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Autore: _eco    20/02/2015    1 recensioni
[Fitzsimmons] [Season 2]
La vita non è un film. Non è quell'immenso casino che si traduce necessariamente in un lieto fine. Fitz non tornerà come prima solo perché lei si sveglierà un bel giorno, si siederà accanto a lui in silenzio, gli accarezzerà la spalla e gli sussurrerà “ci sono”.
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jemma Simmons, Leo Fitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Come intasare un fandom. Lo stai facendo nel modo giusto! 
Anyway, sta storia è un parto ed è un mattone, quindi non leggetela.
Non so nemmeno quanto siano IC questi due. Li conosco da pochissimo, quindi pietà. xD
È ambientata poco dopo la 2x10. Mack si è ripreso, perché deve essersi ripreso, okay? Okay.
E diciamo che grazie a lui la situazione tra questi due si alleggerisce un poco. Diciamo. xD
Vabbé, insomma, spero di non aver combinato il solito caos.

Ah, e la dedico a Rue, che è stata la prima in assoluto a parlarmi di loro due. ♥



 
Almeno per oggi.
Fitz muove le dita con trepidazione, staccando e collegando fili di diverso colore tra loro. Il rosso con il blu, il verde con il giallo. La difficoltà non sta soltanto nell’affiancare e connettere i fili, ma anche e soprattutto nel saldarli bene fra loro.
Le sue mani sono di certo migliorate nell’ultimo mese, ma non sono ancora abbastanza. Fitz ci sta lavorando su. Sta lavorando per rassegnarsi al fatto che non saranno mai più abbastanza.
I tremiti partono dal polso, il più delle volte. Spesso è malfermo e il suo andamento traballante compromette la funzionalità delle mani, specialmente della sinistra. È frustrante, ma Fitz c’è quasi.
Ci sei quasi. Gliel’ha detto Jemma, o meglio, la Jemma che si muoveva, sorrideva, gli accarezzava la spalla, gli chiedeva se avesse preso i medicinali e che, ovviamente, viveva soltanto nella sua testa.
Tutto ciò che ha ottenuto fin ora è stato un cenno di diniego da parte di Jemma,  quando ha ipotizzato che avesse lasciato lo S.H.I.E.L.D. perché lo riteneva inutile.
Talvolta il suo campo visivo si confonde e si offusca. Leo deve scuotere la testa ripetutamente, chiudere gli occhi e riaprirli più volte per mettere a fuoco ciò che lo circonda e fare ordine mentale.

È ciò che sta tentando di fare adesso.
Abbassa le palpebre, tra le mani i fili – uno rosso e uno blu – e la pinza per saldarli. Il polso sinistro trema incessantemente da una decina di secondi, impedendogli di mantenere ferma la presa sui fili e quindi di usare con successo la pinza.
Avverte un brusio in sottofondo.
Mack sta parlando con qualcuno.
Gli piace, Mack. Non lo guarda né con aria di sufficienza né con pietà. Gli ha insegnato a ironizzare sulla sua incapacità di parlare e coordinare i movimenti come una volta. Già, come una volta. Il punto – pensa Fitz – è che Mack non ha mai conosciuto quel che era una volta: questo rende il tutto più semplice.
Quando guarda Jemma negli occhi e prova a parlarle, ma non riesce a mettere su una frase di senso compiuto, è come se una voce si prendesse costantemente gioco di lui.
Ogni volta che, con uno sforzo immane, riesce a parlare senza balbettare e Jemma annuisce e sorride debolmente, come per incoraggiarlo, Fitz si ricorda di ciò che erano una volta. Dei traguardi che si erano prefissati. Delle notti insonni trascorse nel dormitorio dell’Accademia a fantasticare sulle missioni a cui Jemma avrebbe tanto voluto prendere parte e al cui pensiero lui fremeva di paura, colto dalle sue infinite paranoie – Fitz, sarebbe così eccitante, non fare il fifone!, gli ripeteva, dandogli un colpetto sul braccio. Buffo, poi, il fatto che, alla fine, fosse sempre Jemma la più ansiosa al momento di partire per una missione.
E si rende conto che non potranno nemmeno più sperare in missioni e avventure e premi di ogni sorta per chissà quale scoperta. Jemma andrà avanti, o forse ha già intrapreso una strada più impervia e scoscesa della sua, semplicemente perché ha i mezzi per affrontarla con successo.
Lui rimarrà sempre un passo indietro, bene che vada.
Non sarà mai abbastanza. Mai più.
Non per Jemma. Non per Coulson. Non per lo S.H.I.E.L.D. Non per se stesso.
Hai bisogno di tempo per guarire, gli ha detto Simmons.
Non è altro che una perdita di tempo, per sé e per Jemma. Oh, potrebbe fare tante di quelle cose da sola, senza che lui le sia d’intralcio e inciampi ogni due per tre in laboratorio. Perché non lo capisce? Perché non ammette quello che pensano tutti?

È inutile, come un vaso scheggiato, come una bambola rotta, come il congegno di occultamento che ha smesso di funzionare e deve riparare.
Come? Come puoi riparare qualcosa, se sei guasto tu in prima persona?
Riapre gli occhi.
Se solo quei maledetti fili si decidessero a stare fermi e gli permettessero di saldarli. Se solo riuscisse a tenere sotto controllo la sua maledetta mano! Quasi avverte una risata di scherno alle sue spalle.
La risata di quel Fitz che avrebbe saldato i fili in un nano secondo, anche a occhi chiusi, o mentre battibeccava con Jemma su un aneddoto dell’Accademia, che ognuno dei due si ostinava a raccontare secondo la propria versione.
Senza rendersene conto, abbandona la presa sulla pinza, che cozza con un clangore sordo contro il bancone. Schiaffa la mano libera contro la superficie di metallo, il congegno di occultamento che si muove di un paio di centimetri in avanti, in bilico tra il vuoto e il tavolo.
Il brusio in sottofondo s’interrompe bruscamente.
- Ehi, amico. – lo richiama Mack.
- Fitz! – gli fa eco un’altra voce.
Fitz la riconoscerebbe a occhi chiusi. Ultimamente Jemma passa spesso in garage, si ferma a parlare con Mack per qualche secondo, spia di sottecchi – o almeno ci prova – Fitz, gli rivolge un sorriso qualche volta. Poi esce.
Goccioline di sudore freddo gli imperlano la fronte. Artiglia con entrambe le mani i bordi del bancone, le spalle curve.
La figura di Mack si staglia di fronte a lui, dall’altra parte del tavolo, proiettando un’ombra che oscura quasi tutta la superficie di metallo.
Leo deve affondare i denti nel labbro inferiore per farlo smettere di tremare. Episodi del genere capitano con la frequenza di una o due volte a settimana, ma quando è sotto pressione aumentano spaventosamente. Colpisce ancora una volta il bancone con furia.
- Woah, amico, rallenta! – esclama Mack. – Sfalderai tutto il lavoro che hai fatto fin ora. – gli fa notare.
Jemma, lo sguardo che accarezza il profilo malfermo di Fitz, gli si avvicina con cautela, le mani sospese a mezz’aria.
L’istinto le suggerisce di sfiorargli la spalla. Non l’hanno mai sancito né detto espressamente, ma è sempre stata una cosa loro. Sua e di Fitz e di nessun altro. Un modo per incoraggiarsi prima di un esame, per confortarsi dopo una brutta giornata, per dire “ci sono”.
E Jemma vuole dirglielo. Sono qui. Tuttavia, non crede che questo possa essergli d’aiuto. La vita non è un film. Non è quell’immenso casino che si traduce necessariamente in un lieto fine. Fitz non tornerà come prima solo perché lei si sveglierà un bel giorno, si siederà accanto a lui in silenzio, gli accarezzerà la spalla e gli sussurrerà “ci sono”. Non torneranno a completare l’uno le frasi dell’altra – non come prima – semplicemente perché gli equilibri si sono alterati, Fitz è diverso e lei, per quanto le sue capacità d’intuizione abbiano fatto cilecca di rado, è pur sempre umana. Nulla sarà abbastanza, nulla sarà mai lontanamente accettabile finché Fitz non capirà che agli occhi di lei non sarà mai inutile e Jemma non si renderà conto che ogni cosa cambia, che noi lo vogliamo o meno.
Fitz non tornerà più lo stesso perché lei, con un respiro di troppo, gli ha portato via quel poco di fiducia in se stesso; gli ha rubato la capacità di eccellere nell’unico ambito in cui era qualcuno – o meglio, in cui Fitz pensava di avere qualche possibilità di spiccare.
- Sono una de… una delu… - borbotta Fitz, le mani ceree per la troppa pressione con cui artiglia il bancone.
Una delusione.
- Non dirlo. – lo interrompe Jemma, scuotendo la testa.
Si è avvicinata a lui, ma tiene le braccia lungo i fianchi. Non ha osato sfiorarlo per paura che si ritraesse.
- Non posso più… ora non posso più… parlare? – replica lui.
Le sua schiena si muove impercettibilmente avanti e indietro senza sosta, come se Fitz vi trovasse una sorta di precario – ma sufficiente – equilibrio. Una distrazione, qualcosa su cui concentrarsi.
- Certo che puoi, Fitz! – si affretta a chiarire Jemma.
Respira profondamente e chiude gli occhi per una manciata di secondi.
È stanca di muoversi in punta di piedi, di dover stare attenta al tono con cui gli si rivolge, di essere divorata dal terrore di scoprire come reagirà a ogni sua singola azione. È stanca di essere stanca, perché non è di lei che si tratta, qui. Non è lei che non riesce a esprimere le sue idee, le sue trovate geniali, non è lei a essere avvolta da sguardi compassionevoli, non è lei che deve sedersi in un angolo e aspettare secondi, minuti, addirittura ore per ripristinare il controllo delle proprie mani.
Egoista. Ecco cos’è. Fitz sta soffrendo e tutto ciò a cui riesce a pensare è a come aggiustarlo. A come aggiustare loro. E, in realtà, non c’è una soluzione; non può semplicemente creare un antisiero e iniettarglielo; non può far affidamento sulla propria intelligenza e cercare di interpretare ogni suo pensiero; non può fare il lavoro anche per lui, e non perché non voglia, ma perché lo convincerebbe ancor di più di essere inutile.
- Se ti riferisci alle mie… se parli delle mie… capacità di espressione, allora è una battuta … di pessimo gusto, Simmons. – balbetta Fitz.
- Non è questo ciò che intendevo. – precisa Jemma con un fil di voce.
Forse è per via del sonno, e a Jemma piace pensare che sia così, ma i suoi occhi iniziano a pizzicare, la vista a offuscarsi a tratti. Deglutisce rumorosamente, nel tentativo di liberarsi del nodo in gola che le impedisce di respirare.
Mack, le labbra cucite in un silenzio eloquente fin ora, accenna un sorriso triste e annuisce impercettibilmente.
- D’accordo, amico. – interviene, picchiando le nocche contro il bancone per richiamare l’attenzione di Fitz. – Cosa c’è che non va con il congegno d’occultamento? –
Leo alza lentamente il capo, gli occhi cosparsi da sottili venature rossastre, i riccioli biondi incollati alla fronte sudaticcia. Pian piano, solleva anche le spalle e molla la presa sul bancone, per indicare con le mani l’intreccio di fili colorati e la pinza in bilico tra il tavolo e il vuoto.
D’istinto, Jemma la sposta per accertarsi che non cada.
- Non riesco… - cerca di spiegare lui, agitando le mani come per mostrare la sua incapacità di controllarle, specialmente oggi, -… a saldarli. –
Mack annuisce. Jemma indietreggia di qualche passo, e quando Leo si volta per guardarla, china il capo. Non è ancora riuscita a cacciare indietro le lacrime incastrate nelle ciglia scure.
- E’ un lavoro… un lavoro che una… -
- Una? – gli fa eco Mack.
- Il lavoro che una… che una… - ripete Fitz.
L’istinto gli suggerisce di cercare la risposta in Jemma, che fissa un punto indefinito del bancone. Gli sembra che le sue labbra si sollevino appena nell’ombra di un sorriso nostalgico.
- Amico? – lo richiama Mack, facendo schioccare le dita davanti al suo naso.
Fitz scuote la testa. L’esasperazione gli accartoccia il viso nuovamente.
- Penso – mormora Jemma, ma s’interrompe quando Fitz le punta gli occhi addosso, curioso. – Penso – ripete – che voglia dire che è il lavoro che una scimmietta potrebbe fare facilmente. –
Per un attimo, il silenzio soffocante che li avvolge le si abbatte sulle spalle tutto in una volta. Avrebbe fatto meglio a star zitta.
- Fitz? – sussurra.
Leo annuisce.
- Una scimmietta, sì. – conferma.
Minuscole fossette gli solcano il viso. Sono ancora più evidenti quando sorride, cosa che adesso sta facendo. Simmons rilassa le spalle e si lascia sfuggire un sospiro di sollievo.
- Okay, Turbo, posso essere la tua scimmietta. – propone Mack, i denti bianchi che spiccano nel volto color cioccolato.
Fitz storce la bocca.
- Senza offesa, ma penso che tu... penso che tu saresti un gorilla, piuttosto. –
Mack annuisce.
- Non sei la personificazione della sensibilità, ma il tuo ragionamento non fa una piega. – ammette.
Jemma si lascia sfuggire una risata che ha un nonsoché di isterico, ma è comunque un suono gradevole per Fitz.
Per la prima volta nel giro di un paio di giorni, Leo la guarda per più di dieci secondi senza sentire il bisogno di concentrarsi su qualcos’altro per distrarsi.
Ha gli occhi stanchi, Jemma. Sono luminosi, in parte per le lacrime che ha strenuamente trattenuto, in parte perché brillano quando ride – e lui lo sa bene. Simmons si tortura le dita, colta dal panico. Dovrebbe dire qualcosa? Cosa?
Si limita a distendere le labbra in un sorriso rilassato e ad annuire.
- Posso provare io, se non è un problema per te. –
Leo batte le palpebre più volte, poi scuote la testa.
- No, faccio io. Devo farlo io. –
- Perché non lasci mai che ti aiuti? Non mi permetti nemmeno…- ribatte Jemma, sferzando l’aria con le braccia, sull’orlo dell’esasperazione.
- Perché eravamo una squadra. E ognuno faceva la sua… ognuno faceva…-
-… la sua parte. – conclude lei.
- Ecco! Ognuno faceva la sua parte. Io facevo il mio cinquanta percento e tu… tu facevi il tuo. – continua Fitz, le parole che ruzzolano dalle sue labbra come fossero detriti rivoltati da un fiume impetuoso. – E funzionavamo bene. E questo – allarga le braccia per indicare il congegno di occultamento -… questo è il mio… -
- Cinquanta percento. – completa Jemma in un sussurro, seguendo con lo sguardo gli intrecci dei fili colorati.
-
È il mio cinquanta percento. – le fa eco Leo. – E devo farlo io. – conclude, annuendo più a se stesso che a Mack e Simmons.
Avvicina le dita ai fili colorati, aggiustando quelli che, quando ha fatto tremare il bancone, si sono incurvati e sono finiti dove non dovrebbero trovarsi.
Va tutto bene.
Tra qualche minuto, si spera, le sue dita torneranno a muoversi tranquillamente.
Va tutto bene.
Jemma probabilmente uscirà in silenzio nel giro di pochi secondi.
Va tutto bene.
Mack si dimenticherà di questa sfuriata e non oserà rinfacciarglielo.
Va tutto bene, e…
- Se mi spieghi quale filo saldare con quale – dice Jemma, cocciutamente, muovendo un passo verso di lui – farai il tuo cinquanta percento. Solo in maniera diversa. –
Leo corruga la fronte. Deve ripetersi più volte le parole di Simmons in testa per coglierne il significato.
Non fa una piega.
Solo qualche settimana fa le ha urlato che è diverso. Lui, Fitz, è diverso.
Jemma è così vicina a lui che riesce a percepire il suo respiro regolare. Con la coda dell’occhio si accorge che si sta torturando le dita, forse senza nemmeno rendersene conto.
La frase di Jemma risuona nella sua testa ancora una volta. Il tono è ora pacato, ora quasi spezzato.
- Mi sembra un buon ragionamento. – commenta Mack, facendo spallucce.
Fitz annuisce, stringe le mani a pugno e sospira.
- Possiamo provare. – acconsente.
 
 
 
Jemma armeggia con i fili e la pinza saldatrice. Movimenti meccanici che un tempo Fitz avrebbe definito “facili come rubare le caramelle a un moccioso”.
- Filo rosso, filo blu. –
Ripete queste combinazioni da così tanto tempo che non balbetta più.
- Filo verde, filo giallo, giusto? – chiede Jemma, sollevando appena lo sguardo per captare ogni cenno di conferma da parte sua.
- Mh, mh. – replica Fitz.
Vanno avanti così per un altro minuto pieno; poi Jemma quasi sfiora inavvertitamente uno dei due fili azzurrini, che Fitz non ha coperto con il nastro isolante.
- Attenzione! – scatta d’impulso, prendendole il polso e allontanando le sue dita dal congegno. – Sono… non sono isolati, quelli. – le spiega, grattandosi la nuca con la mano libera.
- Okay, allora niente fili azzurrini. – deduce lei.
Fitz annuisce.
Ci sono movimenti che compiamo senza nemmeno rendercene conto, come se il nostro cervello si offuscasse per un attimo e lasciasse il corpo libero di far ciò che vuole. Fitz crede di trovarsi più o meno in questa situazione, perché non ricorda che il suo cervello gli abbia comandato di farlo, eppure succede.
Si avvicina a Jemma, che adesso gli da le spalle. Le sfiora il dorso della mano e inizia a guidarne i movimenti.
- Filo rosso… -
-… filo blu. –
- Salda qua. –
- Filo verde…-
-… filo giallo. –
- E saldiamo qua. –
Somigliano a una strana catena di montaggio. E’ questo il pensiero che attraversa la mente di Mack, mentre li osserva di sottecchi dal suo bancone di fronte.
Ma funzionano, in qualche modo.
Forse diverso da com’erano una volta, ma del resto Mack li ha conosciuti così: danneggiati, divorati dai sensi di colpa, pieni di parole cui non sanno dar voce, costantemente destabilizzati l’uno dall’altra.
Forse hanno trovato un equilibrio, forse devono ancora assestarsi bene; ma per adesso funzionano e basta.
- Attenzione. – mormora Fitz, allontanando la mano di Jemma dai fili azzurri.
- Dovresti isolarli, genio del male – risponde lei, scuotendo la testa.
 
Coulson scorta un giovane dai capelli rossi e le spalle larghe per il garage.
- Roger, lui è Mack. – spiega Phill. – Mack, Roger. –
Mack stringe calorosamente la mano del nuovo arrivato.
- Fitzsimmons? – prosegue Coulson.
Fitzsimmons. Tutto d’un fiato. Da quanto non li chiamavano così?
Entrambi sollevano il capo contemporaneamente. E’ buffo come i loro volti s’increspino in due sorrisi simili, che sembrano l’uno il prolungamento dell’altro – e loro nemmeno se ne accorgono.
- Sono un… un ingegnere. – si presenta Fitz. – Più  o meno. – aggiunge poi, con un filo d’ironia.
Jemma sta per parlare, ma Fitz la anticipa. – Lei è una biochimica. – continua Leo, indicandola.
- Ribattezzata ingegnere. – aggiunge Simmons.
- Almeno per oggi. – conclude Fitz.
Almeno per oggi, ripete mentalmente Jemma.

È un buon inizio.
 
  
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