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Autore: emotjon    17/02/2015    13 recensioni
Lui, tuono e tempesta.
Lei, emozione e disincanto.
Insieme, un accordo di corde e suoni, pelle e sensi. un melodia che vibra sulle corde del cuore.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Zayn Malik
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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alla migliore amica migliore del mondo, che ha avuto l'idea.
a me stessa, per aver reso la sua idea reale.


 

1. Prologo.
 


L’archetto, stretto delicatamente nella mano destra, era quasi come fosse un prolungamento del suo braccio, incastrato alla perfezione tra le dita e che sembrava vivere di vita propria, mentre scorreva fluido sulle corde a comporre quei suoni che le sue orecchie sembravano esser nate per sentire. Avanti e indietro, mentre socchiudeva gli occhi con un mezzo sorriso per il perfetto suono ottenuto e le dita della mano sinistra premevano sulle varie corde per creare le diverse note, per addomesticare il suono, per dar vita a quella melodia straziante che riusciva a farlo sentire vivo più di qualsiasi altra cosa al mondo.
Un leggero rivolo di sudore gli scivolava placido dall’attaccatura dei capelli corvini lungo il collo, sulla pelle tesa dallo sforzo, lucida di sudore e brillante per via delle forti luci artificiali che illuminavano il teatro deserto nel quale si stava esibendo e nel quale si esibiva ogni giorno da solo.
Solo lui e il proprio violoncello.
Aveva i primi bottoni della camicia bianca lasciati sbottonati, con la stoffa madida di sudore che gli si appiccicava addosso e il petto che gli si sollevava ed abbassava ad ogni respiro, ad ogni movimento delle dita sulle corde, ad ogni passaggio dell’archetto, avanti e indietro come se ci stesse facendo l’amore, con quella sinfonia. Ogni respiro era una nota che prendeva vita, ogni nota era un battito del suo cuore che prendeva forma e ogni battito in sincrono con quella musica era un brivido che gli si formava addosso e gli scivolava lungo la schiena una vertebra di seguito all’altra come il sudore faceva sul suo petto.
Una nota più lunga delle altre. Le dita della mano sinistra a premere sulla corda. La mano che trema per rendere il suono dello strumento più intenso, carico, violento. Un sospiro libero dalle labbra schiuse, e l’ultimo movimento dell’archetto ormai coi crini completamente sfilacciati, prima che la sinfonia finisca, il respiro torni a mano a mano regolare, il cuore riprenda il proprio battito e i suoi occhi contornati da quelle folte ciglia scure sollevino le palpebre e rivedano la luce soffusa del teatro, le poltrone di velluto bordeaux tutte vuote e i calli sulle proprie dita ancora tese intorno a quello strumento del quale non riuscivano più a fare a meno.
L’ultima nota della sonata per violoncello che aveva appena finito di suonare era ancora nell’aria, riecheggiava da una parete all’altra del teatro, fermandosi nelle sue orecchie per un ultimo respiro, prima di morire e tornare ad essere silenzio. Quell’ultima nota gli accarezzò l’udito come il sospiro di un’amante, prima che staccasse l’archetto dalle corde per riporre sia esso che lo strumento nella sua custodia – era nera e lucida come il violoncello stesso, nera come lo era il suo sguardo in quel momento, svuotato di ogni emozione, come se finita la musica morisse un po’ anche lui con lei.
Srotolò le maniche della camicia riabbottonandone i polsini e coprendo di nuovo i tatuaggi di cui la sua pelle era quasi completamente satura. Nascose le catenine che portava addosso in qualsiasi momento sotto la camicia, abbottonandola quasi fino in cima e infilandone l’orlo nei jeans stretti tanto da far fatica a toglierli la sera, strappati sulle ginocchia anche se a un violoncellista non si addiceva per niente – almeno secondo i suoi genitori. Si passò una mano dietro la nuca, catturando tra le dita qualche ciocca sfuggita al codino con cui era solito legare i capelli decisamente troppo lunghi ma che non aveva intenzione di tagliare, prima di slegarli del tutto e provare a risistemarli ma senza troppo successo.
Gli sfuggì un sospiro, rinfilandosi la giacca e abbassandosi per richiudere la custodia del violoncello. Gli sembrava sempre di non passare mai abbastanza tempo con lo strumento tra le mani, come se – per quanto si sforzasse e suonasse praticamente in ogni momento libero – non fosse mai abbastanza e il movimento non gli sembrasse mai perfetto e le note non fluissero ancora come dovevano. Avesse potuto avrebbe passato ogni minuto del giorno a suonare, morendo con un archetto tra le dita e le ultime note di una suite di Bach nelle orecchie.
La perfezione gli sembrava irraggiungibile ogni volta, e continuava a spingere per arrivarci, ad allungare la mano fino a sfiorarla, ad accarezzare le corde fino a raggiungerla, anche se solo per un istante, per un momento effimero che finiva sempre troppo in fretta, lasciandolo di nuovo nell’imperfezione e nell’incertezza. La perfezione non aveva suono né volto… o, se l’aveva, lui non l’aveva ancora vista né sentita.
Un respiro profondo e il sorriso che sembrò tornargli un secondo dopo l’altro, mentre si metteva in spalla la custodia del violoncello e si passava una mano sulla fronte – sfiorando appena e per caso l’anellino che gli ornava il sopracciglio sinistro – per spazzare via il leggerissimo strato di sudore che la ricopriva dopo aver suonato così tanto e così bene da liberare il nervosismo che gli gravava addosso come nicotina superstite in una nuvola di fumo di sigaretta.
«Ciao, Zayn», lo salutò una ragazza con un insieme disordinato di spartiti sotto braccio, appena fuori dal teatro, senza quindi nemmeno dargli il tempo di prendere un respiro. Doveva averlo sentito suonare, come del resto doveva aver fatto il gruppetto di ragazze del primo anno appostate di fianco alla porta dalla quale il violoncellista stava uscendo. Come succedeva ogni volta, del resto. Ma lui si limitò a salutarle con uno sguardo ed un mezzo sorriso sghembo, come in fondo succedeva sempre.
«Ciao, ragazze».
E poté giurare di sentirle sospirare il sincrono, mentre si allontanava. Come poté giurare di aver udito il suono di decine di fogli che urtavano placidamente il pavimento, mentre voltandosi gli scappava un sorriso, lusingato forse di avere un tale seguito e di fare un tale effetto, perché oltre ad essere un violoncellista Zayn era un giovane uomo conscio del proprio effetto sulle donne.
Dall’altra parte del corridoio, una ragazza si limitò a sbuffare al sentire quel branco di galline sospirare. Per cosa, poi? Per uno strumentista. Un musicista che probabilmente era in grado di suonare solo note composte secoli prima da uomini che portavano una parrucca per coprire la calvizie, o che erano sordi e per comporre musica posavano l’orecchio a terra per sentirne le vibrazioni. Un musicista, presumibilmente in giacca e papillon, che non beveva, non fumava e ed era nato e cresciuto col proprio strumento accanto. Ci sarebbe anche morto con quello strumento, probabilmente.
No, quella ragazza non riusciva a capirle, mentre entrava nella sala di registrazione infilando il mozzicone di una matita tra i corti capelli ricci per tenerli fermi. Perché anche lei aveva parecchi fogli sotto braccio, ma non le sarebbero di certo scivolati di mano solo per un saluto borbottato tra i denti da un… musicista! Dio, non le pareva possibile una cosa simile. Doveva essere addirittura un classico, dal poco che aveva sentito passando per il corridoio – una suite di Bach suonata a meraviglia, ovviamente – ma lei proprio non riusciva a capire cosa ci trovassero quelle ragazzine in un tipo del genere, che lei non aveva mai visto.
Ovviamente, però, ne aveva sentito parlare.
D’altronde, chi non aveva sentito parlare di Zayn Malik, alla Royal Academy of Music?
Mise le cuffie sulla testa, facendo scappare una ciocca di capelli ricci dall’acconciatura improvvisata fermata poi dalla montatura degli occhiali perché non le ricadesse davanti agli occhi. Erano la sua barriera dal resto, quelle cuffie, le coprivano perfettamente le orecchie proiettandola nel proprio mondo. Non sentiva niente che non fossero le note della canzone, niente che non fosse la propria voce. Persino il respiro le arrivava lontano, come ovattato, non del tutto suo.
Il microfono, tenuto delicatamente con entrambe le mani smaltate di nero, era come fosse una parte di lei, un’appendice della quale non si sarebbe potuta separare nemmeno se avesse voluto. Lo teneva tra le dita, sentendo premere appena contro la pelle gli strass blu elettrico applicati su di esso, mentre tenendo le palpebre abbassate le labbra le si muovevano quasi senza che ci pensasse e il suono fluiva come acqua, limpido e cristallino. Su e giù, il piede batteva distrattamente contro il pavimento, mentre le sfuggiva un sorriso all’attacco del ritornello – che per una volta sembrava essere venuto proprio come aveva sempre voluto che venisse – e una si staccava dal microfono per disegnare un ghirigoro nell’aria, come stesse disegnando le parole che cantava o le note che prendevano forma.
Un velo di sudore freddo le imperlava la nuca ogni volta che prendeva quella nota – apparentemente altissima – facendole scendere un brivido lungo la schiena, fermo per un istante su ogni vertebra, prima che si perdesse nel vuoto, nella nota successiva, nella parola seguente, nell’aria pregna di musica che la circondava.
Solo lei e la propria voce.
Una ragazza pressoché invisibile, che non si sarebbe mai fatta notare da nessuno, se non quando le veniva messo un microfono tra le mani e tirava fuori parti di sé che non conosceva nessuno, non appieno, non abbastanza da poter dire di riuscire a leggerla come si fa coi libri e non abbastanza da conoscerla a memoria come un musicista avrebbe potuto dire di un assolo per violoncello di Čajkovskij.
I jeans scuri le fasciavano le gambe e la rendevano anche più piccola di quanto già non fosse. Li aveva tagliati col tagliaunghie su un ginocchio, nei momenti di noia o quando si ritrovava nella propria camera del dormitorio con gli spartiti sparsi ovunque e una matita messa dietro l’orecchio, a portata di mano se improvvisamente avesse dovuto scrivere qualche nota, qualche parola, qualche pensiero da rendere musica. E le scarpe da ginnastica che una volta erano bianche, in quel momento – mentre una di esse teneva il tempo contro il pavimento – tendevano ad una qualche sconosciuta tonalità di grigio polvere.
Aveva la cerniera della felpa grigia – parecchio più grande di lei ma che avrebbe continuato ad indossare fino alla fine dei suoi giorni, fosse stato per lei – tirata su fino in cima, col cappuccio adagiato sulle spalle e un riccio sfuggito alla presa della matita che le scendeva lungo il collo, fino a scontrarsi con le note d’inchiostro che le decoravano la pelle da dietro l’orecchio sinistro alla base della scapola destra. Visibili solo in parte, quelle note, ma parte di lei fino all’ultimo millimetro, fino al si bemolle che chiudeva la scia, il tatuaggio e ogni suo respiro.
E ogni respiro era libertà. Ogni respiro era una boccata di musica e aria fresca insieme. Ogni respiro era inspirato in preparazione alla nota che chiudeva il tutto, che la rendeva completamente libera e le faceva davvero dimenticare ogni preoccupazione, ogni respiro che non fosse il proprio e ogni nota che non facesse parte della sinfonia della propria vita. Ogni respiro portava inevitabilmente alla fine di una canzone e ogni canzone che finiva la faceva sempre morire un po’ dentro e ogni volta che moriva dentro l’unica cosa che riuscisse a riportarla a galla era sempre e solo altra musica, in un circolo vizioso che non avrebbe mai trovato la propria fine, perché lei avrebbe respirato musica fino all’ultimo sospiro emesso dalle proprie labbra in punto di morte.
C’era un vetro, a separarla dal suo mondo fatto di acuti e musica e parole che venivano dal cuore. Un vetro, oltre al microfono. Un vetro, dietro al quale stava uno dei ragazzi dell’ultimo anno che la aiutava con l’incisione del suo primo album. Un vetro che lei non guardava mai, un po’ per non farsi mettere in soggezione dagli occhi che si sarebbe trovata addosso, un po’ perché era abituata a cantare al buio, con gli occhi chiusi e il cuore che comandava ogni parola che le usciva dalle labbra.
Un vetro, dietro al quale un violoncellista dai capelli neri legati in un codino sfatto, la osservava senza sapere che dire, mentre il ragazzo che incideva lo guardava con la coda dell’occhio senza trattenere un ghigno. Lei faceva quell’effetto, a chi non l’aveva mai sentita. Lei bloccava il respiro di chiunque non l’avesse mai ascoltata. Lei faceva fermare il cuore solo cantando. E lui non sapeva davvero come poter reagire, davanti a tanta… perfezione.
Forse l’aveva appena trovata, la perfezione che tanto aveva cercato.
Aveva il suono della sua voce, una nuvola di capelli ricci fermati da una matita, un paio di occhiali da vista dalla spessa montatura nera e un cerchietto argentato al labbro inferiore. Aveva una felpa grigia, dei jeans strappati e delle scarpe da buttare. Aveva un paio di magiche labbra rosa che si muovevano davanti a lui rendendolo vittima di un incantesimo dal quale non voleva svegliarsi.
Ed era quasi la fine della canzone, quando il ragazzo si passò una mano dietro la nuca distogliendo finalmente lo sguardo ma senza riuscire a smettere di sentir risuonare quella voce nelle orecchie. «Come si chiama?», riuscì a chiedere, con la gola secca, mentre il ragazzo lo guardava inarcando un sopracciglio e trattenendo una risata.
«Esme».
Una nota più lunga delle altre, lo costrinse a tornare a guardarla per qualche altro secondo, mentre immaginava di accompagnarla col violoncello, di suonarci insieme, di sentire quella voce ancora, ancora e ancora, fino a non poterne più. La sua voce cristallina gli fece venire i brividi lungo la schiena, mentre chiudeva gli occhi anche lui per goderne al meglio, per sentirla meglio, per farsi inondare da quella nota presa alla perfezione e senza che dovesse minimamente sforzarsi.
La guardò ancora, aveva le dita della mano sinistra strette più forte sul microfono. La mano libera ferma a mezz’aria come per sentire meglio il suono della propria voce e concentrarsi meglio sulla quella chiusura così intensa, carica, violenta. Un sospiro libero dalle labbra ancora impegnate con l’ultima nota, e l’ultima vocale fuori da lei, col battito del cuore ormai del tutto destabilizzato, prima che la canzone finisca, il respiro torni a mano a mano regolare, il cuore riprenda il proprio battito e i suoi occhi grandi contornati da quelle folte ciglia scure cariche di mascara sollevino le palpebre e rivedano la luce intensa della sala di registrazione, il profilo dell’asta del microfono davanti a sé e le proprie dita con lo smalto mangiucchiato ancora tese intorno a quello strumento del quale non avrebbero mai più potuto fare a meno.
Ma quando Esme riaprì gli occhi e smise di cantare, prendendo poi un respiro profondo, oltre il vetro vide solo il solito ragazzo biondo che aveva la pazienza di aiutarla con disco, col pollice alzato e un sorriso che di rimando la fece scoppiare a ridere di felicità. Non vide ragazzi dai capelli scuri e dallo sguardo incantato; non vide una camicia bianca abbottonata alla meno peggio, né vide il leggero brillio di un piercing al sopracciglio sinistro.
Guardando meglio, però, vide la porta chiudersi.
E la sagoma della custodia di un violoncello che spariva dalla propria vista.




 
   
 
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