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Autore: tropicanaroses    09/02/2015    1 recensioni
Il mondo.
 Quello che non si è fermato mai un momento. Quello in cui la notte insegue sempre il giorno, e noi siamo parole straniere che nessuna lingua può tradurre, nessuna.
Genere: Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A song of dust and memory              

 

 

Il mondo.
Quello che non si è fermato mai un momento. Quello in cui la notte insegue sempre il giorno, e noi siamo parole straniere che nessuna lingua può tradurre, nessuna.
Ho parlato con lei. Ci sono tante cose che vorrebbe dirti, ma le restano sempre tutte bloccate in gola. Ha i capelli lunghi, adesso, e tutti i tatuaggi che le hai disegnato.
Non so, la capisco, neanche a me vengono le parole. Sarà che sono quasi le sei del mattino e a quest’ora è sempre troppo tardi o troppo presto per fare qualunque cosa. Sarà che piove tantissimo, con fulmini, e tuoni, e suoni roboanti che fanno partire gli antifurto delle auto; il cielo in un tumulto di grigi e neri sovrapposti e squarciati occasionalmente dalla luce è strano, non siamo abituati. Non è così che ci si comporta, in California.Comunque, ho parlato con lei. Sta bene dentro quegli abiti che tu le criticavi senza sosta, pungolandola sui colletti troppo alti, le maniche troppo lunghe, le ballerine che sfioravano il suolo quando sedeva sulle altalene con te di fianco. Anche quegli occhi grandi e sereni che alzava dentro i tuoi, quando finalmente le parlavi davvero, anche quelli ho visto; li ha piantati dentro ai miei, ed erano pieni di domande a cui io non potevo rispondere. Tu sì che l’avresti saputo fare. Tu avresti saputo cosa dirle. Io no. Io sono solo io. E, senza di te, ancora meno che questo. Sfioro di un passo il concetto di nulla, e non c’è magia che possa riportarmi indietro, agli anni in cui ti capivo, in cui potevo parlarti ed ero certo che mi avresti risposto - anche solo per mandarmi a cagare. Gli anni in cui il cuore mi batteva intero, non in due metà. Nessuno sa che farsene di un cuore spezzato, nessuno. Men che meno io. Avrei voluto che lei mi desse un po’ di forza, ma poi l’ho vista e ho capito che era lei che cercava forza da me, e non avevo niente da darle. Che uomo sono, mi chiedevo e richiedevo, guardandola, che uomo sono se non sono neanche in grado di dare un briciolo di speranza a una ragazza distrutta e rassegnata? Nell’attimo in cui ho visto la fatica avvolgerla nelle sue spire avrei voluto afferrarla e strapparla via da quelle mille braccia, ma non ho potuto. Io non ho più braccia per afferrare niente. Non ho più spalle a cui tenerle attaccate, non ho più una testa con cui decidere cosa farmene, eventualmente, di delle braccia.
Il mondo, ti dicevo.
Il mondo non esiste più, è un ricordo dentro un sogno. Una lapide su cui nessuno ha messo una data.
Invece il problema è esattamente quello. Il problema è che qualcuno ha messo una data su una lapide. E allora noi prendiamo vitamine, andiamo a letto presto, facciamo esercizio, limitiamo gli alcolici, riposiamo gli occhi, cerchiamo la pace nello yoga, calcoliamo le calorie e rilasciamo endorfine con saggio senso della misura. Come se questo ci rendesse immortali, ha detto qualcuno; ha detto qualcuno, che ci siamo spaventati così tanto a causa della tua improvvisa morte che, d’un tratto, ci siamo resi conto che le nostre vite dissolute e libertine ci avrebbero portati verso la stessa fine se non avessimo posto un freno agli eccessi. In effetti, è quanto ci siamo raccontati anche noi, ma non è la verità.
La vuoi sapere, la verità?
La verità è che noi abbiamo bisogno di pensare che le nostre esistenze dissolute ci avrebbero portati tutti a fine certa, e che per un calcolo ineffabile delle probabilità purtroppo è capitato a te, e che di conseguenza la cosa ci abbia dato una svegliata collettiva sul nostro terribile stile di vita. Abbiamo bisogno di pensarlo perché non è così. Tu sei morto, e non c’è un perché. Proprio tu, tra tutti, e nessuno di noi altri. Non ha senso, e non è colpa dell’alcol o delle ore piccole, è colpa del caso. Il caso che ha fatto sopravvivere Keith Richards a ottant’anni di droghe pesanti e voli dalle palme da cocco. Il caso che ha ucciso te, all’improvviso, che di anni non ne avevi nemmeno trenta. È orribile, crudele e non c’è logica, ma è così. Io lo so bene, eppure fingo insieme agli altri che un cambiamento radicale nelle abitudini ci possa proteggere dalla morte - anche dalla tua. Fingo, certo, perché poi chi glielo spiega a questi, come stanno veramente le cose? E cioè, che accade. La vita accade, la morte accade, e qualcuno, nessuno o la statistica, ha deciso che accadesse a noi. Che accadesse a me, che senza di te non so più che cazzo farmene delle note delle canzoni e di ore vuote e piene su un divano ad avercela con il mondo e a sentirsi superiori, invincibili, immortali con una birra e una donna.
Così, ho telefonato a lei. Per vedere se lei ci era riuscita, a inventarsi una vita dopo di te. Magari mi sarei fatto dare qualche consiglio, un antidepressivo, un libro che mi facesse tornare la fede nell’aldilà. Invece no, a quanto pare siamo rimasti tutti e due nell’aldiquà, io e lei, a fare i conti con l’odore di fiori appassiti e marmo lucido al sole, e a guardare questa assurda pioggia che si riversa con un odio oserei dire premeditato sulle palme di Huntington Beach.
Non volevo vedere quella ragazza eterea, lirica, antica, solare e immensa, piena di speranza e di sogni nei cassetti aperti, sempre pronta a credere nel domani e nelle favole, carica di citazioni come se fosse lei stessa una biblioteca in cui desideri rinchiuderti per sempre, perché sai che ti difenderà dal mondo; che saprà trovarlo lei, al posto tuo, tutto il bello di vivere. Di esserci. Di credere. Sai che saprà dare al resto colori che il resto, da solo, non si sarebbe mai potuto neanche immaginare.
Non volevo vederla, e lei mi ha fatto la cortesia di non farsi vedere. Quella che ho trovato, al suo posto, era un’ombra stanca e cupa, carica di pioggia e di ricordi che non riesce più a farsi passare per veri, di una bellezza struggente e malinconica che mi faceva male al cuore. Quegli occhi, grandi e belli, dietro a un velo dove non volevano farsi più raggiungere. Ne ha avuto abbastanza, lei, del dolore, e di tutte le mille facce che sa indossare. Ne ha avuto abbastanza di doversi rialzare dopo essere caduta. E di fidarsi. Non si fida più di me, né di te, né di se stessa. Non è che puoi stare lì a fargliene una colpa, ha ragione lei. Ci sono dei limiti che uno non dovrebbe mai valicare, ma prima o poi qualcuno lo fa, e da lì non c’è ritorno. Non c’è ritorno.
“Scrivi sempre?”, le ho chiesto, perché sono un ingenuo e la cosa giusta non l’ho mai neanche vista passare, figurati se avrei mai potuto saperla dire. In una situazione come quella, poi.
Lei mi ha sorriso, spezzandomi il cuore. Voleva dire come se avessi alternative. E io avrei voluto rispondere lo so, cosa credi, le inclinazioni con cui sei nato ti rincorrono come una condanna anche e soprattutto quando non le vuoi. Quando vorresti farne a meno, dimenticarle, sparire, trasformarti in qualcosa che non sente, che non vede, e che soprattutto non ha l’esigenza di trasformare ciò che sente e che vede nell’unico modo in cui sa renderselo comprensibile: scrivendo. Magari potessimo non scrivere più, e non ricordare. Magari potessimo smettere di trasformare i ricordi in angoli di tempo che ci strazieranno con la nostalgia che ne avremo, anche quando non saremo più in grado di dire se sono veri o meno, perché non sarà più importante. Magari potessimo smettere di inventare i ricordi, per costruirci la vita che speriamo, tutto sommato, di aver vissuto. Forse, col senno di poi, era meglio prenderle, le vitamine. Meglio andare a letto prima, fare esercizio regolarmente, limitare l’alcol e smettere di pensare. Meglio credere alle cose semplici, che a quelle vere. Che, oltretutto, quasi mai sono reali, oltre che vere. Come funziona male questo Universo.
Come dimenticare lunghi anni insieme, scoppi di risate, notti insonni che non facevano rima con la solitudine, idee balzane ma bellissime, complicità, serenità, idiozia, come dimenticare quell’unico errore che aveva reso tutte queste cose inutili, invalide, finte, polvere nel vento? È che quando qualcuno ti muore dentro il cuore, più ancora che tra le braccia, resti da solo con la eco di un dolore che ti porterai dentro per sempre, non importa come cercherai di addobbarlo per rendertelo più accettabile. È che le fratture le senti, sono  rumori secchi e crudi nella notte. Non puoi tapparti le orecchie, perché sono cose che accadono dentro, e quel che accade dentro non supporta filtri. Così, ci si inventa una ragione. Ci si butta nel lavoro, nello yoga kundalini, nei libri di Jodorowsky, ma la vita ormai è già accaduta, ed è invivibile. Lo sai, quando sei solo di notte e gli occhi ti si chiudono su praterie e viali di immagini che non ti appartengono più, perché ora si sono rivelati per quel che sono davvero: impressioni. L’impressione di un amore, del calore di un abbraccio, dell’affetto imprescindibile e potente che valica le montagne e abbatte le dighe, del sorriso di tua nonna, degli occhi di tua madre, delle speranze nel futuro, della bellezza del mondo, e del cielo, e di tutto quello che ancora doveva accadere. La depressione è un angolo cieco, e non siamo noi a non vedere. È il mondo. Il mondo ci ha sbarrato gli occhi e ci ha insegnato una canzone che non sappiamo fare altro che ripetere, e notiamo il riverbero di quei versi in ogni cosa intorno a noi. Ogni cosa è quella canzone, che è arrivata tanto in fondo da aver fatto il nido dentro l’anima alle persone che, giureresti, non sono proprio il tipo da ospitare gomitoli di tenebra incastrati per traverso nella gola. Non è che cambiano le cose che fai, cambia come le vedi. La vita è strana. Una palla strana e oscillante, che rischia ad ogni momento di caderti in testa.Poi le ho parlato. Ho dovuto. Lei voleva che io le parlassi, che provassi a tirare fuori almeno un po‘ di quella nebbia fitta che aveva dentro. Si è buttata a capofitto nel lavoro; intere giornate a sezionare parole, a sistemare sillabe, per non pensare. Sai cosa mi ha detto? Mi ha detto: “La più grande benedizione, la sera tardi, è poter spegnere il cervello. Sedermi a guardare un film e riposare, ed allora, soltanto allora, farmi travolgere da tutto l’amore e tutto il bene del mondo. Chiudere i ricordi, la bellezza, il silenzio, il potere delle parole, tutto, in quei lunghi momenti in cui prendo il latte, i biscotti, una coperta e mi siedo a leggere, o magari a vedere Pomodori verdi fritti. In realtà, se vuoi saperlo, ci ho pensato proprio guardando quel film.”
“A cosa?”, le ho chiesto, perché non ci ho mai capito molto, dei suoi discorsi.
“A com’è bello relegare la vita che vuoi davvero vivere a quelle due ore al giorno. Invecchiare, poi morire, portandosi dentro quei momenti in cui leggevi, guardavi, pensavi, facevi quel che amavi di più al mondo. Fermenteranno, si ingrandiranno fino a ingoiarsi tutto il dolore e la fatica, e alla fine saranno l’unica cosa che conta. Quei momenti. È l’unico modo per non farsi seppellire vivi dalle cose che si amano, sai? Non farle tutto il tempo, per evitare che perdano lo smalto. Alternarle al dovere, chiuderle in quelle due ore al giorno e lasciare che solo allora ti ricordino chi sei. Certo, qualche volta ti riporteranno alla mente anche ciò fa più male, ma sarà raro. E non così terribile come quando ci vivevi in mezzo. Insieme all’amore bisogna applicare il senso della misura, altrimenti si mischiano i significati e niente vale più niente.”
Lei ha sempre amato leggere, e ha sempre amato i film. Credo facesse parte di lei, tutto quel fascino ipnotico che le storie esercitavano sulla sua mente. La inghiottivano, la avvolgevano, se la portavano via in un Universo carico e privato a cui nessuno aveva davvero accesso, tranne lei. Anche quando ne parlava, o condivideva con noi un pensiero, una lucciola, una scheggia, qualcosa che le era venuta in mente leggendo quel libro, guardando quel film... Anche allora lei parlava a se stessa e non a noi, ci chiudeva fuori. Ma non apposta. È che ci sono cose delle persone che ami che comunque non ti riguardano, né mai lo faranno; funziona così.
“Nessuno può convivere con un cervello che va a ottomila giri all’ora, sai? Neanche io. Eppure credevo di sì.”, mi ha detto, spegnendo una sigaretta nel posacenere che era il confine immaginario tra noi due. Mi ha offerto il caffè. È sempre buono il suo caffè, buono come lo ricordi tu; lei dice che è perché è buona la macchinetta, ma io so che non è così. È che quando lei ti offre il caffè lo fa con amore; le fa davvero piacere, se resti. Secondo me è per questo che è così buono: ti fa sentire voluto, e a casa.
Se tu avessi ancora dei ricordi, vorrei imprimerti questo: l’odore del caffè e del calore misto a quello del freddo e della pioggia, fuori dalla finestra. Questa geometria impossibile, un contrasto elementare, che racchiude tutto il mondo e il suo modo di bussarti ai vetri, minaccioso e gelido, mentre tu, al caldo del tuo dentro, speri che gli infissi reggano e non lo lascino entrare. Poi entra comunque, quello, che ti credi. Trova una crepa, una fessura, e fa irruzione come suo solito. Ma non lo sa, il mondo, che qui dentro siamo armati, io e lei. Siamo armati fino ai denti, anche se stanchi, scossi e preda dello sgomento, e non lo lasceremo entrare. Quando accadrà, perché accadrà, noi saremo già morti. Allora, saremo sabbia nel vento, sabbia che ha sempre avuto una forma, e in quella forma irripetibile e segnata dai solchi volteggerà sulle teste di tutti gli altri, per tutto il tempo che resterà. Il mondo non può fregarci, perché noi siamo il mondo. E abbiamo combattuto per renderlo migliore. Ogni momento di sonno, ogni momento di veglia, con ogni lacrima e ogni sorriso nato prematuro all’angolo della bocca, in ogni frangente e in ogni vena d’odio noi siamo stati vivi, e umani, e convinti di poter fare la differenza. Di macinare i ricordi insieme al caffè, di arredarli e di cancellare il male. Di togliere la fuliggine dall’angolo di quelle fotografie, di restituire ai volti lo splendore che non hanno mai avuto, ma che avrebbero voluto avere. Vi ricorderemo sempre migliori di quelli che siete, perché è così che abbiamo voluto immaginarvi. Migliori. Invincibili. Immortali. È così che vi sentivate con noi, e una volta che ce ne saremo andati quella sensazione perduta verrà a bussarvi dentro per il resto della vostra vita. Ma noi non ci saremo più. No, se dio vuole, saremo morti, dimenticati. Sabbia nel vento, di quella sabbia fine, bianca, che si trova su certe spiagge dell’Africa che danno sull’Oceano Indiano. Sottile, quasi impercettibile, ma non polvere, questo no. Noi non ci accumuliamo negli angoli dell’anima, e non possiamo essere spazzati via; ci ritroverete sempre, nelle pieghe di un lenzuolo che avete lavato già mille volte, e non saprete mai spiegarvi come mai siamo ancora lì.
Così, le ho fatto una domanda. La più difficile. Proprio a lei, tra tutti quanti, lei che aveva saputo ricomporre architetture straordinarie e pericolanti, costruendogli intorno un cantuccio in cui potessero sentirsi al sicuro.
“Pensi si possa?”, le ho chiesto. Intendevo ricominciare, ma lei lo sapeva già. Così mi guardò, e mi sorrise, e con una tristezza talmente dolce e lieve da risultarmi insopportabile scosse la testa, stornando lo sguardo verso il basso. “No.”, disse, accendendo un'altra sigaretta, “Noi non avremo mai più una vita. Però, e questa è la buona notizia, loro sì. Loro avranno una vita giusta, non perfetta o coerente, ma una vita con cui potranno fare i conti. Non gli accadrà mai niente che non possano sopportare, nessun dolore gli spezzerà mai il cuore in modo irreversibile. Sapranno aiutarsi, rialzarsi, essere felici, stare un po' tranquilli, e alla fine, anche dopo i guai peggiori, sapranno sempre cosa fare. E saranno sempre meglio di com'erano prima.”Chi, stavo per chiederle. Ma poi vidi il plico di fogli che anche lei guardava. Ah, loro. Le persone che vivevano in quelle pagine, tra i puntini sospensivi di quelle storie; erano tutti suoi, come nostri sono i figli, i segreti e i rimpianti. Gli voleva bene e ci teneva che fossero sereni; quando così non era, faceva di tutto per aiutarli. Inventava. Certo, ma certo che ancora scriveva. Cose inusuali, ineffabili, con chiare pennellate di malinconia e un'idea della vita che non somigliava affatto a quella che aveva prima che tu andassi via, ma le persone nelle pagine le erano affezionate, e se la portavano via ogni volta che potevano; con loro, lontano, in posti che aveva già visto o che avrebbe voluto vedere, per distrarla un po'.
“Ti fidi di loro.”, osservai, rasserenato dalla sua prospettiva sulle cose.
“Certo. Più di quanto io riesca a fidarmi delle persone reali. Quelle in carne ed ossa, intendo. Quelle con cui devo fare le domande rinunciando al privilegio di potergli scrivere anche le risposte.”
Accennai una risata, rincorsa dalla sua: sembrava il primo suono normale dopo il silenzio che segue una guerra, la ruota di un mulino che riprende a girare dopo un bombardamento aereo che ha raso al suolo l’intera realtà di qualcuno. La accogliemmo con lo stesso stupore con cui i contadini avrebbero accolto il suono del mulino.
“Immagino starai per dirmi che ti fidi così tanto di loro perché non ti hanno mai delusa.”
Lei scosse la testa, con quel sorriso lieve che non le moriva sulle labbra. “Oh no, mi hanno delusa eccome. Mi hanno fatta disperare. Anche lui. Soprattutto lui.”, disse, abbracciando con gli occhi l’aria intorno a sé senza un vero obiettivo. Lui, ovviamente, eri tu. Ecco dov’eri, ho pensato, ovunque e da nessuna parte. O, almeno, così la metteva lei.
Poi, il silenzio. La brace della sigaretta consumava il tabacco già da un po’ quando mi decisi a tenderle una mano per tirarla fuori dal labirinto in cui stava scivolando davanti ai miei occhi.
“Piccola?”
Si riscosse come da un sogno, guardandomi con un certo stupore, come se non si aspettasse di trovarmi lì. “Scusami”, disse, sorridendo timidamente, “mi ero persa.”
The little girl just could not sleep, because her thoughts were way too deep; her mind had gone out for a stroll, and fallen down the rabbit hole.
Una volta ti sei vestito da Bianconiglio e lei ti ha rincorso per tutto il cortile, mi pregio di ricordarti questo momento di altissimo teatro. Performance irripetibili, le vostre; ce le siamo dimenticate dentro qualche piega, sono affogate nel dolore, e nel rimpianto.
“Ci pensi a quanto sarebbe bello invecchiare accanto a un uomo che, ad ottant’anni, ti chiama ancora la mia ragazza?”
Restai perplesso. “Ti fidi se ti dico che non mi sono mai posto il problema di dover invecchiare accanto a un uomo?”
Lei scosse le spalle, ridendo. “No, non è vero. Te lo sei posto. Forse non ai miei stessi termini, ma lo hai fatto.”
Il buio calò su di noi come una coperta scura. Distese una mano sopra il tavolo, sfiorando la mia, e io mi stupii di avere ancora una mano da sfiorare.
“Dovremmo fare un passo avanti.”, dissi. Che frase cretina, da Manuale delle Giovani Marmotte.
“E due indietro, come in quella canzone di Bruce Springsteen.”
“Come si chiamava?”
One step up.”
“Ah, sì… Piaceva all’Oracolo.”
“Sì, piaceva all’Oracolo.”
Si stiracchiò e i capelli le caddero davanti al viso. Mi guardò tra le ciocche ribelli, uno sguardo senza ombre, carico di passato.
“Ho le braccia vuote.”, disse, come una preghiera.
“Ma hai ancora le vene piene. Da lì esce inchiostro nero come la paura, lo so per certo.”
Sospirò, accennando un sorriso. “Come la paura.”, ripeté, soppesando il paragone.
I don’t gamble, but if I did, I would bet on us.
Sbatté le mani sul tavolo, riscuotendo la mia attenzione e la propria.
“Vuoi dormire qui?”, mi chiese. Io ero un po’ stranito. La stanza odorava di caldo, di fumo, di caffè e di lei; non c’era spazio per i sottintesi.
“Puoi dormire con me.”, aggiunse. Lo capii istantaneamente, non parlava di sesso. Forse - resti tra noi - un po’ ci avevo anche sperato.
“D’accordo.”, risposi.
Fu soltanto uscendo dalla cucina che notai le rose nel vaso; circa una ventina, un’esplosione di rossi e di gialli senza capo né coda, tutti mescolati insieme, come dentro una pozione magica. “Quando lei hai prese quelle?”, le chiesi, distrattamente.
“Tre anni fa.”
“Che vuol dire tre anni fa?”
“Che le ho prese tre anni fa.”
Qualcosa non mi quadrava.
“Intendi dire che le hai prese tre anni fa per la prima volta?”
“No, intendo dire che quelle sono le rose che ho comprato tre anni fa.”
“Sono finte? Sembrano vere.”
“Sono rose vere. E le ho comprate tre anni fa.”
Guardai l’acqua, pura come cristallo, nella quale fluttuavano gli steli, come fantasmi di un’altra epoca. “Sembrano di giornata.”, dissi, confuso.
“Non sono mai appassite. Gli cambio l’acqua ogni due giorni.”
“Mi stai dicendo che tre anni fa hai comprato venti rose rosse e gialle e che quelle stesse rose sono in questo vaso, e non sono mai appassite?”
“Diciannove.”
“Come?”
Sorrise. “Sono diciannove. Diciannove rose rosse e gialle.”
Diciannove rose rosse e gialle.
Fuori, sul dondolo nel patio, come sempre tu stavi seduto a guardare dentro la notte, dritto verso l’oceano.

   
 
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