Fanfic su artisti musicali > The GazettE
Ricorda la storia  |       
Autore: Har Le Queen    19/02/2015    7 recensioni
E se Ruki fosse la Superstar più acclamata del momento? E se la sua voce fosse come un faro nel buio, accogliente come un ritorno a casa dopo un viaggio durato secoli? E se Akira fosse l'unico a non poterla sentire?
[Reituki/Aoiha]
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Un po' tutti
Note: Lemon, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Ben ritrovate n_n sono tornata con una reituki/aoiha ♥ la reituki sarà il pairing principale, mentre la aoiha sarà trattata in modo più marginale, non è che possono sempre rubare tutto lo spazio >_> doveva essere solo una reituki questa! Comunque, questa ff tratterà di un argomento un po’ particolare, potrà anche non essere di vostro gradimento e lo accetto, ma come dico sempre: le mie storie sono già scritte lì da qualche parte nell’etere, io devo solo leggerle e trascriverle. Dovevo scrivere questa storia, è rimasta ferma per un anno intero e finalmente ha visto una degna fine. Il romanticismo mi è, pian piano, scappato di mano e tutto si è trasformato in una enorme fluff .w. buon per noi, ogni tanto piogge di cuori e arcobaleni non fanno male. Chi ha letto In Blossom forse non mi riconoscerà neanche nello stile, Sing for me vuole essere una ff semplice, delicata, introspettiva e quotidiana.

Mi scuso con tutti coloro che potrebbero sentirsi ‘offesi’ o ‘urtati’ da questo argomento.

I capitoli sono tutti, ovviamente, già scritti

Le parti in grassetto sono in JSL (Japanese Sign Language), cioè il Linguaggio dei Segni Giapponese…avete già capito, vero? In realtà la situazione del personaggio in questione (non voglio svelare nulla) è molto più complicata di come l’ho descritta io in questa ff, me ne rendo conto, leggere così facilmente il labiale non è affatto un dato ‘realistico’…ma il bello delle ff è anche sognare e realizzare l’impossibile ♥

Non mi resta che augurarvi buona lettura e sperare di farvi sognare o, almeno, farvi passare qualche minuto di relax libero dall’ansia e dallo stress *^*

Spero di sentirvi presto, ciao ciao ♥

Link FB: https://www.facebook.com/pages/HarLeQueen/540388639424945?hc_location=timeline

 

Sing for me

 

Mi sono sempre chiesto che suono faccia il vento quando agita le foglie degli alberi. Se quello di un cane che abbaia rincorrendo un gatto sia tanto fastidioso quanto dicono, o che suono abbia la mia voce. Mio fratello dice sempre che è un suono caldo come i raggi del sole e che se potessi mangiarlo sarebbe come il gelato al cioccolato: un gusto fresco, ma deciso e intenso. Io non ci credo, ho paura che nonostante tutti i miei sforzi per nasconderlo sarà sempre dolorosamente ovvio che c’è qualcosa di strano.

È successo quando avevo sei anni, come tutti i bambini sono stato a letto con una di quelle malattie che servono solo a riempirti la faccia di bollicine, solo che è peggiorata così tanto da far sprofondare il mio mondo nel silenzio; da allora non ho più sentito niente, potrei piazzarmi ad un millimetro dalla fonte di rumore più forte del mondo e non sentire neanche un ronzio. Così ho imparato a riempire il vuoto che mi circondava, ad osservare attentamente le espressioni delle persone per capire se sono arrabbiate, tristi o felici, a seguire ciò che dicono le labbra con la massima attenzione e ho imparato a comunicare con le mie mani; non lo faccio sempre, solo a mio fratello e alle persone a me più care permetto di vivere la mia diversità, per il resto del mondo io sono solo un normalissimo ragazzo di vent’anni che non vede l’ora di spaccare il mondo e fare un bel botto. 

Devo davvero tanto a mio fratello, senza di lui non sarei cresciuto così pieno di vita e spensierato; lui ha sempre cercato di riempire il vuoto lasciato dai suoni che non sento perché anch’io so che il mondo ne è pieno, mi ha detto che alcuni sono bellissimi come lo scrosciare dell’acqua nei giorni di pioggia e altri meno come le urla dei vicini quando litigano per ore. Così il borbottio della caffettiera è diventato il solletico sulla pancia, quello del vento le sue carezze leggere sulla pelle, quello degli uccellini che rompono alle sei di mattina i suoi pizzicotti. 

Ma c’è una cosa che non riuscirà mai a spiegarmi, non importa quanto ci provi, so che non riuscirò mai a provare le sensazioni che regala la musica. 

 

 

Akira era ancora avvolto tra le lenzuola quando sentì un fastidio insistente sul braccio che sembrava non volersi arrendere tanto presto. «Mhm...» di solito, però, quando mugugnava in quel modo il mondo ritornava alla sua solita pace; quella volta, invece, diventò più assillante e così fu costretto ad aprire un occhio per scorgere la figura offuscata di Yuu, stava gesticolando cercando di dirgli qualcosa, ma non era ancora abbastanza lucido da capirlo. Si stropicciò gli occhi mettendo a fuoco ciò che vedeva. 

Muoviti o farai tardi, sto facendo il caffè.

Che ore sono?

Le sette.

Tentò di rispondergli ma lasciò cadere il braccio sul letto con l’intenzione di ritornare a dormire, ma il cuscino che gli precipitò in faccia lo fece svegliare del tutto; Yuu era sempre il solito e non mancava mai di prenderlo in giro, o stuzzicarlo quel tanto che bastava per risvegliare il suo carattere gioviale, e di solito era un vulcano in eruzione, solo che alle sette di mattina non ci si poteva certo aspettare un miracolo. Con uno slancio si buttò giù dal letto in tempo per vedere la figura di suo fratello allontanarsi, dopo la solita tappa in bagno lo raggiunse in cucina richiamato dal profumo del caffè. Ogni volta che sentiva quel profumo gli veniva in mente il solletico che Yuu gli faceva sulla pancia, per farlo svegliare diceva lui, ma non gli aveva mai creduto; provava solo un gusto sadico nel torturarlo, ne era convinto.

Finalmente!
Sei tu che vai di fretta.

Ah, non tu che sei lento?

No e muoviti a darmi quel caffè! Una tazza fumante gli si posò davanti non appena si accomodò al piccolo tavolo addossato alla parete, vivevano in quella casa da tre anni ormai, esattamente da quando i loro genitori erano partiti per un viaggio da cui non avrebbero più fatto ritorno.

Oggi fino a che ora lavori? Yuu glielo chiese dopo aver richiamato la sua attenzione sventolandogli una mano davanti al viso. 

Le sei.

Io oggi non lavoro alla faccia tua, quindi me ne starò tutto il giorno a far niente. L’affermazione fu accompagnata da un’espressione di beatitudine celestiale, pur di tirare avanti aveva dovuto accontentarsi di un anonimo posto da impiegato che lo costringeva in un grigio completo con giacca e cravatta, così quando aveva un giorno libero era praticamente capodanno.

Grazie tante eh! E un vaffanculo non glielo tolse nessuno.

Yuu sorrise alzandosi per lasciare la sua tazza vuota nel lavandino, cercando di sistemare i suoi ribelli capelli neri, erano cresciuti in fretta e gli arrivavano già alle spalle. Cosa vuoi per cena? con Akira era sempre così, prima lo provocava fingendo di prenderlo in giro e poi faceva qualcosa per dimostrargli quanto in realtà gli volesse bene. Yuu amava profondamente suo fratello, sin dal primo momento che aveva visto quel minuscolo fagotto azzurro aveva avvertito un senso di protezione; a separarli c’erano soltanto due anni, perciò era come se fossero cresciuti tenendosi per mano. Poi era successo. Loro ci scherzavano su dicendo che si erano rotte le casse come in uno stereo difettoso, solo che per quel bambino di sei anni erano i suoni del mondo intero ad essere andati in pezzi. All’inizio Akira aveva paura di tutto quel silenzio, si chiedeva perché fosse diventato così diverso da tutti gli altri bambini e perché quando parlava con le sue mani quelli ridevano; aveva passato mesi a convincerlo che non era lui ad essere sbagliato, ma gli altri che non vedevano quanto fosse bello quando gli raccontava cosa aveva fatto a scuola senza dire una parola. Così di giorno Yuu lo difendeva dai compagni di scuola, assecondava ogni suo desiderio, lo convinceva ad esercitarsi con il suo linguaggio dei segni e di sera gli raccontava una storia usando solo le sue mani e una lampada per proiettarne le ombre sul muro. La sua ombra preferita era la mamma elefante perché era così semplice che riusciva a farla anche lui ma, con le sue piccole manine, riusciva solo a fare il cucciolo.

A volte Yuu si chiedeva se ci sarebbe mai stato qualcuno in grado di amarlo quanto lo amava lui, qualcuno a cui il suo fratellino avrebbe aperto il cuore senza esitazioni ed era un cuore pieno di cose magnifiche; di sicuro sapeva che fino a quel giorno avrebbe vegliato su di lui combattendo con le unghie e con i denti. 

Visto che hai tutto il tempo che vuoi, perché non mi prepari il sushi?

Ah, ti sei dato allo sfruttamento! Va bene avere tempo libero, ma non aveva messo in conto di passarlo tutto in cucina. 

Sei tu che ti sei proposto! Akira cercò di sfoderare il suo sguardo più dolce per convincerlo a preparare il suo piatto preferito.

Quella faccia non ti è mai venuta bene con me.

Oh dai!

Va bene ok, sushi! Non gli ci voleva poi molto ad arrendersi quando si trattava di lui.

Mi vado a vestire. Akira si alzò pimpante, sottolineando la sua vittoria con un sorriso, gli si avvicinò per ringraziarlo ma stavolta però non fu per il solito bacio sulla guancia: prese tra le dita il bordo della maglietta leggera che indossava suo fratello e la tirò su con forza fino a coprirgli la testa. Scoppiò a ridere sonoramente nello stesso istante in cui lasciò la presa.

Yuu si liberò subito dalla trappola inaspettata. Il sushi te lo scordi stronzo! Inizia a correre o sei morto!

Akira scappò in bagno più veloce che poté lasciando Yuu in cucina a brandire il piatto che minacciava di lanciargli, adorava giocare con lui in questo modo, con lui era così facile dimenticare che gli mancasse qualcosa e che fosse così diverso da tutti gli altri; con lui poteva essere se stesso e non preoccuparsi degli sguardi curiosi della gente che fissava le sue mani mentre si muovevano per  comporre i suoi pensieri. Perché lui non poteva esprimerli liberamente come facevano loro? Loro usavano la voce perché potevano sentirla e non rischiare di urlare troppo, mentre lui usava le sue mani, cosa c’era di tanto sbagliato? Mettendo da parte questi pensieri si infilò sotto la doccia godendo di quei pochi minuti di pace prima che il suo inferno personale avesse inizio. Suo fratello diceva che il rumore della doccia assomigliava a quello della pioggia, quindi era come le sue dita che sembravano suonare il pianoforte sulla sua schiena. S’insaponò velocemente non accorgendosi prima che, nel frattempo, Yuu era entrato in bagno e si era accomodato proprio accanto alla doccia. «Aiuto! Non voglio morire così giovane!» non credeva di urlato troppo, non gli piaceva parlare e farlo era sempre una sofferenza, ma vi fu costretto perché l’altro non avrebbe potuto vedere ciò che aveva da dirgli. Il dito medio di Yuu non tardò ad incollarsi al vetro scatenando le loro risate. «Mi passi lo shampoo? L’ho dimenticato.» anche quello arrivò immediatamente e Yuu ritornò al suo posto, rimase fermo per un po’ finché non posò il suo palmo contro il vetro opaco; la mano di Akira andò a posarsi in corrispondenza di quella in attesa rimanendo così per secondi che parvero anni. Yuu lo faceva sempre ed era il suo modo di dirgli che per lui ci sarebbe sempre stato, che anche attraverso un vetro appannato poteva infondergli la sua forza per affrontare il mondo. Come siamo sentimentali stamattina. Akira non si era lasciato scappare l’occasione di prenderlo in giro non appena aveva aperto il box doccia e lo aveva visto poggiato contro il lavandino.

Di tutta risposta il moro gli lanciò addosso l’accappatoio. Copriti. Sei scandaloso.

Sei solo geloso!

Senza troppa attenzione Akira compì le azioni che lo avrebbero portato fuori dalla porta di casa vestito di tutto punto, dopo anni riusciva immediatamente a distinguere una pessima giornata e, quando cominciava a ricercare con troppa attenzione i suoni che lo circondavano, voleva dire che il punto di rottura era vicino; avrebbe avuto una delle sue solite crisi di rifiuto nonostante fossero passati quattordici anni. Non importava quello che tutti continuavano a dirgli, non era facile accettare di dover passare tutta una vita nel più completo silenzio. E ogni anno diventava sempre più difficile perché c’erano sempre più cose che avrebbe voluto ascoltare: una canzone su uno di quei canali di musica che Yuu guardava mentre cucinava, la suoneria di un cellulare, i dialoghi dei film che era costretto a guardare con i sottotitoli. Il mondo andava avanti e cresceva con i suoi suoni, mentre lui restava indietro senza conoscere neanche la sua stessa voce.

Yuu lo salutò con le solite raccomandazioni strappandolo dai suoi pensieri ed Akira percorse la solita strada per arrivare a lavoro, allo studio aveva sempre preferito lavorare e si era accontentato di qualsiasi mansione quando, nei mesi estivi, lavorava per racimolare qualche soldo e comprare ciò che desiderava e che i suoi non potevano permettersi; era stato allora che aveva conosciuto Komui lavorando nel suo negozio di animali, aveva dichiarato il fallimento dopo due anni di attività e, visto che suo fratello lavorava per una famosa casa discografica, ora si ritrovava a portare il caffè a gente famosa che per lui valeva meno di niente. Era una bella legge del paradosso per un sordo lavorare in un luogo in cui non si faceva altro che musica, se Komui fosse stato a conoscenza del suo piccolo segreto non lo avrebbe mai mandato lì, ma la paga era buona e con i mesi si era conquistato la fama dello stronzo di turno troppo preso da se stesso per rispondere a chi osava chiamarlo per i corridoi come un cane da riporto. Meglio fargli credere questa stronzata che ammettere la verità, lo avrebbero trattato tutti diversamente, compatendolo come se fosse stata colpa loro. Se combinava qualche guaio in preda alla fretta di preparare un caffè dopo l’altro, voleva essere sgridato come chiunque altro. 

Fu in divisa con dieci minuti di ritardo, ma il capo non disse nulla limitandosi a lanciargli un’occhiata bonaria, era stato giovane anche lui e riconosceva il volto di chi aveva passato la notte a giocare alla play station cercando di battere un fratello troppo saccente. Ci aveva guadagnato una settimana di schiavitù, anche se ora che ci pensava non ne aveva approfittato quanto avrebbe potuto. «Akira, pronto?» la giornata aveva inizio, era il momento di lasciare i pensieri in un angolo e concentrarsi su ciò che gli dicevano.

«Prontissimo!»
«Allora comincia con le consegne.»

Il ragazzo si avvicinò al piccolo carrello pieno di bicchieri da consegnare, due volte a settimana se ne occupava lui e, puntualmente, rientrava a casa con un mal di testa di quelli così forti per cui l’unica soluzione era immergersi nel buio più assoluto e lui odiava il buio perché i suoi occhi erano le sue orecchie ed era già abbastanza avere un solo senso fuori uso. Diventava davvero difficile riuscire a leggere le labbra quando era circondato da una miriade di persone che parlavano contemporaneamente, sembrava di seguire una partita di tennis con migliaia di giocatori. Forse avrebbe dovuto arrendersi e rivelare il suo segreto, a volte era così frustrante, ma poi gli tornavano in mente quegli inutili sguardi impietositi e si convinceva di dover continuare a tenere duro.

Cominciò dal primo piano dove i dirigenti si riunivano per prendere le loro importanti decisioni, poi fu la volta dei gruppi del secondo e terzo piano e, dopo più di un’ora, arrivò il momento di raggiungere i piani alti e consegnare l’ultimo caffè ad un certo Ruki. Hoshi, il suo capo, si era raccomandato tanto che fosse ben caldo, leggermente zuccherato e macchiato al punto giusto, diceva che questo Ruki era un cantante bravissimo di come ce n’erano pochi in Giappone, ma era esigente e perfezionista. Che tradotto voleva dire solo che era un grandissimo stronzo. 

Quando fu davanti alla porta si decise a bussare, era inutile per lui attendere una risposta perciò abbassò la maniglia ed entrò, le opzioni davanti a lui erano due: che qualcuno gli avesse effettivamente detto di entrare, o sorbirsi l’ennesima ramanzina sulla privacy e l’educazione. Neanche stesse portando un caffè al presidente degli Stati Uniti. Per sua grande fortuna la stanza si rivelò essere vuota, così avanzò fino alla scrivania dove avrebbe preparato ciò che doveva, gli avrebbe lasciato tutto lì e tanti cari saluti alla superstar isterica; si mise subito d’impegno per seguire alla lettera le istruzioni che gli erano state date, ma la sua schiena era rivolta alla porta e non si accorse quando questa si chiuse con un tonfo. 

«Chi ti ha detto di entrare!?» ma, ovviamente, Akira continuò ad occuparsi della sua mansione come se nulla fosse. «Hei, tu!» non ci fu alcuna risposta. «Cos’è?Sei sordo per caso?!»

Akira si sentì strattonare all’improvviso e con una tale forza da non riuscire a salvare il caffè che gli si versò addosso e andò a sporcare il pavimento, i suoi occhi si posarono sulla figura di un ragazzo magrissimo e non troppo alto, dai capelli biondi nascosti da un orribile cappello, il viso quasi oscurato completamente da un paio di giganteschi occhiali da sole. Se quello scriciolo era il Ruki che tutti tanto adulavano, dovevano proprio essere messi male. «Le ho portato il caffè.» professionalità prima di tutto, ci teneva al suo posto di lavoro.

«Lo vedo. Chi ti ha detto di entrare?»

«La porta era aperta e non c’era nessun cartello fuori che dicesse il contrario.»

«Beh allora muoviti e fallo doppio! Mettici la panna e-» ed ovviamente si era voltato. 

Se c’era una cosa che Akira odiava era proprio quando la gente si voltava impedendogli di leggere le loro parole, questo lo costringeva a chiedere di ripetere e non sempre gli andava bene. «Come ha detto, scusi? Panna e?»

«E cacao. Niente zucchero.» per fortuna la star si era voltata per mostrargli tutto il suo inutile disappunto e questo gli aveva dato l’opportunità di leggere le sue labbra. Che faccia di cazzo. Sembrava una forchetta che stride sul piatto, non che l’avesse mai sentita, ma suo fratello odiava quel suono e ogni volta metteva su una faccia che era tutto un programma.

In silenzio si dedicò al suo lavoro. Doppio, senza zucchero, con panna e cacao, che caffè di merda. Quando fu pronto glielo mise davanti poggiandolo sulla scrivania ingombra di fogli, ma Ruki non lo ringraziò neanche e nascose il suo naso nel bicchiere in polistirolo, erano solo pochi minuti che Akira si trovava in quella stanza e già non vedeva l’ora di mandare a fanculo quel ragazzino troppo viziato e versargli addosso il tè rimasto nel thermos. «Desidera altro?»

«Si, una ciambella al cioccolato.»

«Non ne ho qui con me, ma posso portargliela.»

«D’accordo, vai e non metterci troppo.»

Akira si allontanò chiudendosi la porta alle spalle, magari poteva sputarci sulla ciambella. O magari non ne valeva la pena e non si sarebbe abbassato a tanto. Prima che raggiungesse il piano terra sentì il telefono vibrare due volte per avvisarlo dell’arrivo di un sms, lo recuperò immediatamente incuriosito da chi potesse essere a quell’ora. Yuu.

“Come va la giornata?”

Si affrettò a rispondere prestando attenzione a dove metteva i piedi e, ogni tanto, al display. Beato lui che era a casa a godersi il riposo. “Una merda.”

Cosa è successo?”

“Uno stronzo.” Digitò la sua risposta con una velocità esperta.

Il telefono vibrò di nuovo. “Sarai simpatico tu! Comunque ho una buona notizia: è tornato Yutaka e stasera cena con noi”. Un sorriso illuminò il suo volto non appena lesse quel nome: Yutaka era il suo migliore amico, lo aveva conosciuto ai tempi delle superiori quando era stato costretto a frequentare una scuola per quelli come lui e non si era mai sentito tanto solo seppur circondato da gente che avrebbe dovuto capirlo; un giorno, alla fermata dell’autobus, era stato salvato dalle grinfie di un gruppo di teppistelli, ad aiutarlo era stato un ragazzo dai capelli neri ed un sorriso tanto dolce da scaldare il cuore. Da allora erano diventati inseparabili ed ancora oggi si amavano come fossero fratelli, ma erano anche qualcosa di diverso e il mondo non aveva ancora inventato una parola per descrivere la loro relazione, di certo non gli aveva mai fatto pesare la sua sordità. Akira non fece in tempo a rispondere al messaggio di Yuu che subito ne arrivò un altro. “E levati quel sorriso dalla faccia, sembri un macaco!”

“E tu levati quel grembiulino rosa, sembri un trans!” Non si lasciò scappare l’occasione per controbattere.

Un’altra vibrazione, ma stavolta si trattava di foto di Yuu con addosso un imbarazzante grembiulino rosa con tanto di merletti. “Perché? Non mi sta da Dio?”

Akira non riuscì a trattenersi e non se ne importò di richiamare l’attenzione degli altri quando rise di cuore. Yuu era davvero impossibile quando ci si metteva e riusciva sempre a trovare un modo per rendergli migliore una giornata potenzialmente di merda, ma il sorriso si spense quando posò gli occhi sul carrello delle vivande che spingeva con l’entusiasmo che ci avrebbe messo un bambino che andava dal dentista: la ciambella. Forse avrebbe potuto convincere Yuko a portargliela, doveva convincerla o avrebbe dovuto rivedere quello stronzo e temeva che avrebbe finito col mettergli le mani addosso.

 

   
 
Leggi le 7 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > The GazettE / Vai alla pagina dell'autore: Har Le Queen