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Autore: controcorrente    19/02/2015    2 recensioni
Vecchissima oneshot scritta per un concorso sul forum di EFP. Non corretta e mantenuta nello stile originale. Dutante il mese di carnevale, a Venezia accadono cose abbastanza bizzarre...persino gli incontri impossibili.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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INCONTRO IMPOSSIBILE NEL MESE DELLE MASCHERE

 
 
I canali della città costruita sull’acqua erano, come sempre, attraversati da imbarcazioni.
La gente passeggiava qua e là, ciascuna diretta verso la propria destinazione. Spesso alla fine del muro facevano capolino venditori ambulanti che offrivano alle comitive di turisti souvenir made in China spacciati per veneziani.
Come accadeva ogni anno, nel periodo che passava da Gennaio a Febbraio, Venezia era la città del carnevale e tutti, dall’abitante al pendolare al turista occupavano i campi e i rii di quella che un tempo era una delle più ricche Repubbliche marinare. Il traghetto proveniente dalla terraferma giunse infine nel punto di scalo, fermandosi con un movimento secco nel punto di attracco.
L’altoparlante comunicò con voce annoiata l’arrivo alla destinazione.
I passeggeri uscirono dall’imbarcazione come un fiume in piena, spintonandosi e discutendo delle cose più varie. L’ultimo a scendere fu un uomo alto e quasi allampanato che indossava un costume settecentesco. Nulla di strano per il periodo, se non fosse che quell’individuo sembrava nato per quel tipo di abbigliamento.Aveva tratti decisi e virili. Il naso leggermente aquilino faceva bella mostra di sé su quel volto mentre due occhi cerulei come un mare in tempesta lanciavano sguardi  distratti e allo stesso tempo attenti in ogni direzione. I capelli castani e leggermente mossi erano raccolti ordinatamente in un comodissimo codino.
Con calma calcolata, osservò divertito il paesaggio intorno a sé. Venezia non era cambiata affatto ed era sempre incantevole nel mese delle maschere. Molte persone spendevano cifre esorbitanti per indossare, solo per quei due mesi dell’anno, abiti eccentrici e decorati con particolari spesso eccessivi, che sembravano quasi far esplodere il vestito.
Camminò tranquillo per quei vicoli stretti che si piegavano improvvisamente attorno agli edifici in tinte tenui, terminando con un canale d’acqua. Vedeva vari negozi far capolino ai piani inferiori delle case e vendere prodotti locali veri e presunti. Tutti erano presi d’assalto dai turisti.
“Oh, how beautiful is this glass! Do you think it’s a great idea, if we buy one of this?”diceva un’americana, vestita in modo succinto. Lo straniero inarcò un sopracciglio, fissando con attenzione tutta quella carne in mostra. La scollatura dell’abito era molto pronunciata e mostrava quasi interamente il seno, mentre i fianchi erano foderati da un paio di short in jeans molto aderenti.
L’indignazione dell’uomo aumentò nuovamente: era assurdo vestirsi in quel modo. Neppure le cortigiane portavano simili straccetti, pur dovendo allettare i clienti con il proprio corpo. Era davvero strano pensare come fosse cambiata nel tempo l’idea di mettere in mostra la bellezza del fisico. Prima nessuna donna, nemmeno quella di dubbia moralità, si sarebbe scoperta in tale modo. Era un superamento della decenza ai suoi occhi eccessivo.
Improvvisamente sentì uno scalpiccio sulla pietra dei vicoli. D’istinto si portò sulle piccole scale di una delle case. Un attimo dopo, fece largo una comitiva di giapponesi, chiassosi, tutti uguali tra loro, tutti armati di quelle diavolerie tecnologiche, che non facevano che sfornare in ogni momento. I loro flash facevano qua e là capolino, come un branco di lucciole artificiali.
Per i canali invece scivolavano, placide e sinuose le nere gondole, il simbolo di Venezia, accanto alle quali irrompevano con fare improvviso e irritante piccoli motoscafi, il cui accesso era stato autorizzato dall’autorità cittadina. Il viaggiatore digrignò i denti, cercando di trattenere le imprecazioni che salivano rapide e furiose su per la gola all’indirizzo del sindaco che aveva consentito quello che ai suoi occhi era un’assurdità. Non poteva sopportare tutto quel caos, sebbene fosse consapevole che non poteva essere annullato: Venezia era una città, meta di mercanti in passato, nel presente di turisti e commercianti. Quella calca appariva ai suoi occhi come uno spettacolo tutto sommato fastidioso, ma non poteva evitarla: il turismo era una delle tante anime del commercio, in fondo.
Passeggiò per un po’attraverso le vie secondarie.
Là infatti i turisti iniziavano a diradarsi, poiché non erano aree battute di solito dal turismo di massa. Vagò per quel quartiere senza preoccuparsi troppo della direzione che stava prendendo. Tutto aveva un aspetto diverso, eppure simile nei suoi tratti tipici come il campo, la chiesa ed il canale. Aveva spesso la sensazione di perdersi per quei vicoli d’acqua ma conosceva troppo bene la città per pensare di smarrire davvero la bussola.
Giunse infine di fronte ad un piccolo negozio che recava l’insegna di una falce di luna inserita in un cartello blu notte. Il nome “L’esploratore” faceva bella mostra di sé lungo la vetrina della bottega.
L’aspetto ritirato e particolare del posto convinse il visitatore ad entrare.
Dentro c’erano oggetti di ogni tipo: manichini che portavano abiti d’epoca, maschere decorate con varie tonalità di colore, chincaglierie di vetro e piccoli lavori di uncinetto di Burano. Su uno dei tavoli finemente intarsiati se ne stava un gatto rossiccio che sonnecchiava pigramente. La coda oscillava svogliata a destra e sinistra, secondo un ritmo tutto suo, come un pendolo difettoso. Improvvisamente l’animale aprì un occhio. Le sue iridi di giada vagarono nel piccolo ambiente, poi il felino spalancò la bocca in un lungo e sgraziato sbadiglio che mostrò per un breve istante le candide zanne, concludendo poi in un ritorno al sonnellino giornaliero. Non si curò del suo visitatore e non sembrava preoccuparsene, fiero della propria fiacca routine.
Il visitatore si guardò attorno, senza dare troppa importanza agli oggetti esposti, messi in modo caotico qua e là, poi la sua attenzione fu catturata da un ciondolo che si trovava in bella vista su una vetrina collocata alla parete. Aveva la forma circolare ed era di medie dimensioni. Al centro di questo, stava una perla bianca inserita all’interno di uno sfondo blu lapislazzuli. L’uomo si avvicinò esitante a quell’oggetto così semplice e dall’aria antica. Non riusciva a credere che potesse esistere ancora un oggetto simile.
Solo la teca lo separava da esso.
“Buongiorno!” disse una voce nasale, distogliendolo dai suoi pensieri “posso fare qualcosa per voi?”
Lo sconosciuto si voltò, incontrando un uomo dal fisico asciutto e smilzo. Doveva avere almeno una sessantina d’anni ed era perfettamente calvo.
“Sono Annibale, il proprietario di questo negozio e sono a vostra disposizione”fece con fare cordiale.
“Mi chiamo Onorio Almari e sono qui perché cerco un regalo”fece elegantemente l’uomo in maschera.
Annibale fissò sornione il suo cliente, poi spostò la sua attenzione sull’oggetto dei suoi occhi.
“Vedo che avete visto qualcosa.” Fece estraendo dalla teca il ciondolo legato alla catenella. La perla incastonata, sotto i colpi dei raggi, mandava riflessi iridescenti nell’aria, creando una vera e propria pioggia di luce.
“E’molto bello, devo complimentarmi con lei. E’, a mio parere, uno dei pezzi migliori del negozio, ma chissà per quale motivo, nessuno ha intenzione di comprarlo!”fece, avvicinandolo ad Onorio che non perdeva di vista quel gioiello.
Il negoziante osservò con fare quasi affettuoso l’oggetto che teneva tra le mani. Aveva la stessa espressione di un padre che accompagna all’altare la propria figlia. Il cliente però lo distolse dai suoi pensieri.
“Perché nessuno sembra intenzionato a comprarlo? Costa forse troppo?”domandò perplesso l’uomo in maschera, ma l’altro non fece una piega.
“Affatto. Eppure nessuno, venendo al mio negozio, è attratto dalla sua bellezza che, a mio parere, non è inferiore a nessuno dei migliori pezzi che vendo. Sembra quasi che il ciondolo stesso si neghi ai suoi possibili compratori.”fece, conficcando gli occhi ossidiana nei suoi.
Onorio rise divertito. Quell’uomo doveva essere pazzo e i folli, si sa, sono spesso più arguti di quelli che ritengono di essere sani di mente. Si domandò quanta verità potesse vedere quel matto e, per il suo futile diletto, perseverò nella sua curiosità. Il negoziante notò il piglio ironico del suo cliente ma non si offese, cosa che stupì non poco quest’ultimo.
“Vi burlate di me, eh” fece tranquillo l’antiquario “eppure sono certo che è così”
“Non posso non ridere, signore, perché quanto dice è abbastanza strano”. obbiettò l’uomo che dimostrava un aspetto assai più giovane del proprietario della bottega. Forse trent’anni, non di più.
Il commerciante ripose per un momento il ciondolo nella teca, dando le spalle al suo cliente.
“Non siete il solo a dire che sono strano. Tutto il quartiere mi considera bizzarro per il mio carattere eccentrico, pur ritenendomi una brava persona. L’oggetto che vi interessa tanto ha una lunga storia alle spalle, una vicenda triste e sfortunata, sapete?”fece diventando improvvisamente serio.
“Che storia?”domandò Onorio.
Annibale lanciò uno sguardo al gatto rossiccio che continuava a sonnecchiare sul tavolo, poi si rivolse nuovamente al suo visitatore.
“Si racconta che nel Settecento vivesse a Venezia una fanciulla di nobili origini, famosa per la sua intelligenza e bellezza. Questa si innamorò di un giovane della sua città, forte e coraggioso che ricambiava i suoi sentimenti. I due però appartenevano a due famiglie rivali che non appoggiavano la loro unione: una specie di Romeo e Giulietta, se non fosse che le ostilità tra i due casati non è mai giunta a scontri violenti, grazie all’intervento del doge. Un giorno la città dichiarò guerra ai turchi ottomani che minacciavano i possedimenti della repubblica. Il giovane, malgrado le ostilità della famiglia della fanciulla si recò nella sua casa e propose al padre della ragazza di concederle la mano, a patto di arruolarsi nella flotta e di tornare vincitore dalla battaglia. L’uomo, stupito dalla richiesta, accettò.” disse.
“Interessante”commentò il cliente, lanciando di tanto in tanto sguardi attenti al ciondolo “e poi che è successo?”
Il negoziante sorrise per un momento sornione, lieto di aver catturato il suo interesse, poi ritornò serio. “Poco prima della partenza, il giovane innamorato andò dalla sua bella e gli promise che sarebbe tornato. Come pegno della sua fedeltà, le donò il ciondolo che avete visto, per rassicurarla che il giuramento era autentico.
Poi salì su una nave e salpò alla volta del mare, per affrontare i nemici. La battaglia si concluse con una vittoria ma quell’uomo non tornò: la sua nave incappò in una tempesta e finì con l’inabissarsi nelle acque dell’Adriatico. La storia non è finita qui tuttavia”continuò alzando le sopracciglia, nel tentativo di accrescere l’attenzione del suo ascoltatore.
“La giovane ragazza, al ritorno della flotta, venne a sapere della triste fine dell’amato e cadde nella più profonda disperazione, non capacitandosi che fosse morto. Suo padre, passato un po’di tempo, iniziò a farle pressioni perché si sposasse. La poveretta alla fine cedette e si fidanzò con un partito scelto dal genitore. La sera prima delle nozze tuttavia fuggì di casa e, travestitasi da uomo, s’imbarco su una nave mercantile per andare a cercarlo.”fece.
Il cliente sospirò.
“Vi sto annoiando forse?”chiese curioso il negoziante.
“No, signore. Continui pure.”rispose l’altro, stirando le labbra in quello che sembrò agli occhi del commerciante un sorriso di circostanza.
“La nave doveva recarsi originariamente a Creta, ma durante la traversata fu attaccata dai pirati saraceni e tutto l’equipaggio fu preso da quei predoni del mare. Della giovane donna, che viaggiava sull’imbarcazione sotto mentite spoglie, non si seppe più nulla.” Concluse, incontrando l’espressione accigliata del suo cliente.
“Qualcosa non va?”chiese perplesso.
Onorio spostò nuovamente lo sguardo su gioiello, sottraendo le iridi azzurre alla vista del commerciante. “No, signore”.
Annibale si limitò ad osservare l’uomo che aveva di fronte a lui. Non era la prima volta che raccontava la storia del ciondolo, tuttavia nessuno aveva mai reagito in quel modo. Lo sconosciuto aveva un aspetto tormentato, come se fosse afflitto da chissà quale dolore. Si chiese che cosa lo affliggesse in quel modo, eppure non fece domande. I rapporti tra venditore e cliente non dovevano mai scendere su personale, era risaputo.
“Una cosa non mi è chiara” fece Onorio riprendendo l’originaria compostezza “come mai quel ciondolo, che la ragazza portava con sé, sia finito nelle vostre mani”
Il commerciante lo fissò per un momento, poi sorrise nuovamente. “Io non ho mai detto che la fanciulla teneva con sé questo ciondolo al momento della scomparsa, così come so che il peso che portate nell’animo è molto gravoso. Se volete questo ciondolo, prendetelo. E’giusto che torni al suo legittimo proprietario, non lo credete pure voi?”disse infine con un sorriso, consegnando l’oggetto nelle mani pallide dell’uomo.
Onorio  estrasse impassibile una generosa manciata di banconote e, senza attendere il resto, uscì dal negozio. Camminò per un po’ lungo le vie del quartiere, mentre il sole era ormai allo zenit. Ogni tanto, incontrava qualcuno vestito in maschera per strada ma nessuno gli rivolgeva la parola. Nessuno tranne quel negoziante che si era dimostrato molto accondiscendente nei suoi confronti. Una cosa era certa: per quanti secoli potessero passare, gli uomini non cambiavano mai.
Tutti erano preda dei loro desideri corporali, eppure di tanto in tanto sfoggiavano una luce che solo molto raramente provava la natura nobile delle persone. Era come se quella gemma rara e bellissima non fosse ritenuta degna di essere coltivata e questo agli occhi di Onorio era un vero peccato. Attraversò alcuni ponti che collegavano una via all’altra, avvolto dai ritmi immutabili della città. Venezia gli aveva sempre comunicato una sensazione di rarefatta lentezza che non era mai riuscito a descrivere facilmente. Aveva visitato molte città ma nessuna gli era sembrata così immune alla frenesia caotica del tempo, come Venezia. In nessun momento era stata toccata dai ritmi sempre più veloci della vita cittadina, sebbene anche questa non fosse altro che un’accozzaglia di vie e case.  Forse era l’acqua che scorreva tra quegli isolotti di fango a dare l’illusione di quella struggente lentezza.
Il sacchetto che teneva in tasca intanto sembrava bruciare come lava. Non avrebbe mai creduto di trovare un pezzo simile lì, in quella città che un tempo gli aveva dato i natali.
Chissà se questo ciondolo è l’unica cosa che la sorte mi concede,  per porre fine ai miei tormenti”pensò, mordicchiandosi nervosamente le labbra.
Improvvisamente si trovò di fronte ad una chiesetta di stile rinascimentale, che si affacciava su un piccolo campo. La campana dell’edificio iniziò in quel momento a suonare, battendo i rintocchi che sordi si diffondevano nell’aria sospesa della città.
Ripensò alle parole del negoziante e si chiese se avesse sospettato qualcosa, ma subito scacciò dalla mente simili pensieri: la mente umana, per quanto arguta, non si permette mai d’indulgere troppo su ciò che le appare come ovvio o assurdo.
I piccioni intanto passeggiavano lungo i cornicioni delle case, come dei pedoni oziosi in una cittadina priva di moto. Onorio alzò leggermente la testa, senza trattenersi dal lanciare un’occhiata ostile a quei volatili, schiavi del cibo degli uomini e fastidiosi come pochi altri esseri viventi. Istintivamente si toccò la testa: l’ultima cosa che desiderava era sentire il calore fastidioso e umiliante degli escrementi di quegli odiosi uccelli.
Mentre era immerso in questi pensieri ed il suo corpo viaggiava verso una meta sconosciuta, il suo animo era perso nella nebbia dei ricordi.
Doveva assolutamente trovarla e non poteva accontentarsi del ciondolo che ora possedeva. Era una speranza irrealizzabile, simile al miraggio di un viandante disperso nelle sabbie del deserto, eppure non voleva arrendersi. Non ora che aveva una traccia.
Nel frattempo iniziò a vedere, nei punti in cui le strade si allargavano fino a diventare campi, le esibizioni dei saltimbanchi che, trattenendo intorno a sé passanti, ostruivano i piccoli camminamenti. Più volte fu sul punto di cadere nel canale, dal momento che nessuno degli spettatori era intenzionato a lasciarlo passare.
Per un attimo fu tentato di noleggiare una gondola ma subito scacciò una simile idea. Non amava quelle imbarcazioni, soprattutto quelle che viaggiavano nei canali secolari. Erano costruite secondo la tradizione, nere, lucide e sinuose ma non erano più le stesse di un tempo. Ai suoi occhi esigenti erano solo un’ulteriore attrazione turistica. Onorio sospirò per l’ennesima volta. Forse stava diventando troppo pignolo, pretendendo che le cose rimanessero sempre immutate, come lui, condannato a vivere in un presente senza futuro. Non si chiedeva in quel momento dove si trovasse, in quale sestriere stesse passeggiando. Era come un pellegrino in cerca di qualcosa di immateriale, che non poteva essere trovato tramite indicazioni convenzionali. Ogni calle di Venezia racchiudeva in sé qualcosa di diverso che impediva al suo occhio allenato di perdersi.
I suoi passi, malgrado lo spirito incerto, si muovevano agili e sicuri, come se la mente ed il corpo fossero separati. Trascorse così il resto del giorno, in questo lungo vagabondare senza meta. Era come se fosse in attesa di qualcosa che non riusciva a identificare, o che il suo raziocinio stava rifiutando in ogni modo. I ricordi però facevano capolino in ogni angolo e, come se non bastasse, ci pensava il gioiello che portava in tasca a riaccendere l’antica ferita.
Altri mai foco, stral, prigione o nodo
sì vivo e acuto, e sì aspra e sì stretto
non arse, impiagò, tenne e strinse il petto,
quanto 'l mì ardente, acuto, acerba e sodo
.
 
Il tormento per la lontananza da quella donna lo tormentava senza rimedio. Era come una fiamma che non faceva altro che logorare la sua anima dannata. Con un gesto stizzito estrasse il ciondolo. Era rimasto immutato per tre secoli, come lui. La perla risplendeva eterea nel mare di lapislazzulo, lo stesso oceano che l’aveva inghiottito, sia pure per qualche istante. Si passò una mano sulla fronte, tentando di frenare il dolore antico che nella sua nuova esistenza non era ancora scomparso. “Mia diletta, mio unico e amato bene” pensò chiudendo per un momento gli occhi “forse devo accontentarmi del ricordo della tua sola presenza, con la certezza che il nostro è stato solo un sogno?”
Ripensò al giorno in cui la vide per la prima volta. Era al seguito di suo padre, che aveva deciso di portarlo con sé per presentargli alcuni suoi soci di lavoro. Avevano appena concluso un affare piuttosto vantaggioso. Se la sua memoria non lo ingannava, era l’acquisto e la vendita di alcune spezie provenienti da Samarcanda. Stavano attraversano Ponte di Rialto che, allora come adesso era affollato di persone e di bancarelle, quando videro delle gondole passare sotto la costruzione. Una di esse era scura e priva di addobbi vistosi, tranne l’immagine stilizzata di due occhi.  Nella fantasia del giovane Onorio, quel disegno ricordava quello delle antiche navi dei greci. Era appassionato di miti e classici, benché suo padre disapprovasse questo amore, a suo giudizio, eccessivo. Alla guida dell’imbarcazione, in un punto particolarmente visibile stava lei. La donna che ancora adesso, a distanza di tre secoli, teneva la sua anima in catene.
Teodora Listrieri, la fanciulla dagli occhi verdi e dai capelli biondo cenere, figlia del patriarca del casato rivale al suo. Indossava una veste grigio perla e guardava con un’espressione serena e radiosa il Canal Grande. Onorio rimase incantato da quella creatura, così leggiadra ed eterea da non sembrare vera e per la prima volta in vita sua provò il desiderio di conoscerla. Suo padre, vedendo lo sguardo acceso ed il volto del figlio rivolto verso quella gondola, lo schiaffeggiò con violenza, imponendogli di non pensare a quella serpe, figlia di una casa a loro ostile. Onorio però non demorse e chiese informazioni ovunque, nella speranza di poterla incontrare. Venne così a sapere che amava la lettura e che era nota per essere piuttosto colta. Alcuni dicevano che uno degli antenati dei Listrieri aveva avuto in origine dei contatti con il grande Bessarione, colui che aveva avuto non poca influenza sulla vocazione letteraria della città sull’acqua.
Un giorno andò nella Biblioteca Marciana, dove erano contenuti i libri del grande Petrarca. Spesso si serviva delle collezioni presenti nella sua dimora, ma il desiderio di conoscere quella ninfa lo spinse a recarsi in quel luogo. Si addentrò con curiosità tra quei tavoli in legno massiccio, dove erano incatenati grandi volumi. Là vide Teodora, intenta a consultare uno di quei registri. Era così concentrata nella lettura di quegli elenchi che non si accorgeva della presenza delle persone che passavano accanto a lei. Spesso corrugava la fronte, come se non fosse soddisfatta dei risultati, ma nulla riusciva a toglierle quella grazia innata che traspariva in ogni gesto. Sembrava una di quelle donne-angelo cantate dai poeti stilnovisti. Onorio passò quindi numerosi giorni ad osservarla in silenzio, senza osare presentarsi. Era in fondo un nemico del suo casato e disperava di poter avere un qualunque contatto che fosse dettato dall’odio. Andò avanti così per diverso tempo, finché una mattina, con una scusa, le rivolse la parola. Iniziarono così a conversare amabilmente sulle cose più disparate, come se si conoscessero da una vita. Il giovane si stupì della vivacità intellettuale di Teodora e, soprattutto, di poter parlare con lei come se fossero alla pari. Nessuna ragazza di buona famiglia di sua conoscenza possedeva quella ricchezza interiore come lei e ciò lo affascinò, quasi più dell’attrazione che il suo fisico suscitava. Questa scoperta accrebbe enormemente il suo interesse.
I due iniziarono così ad incontrarsi di nascosto in tutte le biblioteche della Repubblica, con la scusa di poter leggere i nuovi fascicoli che, per legge, ogni letterato che componeva qualcosa, doveva inviare sotto forma di copia.
A quel ricordo, Onorio sorrise tristemente. Non c’era niente di fisico nella loro relazione, poiché mai avrebbe voluto compromettere quella creatura così eterea e irraggiungibile. La loro era una comunione di anime, più che di corpi, l’unico legame possibile che potevano instaurare.
Una sorta di Abelardo ed Eloisa settecenteschi, con la differenza che tra loro non ci sarebbe mai potuto essere un contatto ravvicinato come quello degli amanti medievali.
Ora però non sarebbe più stato possibile per lui raggiungerla, malgrado lo desiderasse con tutto se stesso. Aveva perso la sua umanità, diventando una sorta di demone, che si cibava del sangue degli uomini. Un certo Bram Stoker lo avrebbe definito vampiro ed in effetti era così, anche se a differenza del personaggio letterario, poteva girare indisturbato anche alla luce del sole. Quando si era imbarcato su quella nave, non si era accorto che uno degli uomini a bordo non era umano. Si chiamava Flavio ed era una persona molto cortese, sebbene cercasse di evitare troppi contatti con gli altri presenti. Onorio, che condivideva con lui il carattere schivo, strinse una strana amicizia che si rivelò assai preziosa durante quella sfortunata spedizione. La nave, dopo la battaglia, incappò in una tempesta e lui, mentre si trovava sul ponte, fu colpito da una cassa che era sfuggita alle funi che la tenevano bloccata. L’urto fu così violento da fargli perdere i sensi, tanto che non si accorse di essere caduto in mare. Il suo nuovo amico si tuffò per salvarlo. Quando riemerse però, si rese conto che la nave era ormai irraggiungibile e che le correnti e le onde, sempre più alte, rendevano il suo galleggiamento quanto mai precario. Vedendo che era impossibile riportarlo a bordo, Flavio lo trascinò, ancora incosciente, fino ad un piccolo complesso di isolotti che, per estensione, erano poco più che scogli disabitati. Lì si rese conto che non poteva salvarlo e che era così assetato da non potersi più controllare. Spinto dal bisogno, il vampiro lo morse ma proprio quando stava per ucciderlo, riuscì a recuperare un barlume di controllo.
Guardò il giovane, ormai quasi esanime, e, ricordando la sua amicizia, decise di trasformarlo. Da allora Onorio passò diversi secoli in sua compagnia ma il ricordo di Teodora non poteva essere cancellato. La sua immagine era impressa a fuoco nella sua memoria e niente poteva liberarlo da questo tormento. Per lenire la sua malinconia, si recava ogni anno a Venezia nel mese di Carnevale, nella remota speranza d’incontrarla.
Era un’illusione ma non era in grado di evitare che la sua mente si recasse a quei ricordi lontani, in particolare a quella sera di Carnevale, quando le aveva promesso di sposarla al ritorno dalla spedizione. Non avrebbe mai dimenticato quegli occhi verdi come il mare illuminarsi alla notizia di una simile proposta e riempirsi di lacrime quando aveva visto il dono che Onorio le aveva dato.
Lo stesso ciondolo che il giovane aveva trovato miracolosamente in quel negozio.
Improvvisamente sentì nell’aria lo scoppio di alcuni petardi, in direzione della grande Piazza San Marco. Con un profondo sospiro, Onorio si incamminò in mezzo alla folla, in direzione dell’unico luogo che avesse, a buon diritto, l’onore di chiamarsi piazza e non campo.
Nel frattempo il cielo sopra la città iniziò a tingersi di colori sempre più densi e scuri. L’immenso spazio aperto, circondato da edifici pubblici, musei, biblioteche, alla cui base erano poste delle veri e propri portici di colonne, era gremito di persone. Vi erano molti turisti che indossavano mascherine comprate pochi minuti prima da qualche venditore ambulante. I più esibizionisti invece indossavano abiti sfarzosi, alcuni dei quali imitavano malamente qualche modello antico. Tutti però portavano maschere variopinte, che celavano quasi completamente il volto. 
Onorio iniziò a passeggiare tra tutte quelle persone, immerso in quel mare di umanità nel quale si aggirava come un predatore sazio. Il profumo del loro sangue lo inebriava ma il suo controllo gli impediva di compiere sciocchezze. Si era recato a Venezia per ricordare il suo amore da umano, non per nutrirsi. Nel café aperto sulla piazza, intanto, qualcuno iniziò a suonare il pianoforte. Onorio riconobbe immediatamente la melodia: Chopin. Senza rendersene conto si avvicinò a quel locale. Mentre attorno a sé esplodeva l’euforia del carnevale, il pianista eseguiva quella musica malinconica e sospesa, come se si trovasse su un piano diverso da quello degli altri uomini.
Mentre era immerso nell’ascolto, sentì un profumo, simile al suo, che denotava l’origine non umana. Onorio si voltò di scatto e fu allora che la vide. Di fronte a lui, alla destra del musicista, se ne stava una donna vestita in abiti settecenteschi. L’abito era semplice ma di pregiata fattura, celeste come cielo in estate. Portava come lui una moretas, che celava il suo volto. Il giovane la osservò, così come la sconosciuta, che non gli staccava gli occhi di dosso. I tratti della donna, benché parzialmente celati, gli sembravano familiari, ma la sua ragione gli impediva di credere nell’impossibile. Era come quando, in mezzo alla folla, si aveva la sensazione di conoscere un passante, senza tuttavia essere riusciti a scorgere il volto. Questi erano, a grandi linee, i sentimenti di Onorio che fissava quella creatura con attenzione, mentre la sua mente aveva la sensazione di conoscerla ma non riusciva a ricordare dove e quando.
Eppure in quel momento, così strano e surreale, decise di lasciar da parte ogni possibile razionalità. Senza pensarci estrasse dalla tasca il ciondolo che aveva acquistato in quel negozio.
Non seppe dira cosa lo spinse in quel momento a compiere un gesto simile, ma fu la reazione della sconosciuta a sorprenderlo. La donna mascherata, turbata, si mise una mano sulla bocca, poi scappò. Onorio rimase qualche istante perplesso, prima di lanciarsi al suo inseguimento.
Attraversò con qualche difficoltà i passanti, che in quel momento si trovavano lungo il suo cammino, mentre la dama dall’abito color del cielo si allontanava velocemente, come se volesse seminarlo. Nel frattempo l’ombra del campanile si allungava sempre più sulla piatta superficie della piazza, mentre gli ultimi raggi del sole colpivano le raffigurazioni inserite negli sfondi dorati dei mosaici e attraversavano l’apertura semicircolare, che consentiva di attenuare l’oscurità nell’interno. Onorio però non prestò in quel momento attenzione a simili particolari. Il suo corpo premeva irresistibilmente verso quella creatura e non poteva attardarsi in passatempi simili.
Superò la grande piazza e la Piazzetta, davanti alla quale si affacciava il familiare colonnato gotico del Palazzo Ducale. Oltrepassò la massa di turisti che continuavano ad affluire nello spazio davanti alla cattedrale, senza perderla di vista. Era ormai vicini al punto in cui si vedeva il famoso Ponte dei Sospiri, quando si accorse che la donna era entrata nel palazzò più famoso della città. Onorio si fiondò dentro, senza pensare a nulla. In un momento si ritrovò nel grande cortile circondato dai portici. Si guardò attorno perplesso. La dama era sparita.
Girò la testa da ogni parte, fino a che la sua attenzione fu attirata da una figura che se ne stava in piedi, sui gradini della Scala de Giganti. I capelli erano ancora acconciati con eleganza, come se la corsa appena fatta, non avesse intaccato alcunché del suo aspetto.
Lei era lì. Il giovane allora mosse alcuni passi, per accorciare la distanza che li separavano.
“Come l'augel, ch'a Febo è grato tanto/sovra Meandro, ove suol far soggiorno/
quando s'accosta il suo ultimo giorno/move più dolci le querele e 'l canto”
iniziò a cantare Onorio,recitando una delle poesie amate dalla giovane che non aveva mai dimenticato. Se non ricordava male, l’autrice si chiamava Gaspara Stampa, una poetessa che seguiva il modello del canzoniere di Petrarca.
La donna mascherata s’immobilizzò.
“tal io, lontana dal bel viso santo/sovra il superbo d'Adria e ricco corno/morte, téma ed orror avendo intorno/affino, lassa, le querele e 'l pianto” continuò quella con voce tremante e nel dir così, si tolse la moretas che celava il suo volto. Il cuore ormai morto di Onorio, ebbe un guizzo.
Teodora era lì davanti a lui. Aveva un aspetto turbato, come se non potesse credere a quanto stava vedendo.
Prima che potesse dire altro, il giovane azzerò la distanza che lo separava ancora da lei, fino a trovarsi di fronte. Lo sgomento lasciò spazio ad un’incredulità insopportabile. Non poteva permettere che la ragione, unica guida della sua anima, per tutti quei secoli di vagare senza meta e scopo nel mondo, potesse lasciarsi andare al ricordo ma il cuore, motore di ogni sentimento, organo ormai morto, aveva emesso nuovamente il suo battito vitale ed Onorio non poteva ignorare un simile fenomeno.
“Sei vera oppure è la mia fantasia che, crudele, tormenta il mio animo?” chiese allungando esitante la mano, come per accertarsi della fisicità di quella visione. La dama si lasciò afferrare, impietrita dall’immagine che aveva di fronte a lei. La sua pelle era fredda come la sua e, come se non bastasse, emanava lo stesso profumo floreale dei non morti.
Era come lui, un suo simile. Poi lo sguardo le cadde  sul ciondolo che ancora teneva in mano. Esitante, lo prese con una mano e rimirò il gioiello in ogni sua parte.
“Il mio ciondolo” mormorò, prima di coprirsi la bocca.
“Teodora” pronunciò con voce tremante il giovane, senza perdere lo stupore che lo aveva colto, non appena gli occhi si erano posati sulla sua figura. “Onorio” fece, prima di slanciarsi su di lui, in un abbracciò pieno di meraviglia e forza. Il giovane rimase immobile come una statua. Non c’era nessuno dentro al Palazzo Ducale, dal momento che la maggior parte dei turisti era impegnata a festeggiare il carnevale in piazza. I due però non fecero caso al fatto che erano soli in quello spazio interno.
Le iridi cerulee si specchiarono in quelle verdi della dama che accarezzava ripetutamente il volto del compagno. “Non sai quanto ho sperato d’incontrarti” diceva con un tono quasi febbrile.
Onorio la ascoltava, incredulo di fronte a quella possibilità che il destino gli aveva inaspettatamente concesso. “Nemmeno io ho smesso di pensarti”fu tutto quello che ebbe il coraggio di dire.
Teodora lo osservò intensamente, senza sciogliere l’abbraccio. Quelle iridi verdi sembravano voler annegare i suoi occhi, come un mare placido. Rimasero per qualche istante abbracciati, poi il giovane fu colto dalla curiosità. “Mia amata” iniziò “come è possibile che voi siate in questo stato?...Non crediate che la cosa mi dispiaccia, ma vorrei sapere come è accaduto che voi siate diventata come me.”
La donna si allontanò leggermente e con una mano accarezzò gentilmente la guancia del nobile Almari.
“Quando voi ve ne siete andato” iniziò “io vi attesi per giorni, memore della promessa fattami. Ero così felice che voi corrispondeste i miei sentimenti, da non poter occupare la mente in altro pensiero che il vostro.”
Il cuore del suo ascoltatore ebbe un sussulto, di fronte a quella pudica dichiarazione, poi la dama si rattristò e sul suo volto si dipinse un’espressione affranta. “Quando giunse la notizia che la vostra nave si era inabissata, tuttavia, la felicità per il futuro sognato si tramutò in disperazione. Non volevo più uscire dalle mie stanze, preda del dolore che mi attanagliava. Mio padre però, passate alcune settimane, iniziò a fare pressioni e minacce affinché scegliessi un marito. Non crediate che non abbia fatto resistenza, ma la testardaggine del capofamiglia era pari alla mia ed alla fine fui costretta a cedere, o almeno così lasciai credere. I miei genitori si rallegrarono e per diverso tempo furono distratti dai preparativi per le mie nozze. Io mantenni un atteggiamento obbediente e composto, come ogni figlia doveva avere, fino alla sera prima del matrimonio. Quella notte lasciai la mia casa e mi imbarcai su un mercantile come mozzo.Per pagare il mio ingresso, fui costretta a privarmi del ciondolo che mi avevate regalato.” Raccontò.
“Che cosa volevate ottenere? Io ero morto” rispose, tentando di non lasciarsi travolgere dai sentimenti.
“Non so cosa intendessi fare, poiché la memoria umana è qualcosa di molto labile per noi, ma non volevo che il mio consorte fosse una persona che non fossi tu. Se fossi rimasta a Venezia, presto o tardi, mi sarei dovuta sposare e non potevo accettarlo. Per questo me ne andai. Forse speravo di rifarmi una vita altrove, senza subire le pressioni dei miei cari, oppure mi ero illusa di poterti trovare fuori dai territori della Repubblica, dal momento che ti avevano dato per disperso. Potete chiamarmi pazza, ma forse desideravo credere che foste ancora vivo.” Spiegò.
Onorio la osservò per alcuni istanti. “Ecco perché avete lasciato la città. Poi cosa vi è accaduto?” domandò.
“Ero sul mercantile sotto mentite spoglie e nessuno si accorse che ero una donna. La navigazione proseguì tutto sommato tranquillamente, fino a quando, nei pressi di un’isola la nave non fu attaccata dai pirati saraceni. Si impossessarono delle merci e ci presero come schiavi per venderci ai turchi. Fu allora che il mio segreto fu scoperto e, data la mia bellezza e la mia giovane età, fui venduta al visir del sultano di Istambul, per entrare nel suo harem.” Continuò.
Sul volto di Onorio si dipinse una maschera di orrore al pensiero di ciò che la sua amata aveva subito.
Teodora che non aveva mai distolto lo sguardo da lui, intuì probabilmente cosa stava pensando, perché si affrettò ad aggiungere il resto della storia. “Quando fui condotta nell’harem, ero insieme ad altre ragazze che, come me, erano state considerate le madri ideali per i figli del sovrano. Iniziai, come tutte loro, come odalisca e serva delle concubine. Qualora avessi attirato l’interesse della madre del sultano, sarei diventata come queste ultime e, magari favorita. La competizione in quel luogo era molto accesa e non mancavano i colpi bassi, che spesso e volentieri le donne si lanciavano vicendevolmente, per mettere la rivale in cattiva luce.”
Improvvisamente, sul volto della dama si dipinse uno strano sorriso. “A differenza delle altre schiave, però, io non ero dotata della stessa malleabilità, e non ruscivo ad accettare questa sorte. Iniziai così a lamentarmene con una serva che era stata sfigurata dalla regina madre, quando questa era ancora una favorita. Mi prese in simpatia e trascorsi così alcuni momenti piacevoli. Il sultano però aveva iniziato a guardarmi con interesse, cosa che la madre e la favorita non apprezzavano. Fu così che un giorno, prima che potessi essere scelta, misero nella mia tazza da tè un potente veleno. Dopo averlo bevuto, iniziai ad avere forti dolori allo stomaco e fui colpita da una violenta febbre. Ero ormai agonizzante quando mi lasciarono alle cure di quella serva dal volto sfregiato: forse credevano che non potessi più salvarmi e volevano salvare le apparenze. Quella schiava vegliò su di me per giorni, fino a quando, essendo ormai chiaro che non potevo guarire, decise di trasformarmi.” Disse, incontrando lo sguardo stupito di Onorio.
“Era un vampiro?” domandò il giovane.
“Sì” fece, sorridendo con gratitudine “era stata trasformata molto tempo fa, quando, dopo essere stata sfigurata, aveva provato a togliersi la vita. Mi disse che aveva tentato di uccidersi perché con quell’aspetto non avrebbe più acceso l’interesse del sultano e così facendo non avrebbe mai soddisfatto ciò che ci si aspettava da lei. A salvarla ci pensò un non-morto che la trovò in fin di vita ai piedi delle mura del palazzo. Ho vissuto insieme a lei da allora.”
Con un movimento fluido Onorio la strinse forte a sé. “Ora non ha più importanza, perché ci siamo ritrovati e questo” disse, estraendo la collana con il ciondolo “appartiene a voi, insieme al mio cuore”.
La dama sorrise e alzò la chioma bionda che le scendeva in morbidi boccoli lungo le spalle. Il giovane le mise il monile intorno al collo di alabastro che, illuminato dai raggi del sole morente, sembrava risplendere di luce propria.
Teodora teneva gli occhi chiusi e, prima che potesse allontanarsi, appoggiò languidamente la schiena al suo petto. Il suo compagno le circondò il corpo con le braccia. “Anche il mio vi appartiene ed ora che vi ho trovato, non sono disposta a lasciarvi andare.” Mormorò la donna.
“Siamo affetti allora dalla medesima forma di egoismo” commentò sorridendo Onorio.
Il palazzo intanto stava per essere chiuso ed i due, tacitamente, lasciarono l’edificio. In piazza intanto esplodevano fuochi d’artificio colorati e musiche allegre, per festeggiare la ricorrenza che rendeva la città più famosa di quanto già non fosse.
Osservarono quell’ebbrezza collettiva e, mano nella mano, salirono sulla terrazza della Basilica di San Marco. La gente continuava a divertirsi euforica, in un tripudio di maschere e costumi variopinte.
Onorio osservò per un lungo istante il profilo della sua amata che, sotto l’albore dell’illuminazione elettrica e la volta stellata, sembrava risplendere. Anche Teodora si voltò, immergendo le iridi verdi in quelle azzurre di lui. “Dopo aver vagato a lungo al fianco della mia salvatrice, ho iniziato a venire in questa città, ogni carnevale. Per me era un modo per ricordarvi.” Disse, avvicinando la guancia alla mano del compagno.
“Anche io ho iniziato a recarmi annualmente a Venezia in questo periodo.” Riferì, con uno sguardo acceso di gioia.
“Ricordate? Fu proprio in quel carnevale che precedette la vostra partenza che mi faceste la promessa. Con questo ciondolo che ora indosso.” Fece la dama, accarezzando con affetto il gioiello.
Onorio posò con delicatezza una mano sulla sua guancia. “E’stata una lunga attesa, ma ora possiamo mantenere la promessa che ci scambiammo allora, non credete anche voi?”
In quel momento un fuoco d’artificio scoppiò in alto nel cielo. Bianco e luminoso, come un fiore di stelle. Gli occhi dei due innamorati brillavano come se fossero ancora vivi. La scintilla della speranza realizzatasi infatti, risplendeva come un frammento di luce in quei corpi ormai freddi: perché la differenza tra un vivo ed un morto non si basa solo su un cuore che batte, ma sulla volontà di credere in qualcosa.
 
 

 
   
 
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