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Autore: Ljn    12/02/2015    4 recensioni
"C’era una volta, tanto, tanto tempo fa, un principe molto amato dalla sua gente per il suo cuore grande e l’animo gentile.
Il principe amava i suoi sudditi con la stessa intensità in cui era amato, ma aveva un amore particolare per una persona. Una persona molto speciale, che il principe aveva cara e custodiva vicino al proprio cuore esattamente come ella faceva segretamente con lui …"
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sakura Haruno, Sasuke Uchiha
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Ave!
Superati (quasi) gli intoppi di connessione, ho deciso che stavo diventando paranoica con le fisime su questo capitolo.
Come ci sono riuscita? Perchè avevo cominciato a questionare se era più corretto "geologia" o "pedologia" o magari era meglio "agronomia". Dopo ovviamente essermi fatta venire un'ulcera ricordando che non avevo una conoscenza approfondita e neppure appena più che vaga della storia del giardino, e aver passato metà pomeriggio ad informarmi, prima di darmi dell'idiota.
Prima o poi le rivelazioni colpiscono pure me, insomma... U.U
... Buona lettura e alla prossima!
Baci ^^

 

__. Capitolo Quinto .__

Decisi di rimandare la visita al “giardino delle storie sussurrate”, come avevo stabilito di ribattezzarlo per dare un titolo degno alla mia ricerca, al mattino successivo.

Avevo sofferto per settimane senza trovare nessuna informazione succosa e potenzialmente portatrice di soldi, ieri avevo camminato tutto il giorno per esplorare la città maledetta senza ottenere altro che persone gioiose fino alla nausea, orgogliose del proprio paese e delle sue bellezze, e una conversazione persa con un vampiro “carnivoralmente” bastardo peggiore del mio. Quello, almeno, camuffava la sua bastardaggine e la sua propensione per la masticazione dell’idiota di turno che aveva osato sfidare la fortuna presentandosi dinnanzi a lui, con una facciata di cortesia ed educazione.

E ancora neanche sapevo il suo nome.

Shannaro! Mi meritavo un po’ di coccole!

In camera trovai uno yukata stupendo ad attendermi, perciò stabilii di dedicarmi al Tai Chi a cui mi aveva introdotta il mio bastardo al nostro secondo appuntamento all’Università, e che negli ultimi giorni avevo vergognosamente negletto, e poi vedere da che parte tirava il vento della mia auto-proclamata giornata di ferie.

Ah. Se ve lo state chiedendo, la prima volta che ci sono uscita insieme, con la mia piantina carnivora, intendo, siamo andati a cena in un deliziosissimo ristorante italiano gestito da una carinissima coppia di Hosaka, dove il mio giapponese DOC con attestato di qualità stampato sulla schiena – e non sto AFFATTO scherzando -, mi ha fatto assaporare i migliori pizzoccheri ai funghi e speck altoatesino che il mio palato abbia mai avuto l’onore di incontrare. E in Italia ci ho passato un anno e mezzo, da adolescente. Abbastanza da farmi insegnare la cucina da amici appena conosciuti, e addestrare la mia bocca ai suoi sapori così anomali.

Come abbia saputo “lui” che quel piatto è uno dei miei preferiti, non lo so neppure ora. Rientra nella categoria “cose che è meglio che non gli chieda se voglio continuare ad andarci d’accordo”.

… Che poi … “andarci d’accordo” … parole grosse, dato che l’unico che sembra sopportarlo è il suo migliore amico, che tra l’altro ci riesce solo perché è uno psicopatico da manuale, se volete la mia opinione, e non prova interesse in nessun tipo di essere umano. Solo nei pesci. E non intendo carpe o pesci rossi: intendo squali e orche assassine.

 

Il pomeriggio, decisi di essere ritornata abbastanza umana da poter affrontare un giardino “maledeeeethoooo” - per dirla alla maniera del più classico horror - o “portatore di anima gemella” che fosse. Così indossai i miei jeans più comodi, una maglietta sacrificabile - nel caso avessi dovuto scappare urlando attraverso una selva di rovi nel cuore della notte, anche se era ancora giorno -, le mie scarpe da “terre barbare” e la mia giacca di pelle foderata in vero finto pelo, e mi diressi verso l’attrazione principale di quella graziosa cittadina fuori dal mondo.

Onestamente? Non mi aspettavo molto. Certo non mi aspettavo di entrare a far parte di un film dell’orrore, né tantomeno di uno di quei film romantici che sono talmente romantici da far venir voglia di vomitare anche alle principesse della Disney. Ma l’atmosfera in una buona storia è tutto, come ho detto, e io ero determinata a trarre da quella enorme stupidaggine “una buona storia”. O almeno un decente contorno.

Impiegai quarantacinque minuti ad arrivare al cancello d’entrata, perché dalla casa del vampiro dovetti attraversare praticamente la città per farlo. E nel frattempo scattai quante più foto possibili, non avendo esplorato quella zona nella mia precedente spedizione, sia perché Konoha era davvero piena di bellissimi angolini, che per fini prettamente di ricerca.

Gli abitanti di Konoha parevano essere infatti convinti che la loro città fosse nata con il mondo, e ogni volta che avevo indagato sulla sua storia antica avevo ricevuto risposte degne di un vago mito antico tramandato in modo ancora più approssimativo di padre in figlio per generazioni e generazioni, ma io dubitavo fortemente che potesse essere vero. E trovavo quasi scandaloso che quelle persone così ben disposte verso i turisti avessero una concezione delle informazioni turistiche – per non dire della storia – così aleatoria.

La cittadina fantasma aveva un fascino tutto suo, costruito attraverso quelli che parevano secoli di sovrapposizioni indistinguibili e originali in cui antico e moderno si mescolavano in armonico disordine che sapeva di vita vissuta, vero. Però da qualche parte DOVEVA essere iniziata, anche se io non ero riuscita ancora ad identificare neppure a spanne il secolo originario da cui era partito il tutto!

Forse era questa, la cosa più misteriosa e affascinante di tutta la faccenda, pensai non per la prima volta scattando l’ennesima foto. Avrei dovuto davvero mettermi d’impegno a studiare arte, una volta tornata a casa: NON ESISTEVA che una città potesse battermi nell’acquisizione di informazioni! … Forse avrei dovuto davvero contattare l’Università di Tokyo, una volta tornata a ... Diamine.

Mi ero persa?

Mi guardai in giro per trovare un punto di riferimento per orientarmi e invece trovai un ragazzino con degli occhialoni da automobilista di altri tempi tirati sulla fronte che mi fissava, un piede sullo skate, delle cuffiette saldamente ancorate alle orecchie e un pallone di chewing gum che gli si allargava davanti alla faccia.

Sorrisi il mio miglior sorriso da donzella fragile e bisognosa di aiuto e gli chiesi indicazioni per il giardino, ottenendo una umiliante occhiata commiseratoria, un suggerimento concernente il fatto di guardare dove stavo andando invece di sognare ad occhi aperti e un finale “Basta che segui il muro, obasan” fornito di indice puntato al muro che costeggiava il lato sinistro della stradina su cui stavamo conversando. Ugh. Dannato moccioso insolente. Dovevo aver lasciato il mio senso dell’orientamento alle porte del villaggio, assieme alla connessione internet.

Salutato il ragazzino con il massimo livello di disinvoltura possibile visto il desiderio di dargli un pugno in faccia che faceva fremere di vita propria le mie nocche, mi allontanai seguendo il banalissimo muro antico, in cui piccoli fiorellini facevano capolino dai numerosi buchi dovuti al tempo, sforzandomi di non sembrare in fuga dalla figuraccia che mi sentivo pesare addosso.

Qualche decina di metri dopo, girai l’ultimo angolo e mi trovai davanti al cancello agognato che, a sentire i racconti dei volenterosi cittadini che me ne avevano decantato la magia che tratteneva al suo interno, mi aspettavo essere enorme, in ferro battuto, con ideogrammi inneggianti l’amore eterno e circondato da rose rampicanti e fiori profumati. Per non parlare di musica soave e magari petali che cadevano dal cielo.

Quello che invece mi trovai davanti, era un semplicissimo cancello a sbarre poco più grande di un comune cancello elettrico da vialetto di entrata di una casa privata, con l’unica particolarità di una placca sul battente destro che riportava il simbolo che molte volte avevo visto inciso e disegnato in giro per la città, e un grosso gatto con molte code che soffiava, apparentemente al povero mortale che avrebbe avuto la faccia tosta di passare la sacra soglia. Quello poteva essere il successivo argomento di conversazione con i villici: l’origine di quell’immagine, e magari la storia che vi era dietro. Forse avrei scoperto in quel mito che non riconoscevo, quello che mi serviva per accontentare Jiraiya. Magari avrei scoperto che la leggenda diceva che una divinità aveva eletto a casa la cittadina, e in cambio di vergini con cui intrattenersi aveva giurato di proteggerla dai nemici. Banale, ma magari la storia conteneva particolari originali che potevano essere utili.

Comunque, tornando alla leggenda che mi aveva portato a Konoha originariamente …

L’unica similarità con la mia immagine mentale romanzata era il roseto profumato che si arrampicava graziosamente lungo il muro a sinistra dell’entrata e creava un delizioso arco sopra il cancello. Per il resto, solo una banalissima soglia di un banalissimo giardino pubblico. Forse un po’ più occidentale di quanto non sarebbe stato logico aspettarsi, ma niente di più.

Non sentii campanelli, gong, musiche inquietanti, sospiri estatici e neppure urla agghiaccianti. Nulla di nulla.

Di per sé, l’unica vera anomalia per quell’angolo di mondo era che il giardino pareva un miscuglio di stili e personalità, come se fosse stato progettato un pezzo alla volta da decine di architetti diversi, in infiniti momenti diversi. Un po’ come la città, insomma, e forse quindi aveva anche quello un certo senso logico, tutto sommato.

I giardinieri che lo curavano dovevano essere eccellenti, senza dubbio, perché era straordinariamente ben tenuto, con tutte le piante ordinatamente fiorite e verdi dove dovevano essere tali.

C’era un minuscolo giardino di piante grasse, una serra di orchidee, una collezione di bonsai, un esempio di quello che riconobbi come giardino medievale grazie alle escursioni italiane della mia gioventù bruciata, un angolo che rappresentava un tipico giardino inglese la cui conoscenza … intima dovevo al bastardo, un labirinto in puro stile romantico! - Ah, quella la dovevo alla mia passione per i romanzi storici … - Per la maggior parte aveva una impostazione tradizionale giapponese, con vialetti ben definiti e aree fatte apposta per essere contemplate, e aree dall’apparenza più selvaggia che invitavano ad ammirare la potenza della natura. C’erano cascatelle d’acqua trattenute da bambù, ponticelli che permettevano di passare da un lato all’altro del torrentello che scorreva disordinatamente attraverso tutto il giardino e che si allargava in piccole pozze d’acqua e un laghetto non così piccolo, ampie zone libere e luoghi dove non sarebbe parso strano vedere intere famiglie intente in un gioioso picnic, alberi fioriti e sempreverdi, cespugli. Una zona era adibita ad orto, un’altra a frutteto.

Un caos controllato, un microcosmo che rispondeva solo alle proprie regole e con una propria armonia perfettamente bilanciata da una certa sensazione di insieme.

Anche ad una profana come me, il cui pollice virava pericolosamente verso il nero e che non distingueva un cavolo da un cardo e non ricordava la differenza tra ortensia e rododendro, e che lasciava far la spesa alla quasi-metà – più per evitare i rimproveri del bastardo perché non avevo comprato la verdura di stagione, che per vera pigrizia -, era chiaro che quel giardino era straordinario.

L’unica pecca era che mi avrebbe costretta a farmi una cultura sulla storia dei giardini e sulle piante che li frequentavano, pensai passeggiandovi in mezzo, ma su questo potevo facilmente chiudere un occhio. Mi era sempre piaciuto imparare cose nuove, a patto di avere una buona motivazione per farlo, ovviamente.

Però …

…. Però a parte le piante curate, l’originalità degli accostamenti di stili diversi e la sporadica presenza di persone che parevano aver preso sul serio la faccenda del “racconta una storia ai fiori e troverai l’anima gemella”, non c’era altro.

Proprio come mi aspettavo, tutto sommato, ma sbuffai ugualmente, assurdamente delusa, avanzando verso quello che pareva essere il centro del giardino e slacciandomi distrattamente il giubbotto.

Quindi mi fermai di scatto, appena poche decine di metri di sentiero dopo: davanti a me, la pace fatta carne dormiva sotto un maestoso, incantevole, giapponesissimo albero di sakura, con un gatto acciambellato sullo stomaco.

Mi guardai cautamente intorno, ma i pochi esseri umani che avevo visto frequentare il giardino fino a qualche metro prima parevano essere scomparsi. C’eravamo solo io e … lui. E il ciliegio e il gatto, ovviamente.

Il mio istinto di ragazza di città mi urlava di girare i tacchi e trovare al più presto compagnia, lasciando lo sconosciuto a se stesso, ma non lo ascoltai. Non lo avevo ascoltato quando avevo incontrato il vampiro, perché un innocente ragazzo biondo addormentato sotto ad un albero fiorito come in una favola avrebbe dovuto inquietarmi di più? E poi … c’era qualcosa, in quel ragazzo alto e snello dai muscoli sodi e l’aria rilassata che mi attirava a sé facendomi ignorare la domanda che finalmente aveva raggiunto la superficie della mia razionalità.

Mi avvicinai, perciò.

Ignorando la stranezza dell’erba verde che gli faceva da letto e il fatto che era ottobre, non aprile, e un ciliegio in fiore in quella stagione sapeva di cosa che solo nelle favole, shannaro! Quando, esattamente, aveva cominciato ad aumentare la temperatura? Da ché ero entrata nel giardino? Come era possibile avere un microclima così speciale in un’area così ristretta? Quanto era bizzarra la terra su cui stavo camminando, per sostenere una cosa così? Perché non mi ero accorta prima che tutti quei fiori non potevano …

Con cautela, ma mi avvicinai, fino a trovarmi ad un passo dalla sua figura distesa, e poi mi chinai ad osservarlo, lasciando le domande di meteorologia e geologia per quando avrei avuto la possibilità di rispondervi.

Pelle dall’abbronzatura delicata e naturale, capelli e peli delle braccia nude chiari, sopracciglia bionde leggermente inarcate come a sottolineare che il loro proprietario era solito ridere molto, viso un po’ rotondo che aveva perso la dolcezza infantile in favore di una fermezza più maschia, un naso non troppo sottile che si sposava bene con gli zigomi definiti e il mento dalla linea morbida, addominali piatti e ben formati sotto la maglietta arancione appena sollevata - probabilmente dai movimenti del gatto che ora mi fissava con sguardo penetrante dalla sua posizione privilegiata -, muscoli che indovinavo asciutti e scattanti.

Portava due collanine, una con una pietra azzurra molto semplice e un’altra, che scompariva sotto la maglietta girocollo dalle maniche corte, un paio di pantaloni sportivi scuri e delle scarpe da ginnastica dall’aria vissuta. Doveva essere una di quelle persone con una temperatura corporea sempre alta e che ti fanno venir voglia di farti abbracciare per costringerle a condividere quel calore, perché non pareva avere affatto freddo in quei vestiti un po’ troppo leggeri anche per l’aria non più così frizzante e non più così autunnale che pizzicava ancora me. Maledetto.

Mi sporsi un altro po’ quando colsi delle linee fare capolino tra il pelo della coda ora agitata del gatto e il cotone della maglietta che gli faceva da cuccia. Aveva un tatuaggio! E io avevo un debole per i bei ragazzi con dei bei tatuaggi, nonostante da secoli ormai ne frequentassi uno che ne era assolutamente privo.

Oh, non me lo sarei mai aspettata da un tizio con le sembianze del principe azzurro! Dovevo vederlo! Dovevo accertarmi che le linee pulite e nette che intravedevo, fossero davvero così belle come me le stavo immaginando!

Fu proprio appena prima che cedessi alla tentazione di scostare la belva che mi occhieggiava trucemente e alzargli la maglia per ammirargli i muscoli tatuati del ventre, che il gatto decise che la mia mano vicina al suo pelo non era una bella vista e soffiò. … Probabilmente affondò pure le unghie nello stomaco della sua cuccia, perché improvvisamente il biondo spalancò gli occhi più azzurri che avessi mai incrociato, spaventandomi a morte e causando la reazione istintiva che il mio bastardo paranoico aveva affinato nella mia natura già portata alla … beh, reazione.

Con un urlo e un pugno che raggiunse con precisione - di cui il mio maestro e pure il mio capo e amante sarebbero andati fieri - lo zigomo ben delineato dell’innocente colpevole, mi sollevai e allontanai di due passi, alzando la guardia pronta a colpire di nuovo.

- Ouch!

Riottenuto il raziocinio, abbassai le braccia e rilassai i pugni, facendo un passo in avanti verso il ragazzo ora raggomitolato su se stesso che si era portato una mano all’occhio colpito. – Ah! Oh … mi hai spaventato! – lo accusai.

Lui si tirò a sedere, strofinandosi con una mano la faccia composta in un broncio infantile, e tenendosi in equilibrio con l’altra puntata al terreno.

- Io?! – mi chiese con tono incredulo e indignato. Non potevo dargli torto, onestamente, ma non lo avrei comunque mai ammesso a voce alta.

- Sì, tu! Non è questo il modo di fare!

Ammiccò un paio di volte sugli occhi un po’ acquosi - il sinistro era solo un po’ rosso o era pure un po’ più chiuso del destro? -, poi approfondì il broncio e si lamentò.

– Neanche andarsene in giro a picchiare poveri innocenti addormentati è modo di fare, ‘ttebayo!

- Che sfacciato! Se tu non mi avessi spaventata, io non ti avrei colpito! È colpa tua!

Per qualche motivo, quel ragazzo che ora mi stava boccheggiando davanti come un pesce fuori dall’acqua, senza parole davanti alla mia stupida accusa, pareva riuscire a tirar fuori la parte più infantile della mia personalità. Dire che la cosa mi irritasse, era sottovalutare infinitamente quello che mi faceva.

Poi, improvvisamente, la sua espressione petulante e indignata si schiarì, e lui scoppiò a ridere, costringendomi mio malgrado a sorridere a mia volta. Aveva davvero una bella risata trascinante e ricca.

- Ok, ok … mia madre diceva sempre che l’ospite è sacro, soprattutto quello che tira pugni come professionista. Quindi immagino di dover cedere alle buone maniere e scusarmi. Mi dispiace di averti spaventata, ma non mi aspettavo compagnia. Di solito i visitatori si fermano al perimetro esterno.

Inarcai un sopracciglio, leggermente offesa dalla sua precisazione a “l’ospite è sacro” – È per caso una zona privata? Non mi pare di aver visto cartelli. – replicai polemica. Se voleva la guerra, ero prontissima a combattere, il che non era insolito ma era comunque strano. Generalmente avevo più controllo sul mio brutto carattere. O almeno lo avevo da ché ho compiuto i diciannove anni e ho spaccato il naso ad un pretendente troppo assillante. Poi ci ha pensato sempre IL bastardo a mitigare o a rallentare i miei scoppi d’ira. Avere un cubetto di ghiaccio secco al fianco fa questo effetto, sulla gente.

Gli occhi spalancati del poveretto davanti a me, mi dissero che pure lui si stava domandando cosa avesse fatto esattamente per tirarsi contro la mia ira. Poi il sorriso gli si riaprì negli occhi e sul viso, e lui scostò la mano sullo zigomo a massaggiarsi la nuca. – No, no. Non ci sono cartelli e l’area non è vietata al pubblico. – mi fissò con uno sguardo un po’ strano, quasi pensieroso, quindi continuò – Semplicemente nessuno si addentra fino a qui. Tu sei la prima.

Qualcosa, nella sua espressione intensamente amichevole, mi diede un leggero brivido che mi rizzò i peli sulla nuca, ma dimenticai quasi subito l’inquietudine, perché la sua espressione era così aperta e sincera che doveva essere stato un falso allarme, oppure un brivido di lusinga, dato che essere studiate così intensamente da un ragazzo affascinante è sempre piacevole.

- Sono sempre stata speciale. – mi vantai sfacciatamente con un sorriso giocoso sulle labbra.

Lui scoppiò a ridere alzandosi in piedi. – Indubbiamente! – replicò spazzolandosi i pantaloni con fare distratto. Quindi allungò una mano nella mia direzione. – Il mio nome è Naruto. Sono il custode di questo giardino.

Quando la strinsi, la sua presa mi avviluppò in un calore tale che pensai che mi sarei sciolta là, in una pozza, ai suoi piedi. - Sakura. Sono una cacciatrice di storie.

– Sakura-chan. – ripeté lentamente con tono morbido, facendo diventare il mio nome qualcosa di prezioso e speciale, quindi il sorriso si accentuò a tal punto che gli occhi gli si chiusero quasi completamente. Inclinò la testa di lato e … - Benvenuta a Konoha.

So di suonare pazza, nel dirlo, ma giurerei … mentre Naruto mi stava rivolgendo quel benvenuto che avevo sentito ormai decine di volte, da quando ero arrivata, giurerei di aver sentito il tintinnio di campanelli echeggiare in lontananza con suono solenne e antico. Come se questa volta, con quella semplice frase di rito, Naruto avesse dato inizio ad un qualche genere di incantesimo, e io ne fossi il fulcro.

Il mio “giardino delle storie sussurrate” stava iniziando a diventare una buona storia.

   
 
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