronte madida di sudore: probabilmente, era andato a fare una delle sue corse clandestine con Evan, il suo cavallo.
Fece un inchino e Blaine pensò che fosse…bello. Non sapeva cos’era l’amore e quindi tantomeno quello che provava per Sam, anche se pensava di doversi innamorare di una donna, una che un giorno avrebbe dovuto sposare.
«Principe» salutò Sam, raggiunto subito dopo da Finn, l’altro scudiero, che fece la stessa cosa. «Mi avete chiamato?»
Blaine annuì. «Mi servirebbe il mio cavallo.»
L’altro sembrò rifletterci per un secondo, poi esitò. «Oggi non ci sono lezioni. Vostro padre è d’accordo?»
«Mi prenderò tutte le responsabilità.» rispose in fretta lui. Sam – che era fin troppo buono - acconsentì, andando a prendere Renier nella stalla.
Blaine montò velocemente in sella e sfrecciò fuori: cavalcare era come la musica, lo faceva sentire libero. 
Il vento freddo lo investì in pieno, scompigliandogli i ricci neri, ma gli occhi nocciola brillavano. Si allontanò dalla residenza reale il più velocemente possibile, avvicinandosi al piccolo paese subito sotto la loro collina.
Saint-Floret: non ci era mai andato, anche se gli sarebbe piaciuto. Aguzzando la vista, notò che proprio dal paesino, lungo una strada tortuosa, stava salendo una carrozza –una di quelle del palazzo!
La seguì trotterellando, stavolta lentamente: arrivò fino al cancello del castello, proprio il luogo da cui aveva cercato di allontanarsi. Ma la curiosità di scoprire chi era arrivato –dato che non accadeva spesso che si vedessero facce nuove - era troppa.
Dalla carrozza scese un uomo corpulento, con un pantalone blu scuro, un panciotto un po’ sgualcito grigio, che richiamava il suo berretto e una giacca di una tonalità simile, solo più scura. Si vedeva che non erano stoffe pregiate, ma erano lavorate alla perfezione. Lo seguì subito dopo quello che Blaine presumeva fosse il figlio. Un ragazzo bellissimo, dai tratti così delicati da poter sembrare un principe quasi più di lui.
Fermò il cavallo per poterlo guardare più da vicino: indossava un completo blu, pantaloni, camicia e maglione, perfettamente abbinati agli occhi azzurri, di un colore che sembrava a metà tra quello del cielo e quello del mare. Blaine rimase incantato a guardare quel ragazzo, che sembrava appena uscito da una fiaba, mentre si passava una mano tra i capelli castani, prima di aggiustarsi la tracolla della borsa di cuoio sulla spalla. Il ragazzo si mosse verso l’entrata, e Blaine era talmente impegnato a guardarlo che cadde quando il suo cavallo impennò, prima di correre verso la stalla.
Si rialzò imprecando, con i vestiti sporchi di fango e terra e corse verso la sua camera, nel palazzo, sperando di non incrociare suo padre conciato in quello stato, fuori dai giorni prestabiliti per le lezioni di equitazione, per di più. Camminò di soppiatto, guardandosi dietro le spalle ad ogni angolo, fino a che non raggiunse le scale di marmo: stava per tirare un sospiro di sollievo, gli sarebbe bastato salirle e sarebbe stato al sicuro in camera sua, quando…
«Oh scusami…ciao, posso farti una domanda? Sono nuovo qui…»
Era il ragazzo della carrozza. Da vicino Blaine notò una piccola cicatrice appena sopra il labro superiore. Stringeva nervosamente la tracolla della borsa, mentre i luminosi occhi azzurri scrutavano l’ambiente circostante.
Decise di rischiare. Non sapeva di certo che fosse il principe, e non conosceva mica il suo nome, no?
«Piacere, Blaine.» disse semplicemente, allungando una mano verso di lui.
L’altro esitò, poi sorrise e la strinse. «Kurt.» 
Kurt. Mai nome suonò più bello nella sua mente.
«Cosa stai cercando?» chiese, facendo arrossire il ragazzo.
«Ehm, ho perso mio padre. Credo sia andato nella sala del ricevimento, ma –ecco, non so dove sia…»
Blaine rise del suo imbarazzo, trovandolo adorabile.
«Posso portartici io.»
Kurt annuì e sorrise, e lui pensò che le stelle in confronto non erano nulla.
Blaine gli afferrò la mano e trascinò il ragazzo –con le guance bordeaux - per un lungo corridoio, sbirciando il suo volto di tanto in tanto. In quel momento si sentiva quasi normale, solamente Blaine, e non il principe o qualunque altra persona che gli altri avrebbero voluto che fosse.
Solo quando arrivarono davanti alla porta della stanza lasciò andare Kurt, che gli sorrise –di nuovo - e, di nuovo, Blaine si sentì mancare il respiro.
«Ecco mio figlio.» disse l’uomo della carrozza avvicinandosi. «Si sarà confuso con tutte le stanze di questo palazzo.» e ridacchiò scompigliando i capelli al ragazzo, un semplice gesto che suggerì a Blaine l’affetto che quei due condividevano. Un affetto puro e reale. 
«Gli avrà fatto strada mio figlio.» intervenne suo padre, Re Robert, allungando un braccio verso di lui. «Anche se non nelle sue migliori condizioni.» aggiunse sibilando, squadrandolo da capo a piedi.
A quelle parole, Kurt si girò velocemente verso di lui, con gli occhi spalancati e, arrossì, abbassando lo sguardo. 
Ecco. 
Blaine era tornato ad essere solo il principe, mentre Kurt era tornato a essere solo un semplice popolano.


 

Note
Ancora non ci credo di averla davvero pubblicata. Non sapete quanto mi senta agitata. In questo fandom ci sono bravissime scrittrici, e io mi sento piccola piccola. E' la prima vera storia che scrivo sui Klaine. Ci ho lavorato a lungo, mi farebbe molto piacere ricevere un vostro parere, negativo o positivo che sia. La storia è nata come una one-shot, ma essendo molto lunga ho deciso di dividerla in tre parti. La seconda dovrebbe arrivare tra qualche settimana.
Ci tengo a ringraziare di nuovo Life before his eyes -Alice, senza la quale molto probabilmente la storia neanche esisterebbe.
E poi, voglio dedicare questa cosa a due ragazze che sono tipo troppo -tutto: Antonella e Deborah sapete che parlo di voi.
Adesso, data l'ora, vado, ma potete sempre trovarmi 
 qui. ♥
Fire 

 
   
 
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