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Autore: The_BlackRose    21/02/2015    3 recensioni
Aveva gli occhi spalancati puntati nel vuoto davanti a sé. Due grosse occhiaie nere gli scavavano il viso e le guance erano lucide, come se avesse appena smesso di piangere. Non mi sarei mai immaginata di vedere un ragazzo come lui ridotto in quello stato.
Con la mano destra gli asciugai una lacrima che stava rotolando giù per il suo zigomo. Lui continuava a non guardarmi.
"Mi dispiace," sussurrai con voce rotta. Posai la mia fronte sulla sua e in quel momento lui chiuse gli occhi e si abbandonò ad un pianto liberatorio singhiozzando. Lo strinsi forte.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Clarissa, Izzy Lightwood, Jace Lightwood, Max Lightwood
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Sarebbe dovuto essere un appuntamento al buio. Sapevo solo il suo nome, Clary, e che aveva un anno in meno di me. Tutto questo nacque quando Isabelle decise di volere a tutti i costi trovarmi una ragazza. Mi disse che conosceva una ragazza molto carina e simpatica, che di sicuro mi sarebbe piaciuta, con cui mi sarei divertito e bla bla bla...
Non diedi molto ascolto a quello che mi diceva ma poi mi chiesi: "Perché no? Si tratta solo di uscirci una volta sola".
Così Isabelle organizzò il tutto; saremmo andati a pranzare in una tavola calda a nord di Brooklyn e, se tutto fosse andato bene, dopo avremmo fatto una "romantica" passeggiata al parco. In realtà avrei preferito trovarci in un fast-food e rimpinzarci di doppi cheeseburger con pomodori e cipolle e di patatine deluxe ricoperte di maionese e ketchup, ma Isabelle era irremovibile.
Così, dopo avermi fatto indossare qualcosa di diverso dalla solita t-shirt nera comprata ai saldi invernali di Macy's e avermi sistemato i capelli, già perfetti anche senza il suo aiuto, Isabelle mi accompagnò fino all'entrata del locale dove mi diede gli ultimi consigli, di cui non avevo bisogno, e mi augurò buona fortuna.
Entrai nella tavola calda e mi guardai intorno alla ricerca della ragazza. Izzy mi aveva avvertito che avrebbe indossato un vestitino verde per farsi riconoscere e in questo modo la trovai quasi subito. Era seduta su una panca ad un tavolo accanto al muro ed era intenta a guardarsi intorno sorseggiando una bibita gasata. Indossava un paio di scarponcini neri lucidi ed un vestitino morbido verde al ginocchio che le lasciava scoperte le spalle, sopra alle quali ricadevano dei lunghi riccioli rosso fuoco. Gli occhi si notavano perfino da quella distanza: erano di un color verde intenso simile a quello del suo vestito.
Avvicinandomi riuscì a notare altri particolari del suo aspetto, come ad esempio le lentiggini che le ricoprivano il viso e le spalle o il fatto che fosse incredibilmente bella.
Mi fermai quando arrivai al tavolo dov'era seduta la ragazza. "Ciao, sei Clary?"
Lei rivolse i suoi grandi occhi luminosi su di me e guardandomi sorrise. "Sì, sono io. Tu devi essere Jace, non è vero?" si presentò tendendomi la mano. Io la strinsi delicatamente.
"In carne ed ossa." Mi sedetti davanti a lei e una cameriera con un grembiulino blu ci raggiunse subito.
"Benvenuti da Jack & Decker's, cosa posso portarvi?" ci chiese con voce squillante.
Ordinammo da mangiare e la cameriera si annotò tutto sul suo block notes, dopodiché ci fece un sorriso e scomparì dietro alla porta della cucina. Tornò poco dopo con le nostre bibite.
"Allora Clary, cosa ti piace fare nel tempo libero?" chiesi interessato mentre mi rigiravo il bicchiere di Coca in mano.
"Niente di speciale. Disegno, leggo fumetti," rispose mordicchiando la cannuccia rosa della bibita.
"Disegni? E sei brava?" Ero realmente interessato.
"Me la cavo." Esitò un attimo. "Vuoi vedere qualche mio disegno?" domandò con tono timido.
"Certo, sono curioso."
Allungò il braccio e raggiunse la borsa scamosciata di fianco a lei, la aprì e tirò fuori un blocco da disegno porgendomelo. Lo presi e cominciai a sfogliare la pagine.
Osservai le linee morbide che si sovrapponevano, i chiaroscuri sui volti dei personaggi e ancora le curve marcate, i tratti decisi, quelli più leggeri. Non me ne intendevo di disegno, ma quella era vera arte. Sollevai lo sguardo su Clary che mi osservava timidamente cercando di leggere le emozioni sul mio viso alla vista dei suoi lavori.
"Clary, questa è pura arte. Hai un enorme talento," osservai sincero.
La sua espressione si addolcì e mi rivolse un sorriso.
Poco dopo arrivarono le nostre ordinazioni e cominciammo a mangiare continuando a parlare tra un boccone e l'altro.
Scoprì che il suo nome completo era Clarissa Adele Morgenstern, aveva sedici anni e viveva con la madre e il fratello Jonathan in una casetta in un quartiere residenziale poco distante dalla tavola calda. Il suo migliore amico si chiamava Simon e si conoscevano da quando erano molto piccoli. Con lui condivideva la passione per i fumetti e capitava molto spesso che si trovassero a casa di uno o dell'altro per leggere insieme.
Mentre parlava osservai meglio le sue labbra che si muovevano. Ebbi una strana sensazione, come una specie di attrazione.
Quando finimmo di mangiare e la cameriera dalla voce squillante ebbe portato via i nostri piatti, pagai il conto e ci alzammo per dirigerci verso il parco. Avrei voluto portarla a Central Park, ma si trovava a Manhattan e la strada sarebbe stata troppo lunga, così ci accontentammo di un parco minore lì vicino.
Percorremmo un sentiero alberato e ci sedemmo all'ombra di una grossa quercia appartata. Fu Clary a insistere per quella posizione, poiché sosteneva che fosse un posto molto tranquillo. Io non volevo che sedendosi per terra si sporcasse il vestito, ma a lei sembrava non importare.
Eravamo appoggiati con la schiena al tronco della quercia e guardavamo il viale davanti a noi; le foglie gialle e rosse di inizio autunno erano tutte sparpagliate per terra creando un magnifico tappeto dai toni aranciati.
Cominciò a soffiare un leggero ma pungente venticello e con la coda dell'occhio vidi Clary rabbrividire; mi affrettai a sfilarmi la giacca di jeans e la posai sulle sue spalle nude. Lei mi guardò con i suoi grandi occhi verdi e mi ringraziò stringendosi nella giacca.
Il tempo passò in fretta, troppo in fretta, e, quando il sole cominciò a calare all'orizzonte, fu ora di tornare a casa. Mi alzai dal prato scuotendomi le foglie di dosso e porsi la mano a Clary per aiutarla a sollevarsi. Ripercorremmo nuovamente in viale alberato in direzione dell'uscita.
Quando arrivammo di fronte al vialetto che conduceva a casa sua cominciai a domandarmi cosa avrei dovuto fare: dovevo salutarla e lasciarla entrare o abbandonarmi ai sentimenti e baciarla?
"Allora," cominciò Clary, ma fu interrotta dal rumore della porta d'ingresso che si apriva. Un ragazzo alto e dai capelli biondo platino si affacciò dalla casa e mi guardò con l'aria di un cane da guardia.
Clary sbuffò. "Lui è mio fratello Jonathan, è alquanto protettivo quando si tratta di ragazzi."
Guardai nuovamente il ragazzo e gli feci un cenno di saluto. Lui ricambiò, ma non smise di guardarmi in quel modo.
Ormai un bacio non era neanche vagamente immaginabile.
"Beh, mi sono divertito molto oggi. Mi piacerebbe uscire di nuovo con te. Che ne dici?" domandai con un po' di nervosismo passandomi una mano sulla nuca e ravviando i capelli.
Lei si guardò gli scarponcini, ma subito rialzò lo sguardo su di me sorridendo. "Certo, mi piacerebbe molto."
"Perfetto, allora ti chiamo stasera."
Clary guardò in direzione di suo fratello scoccandogli uno sguardo supplicante, lui sbuffò e per un attimo si girò a guardare i vasi di fiori che decoravano il viale d'ingresso. Approfittando di quell'attimo Clary si sporse verso di me e mi diede un delicato bacio sulla guancia.
"A stasera, allora," e si allontanò verso la porta di casa. Jonathan le mise un braccio attorno alle spalle e insieme entrarono.
Rimasi a guardare la porta anche quando si chiuse e solo dopo qualche secondo riuscì a muovere i primi passi e a dirigermi verso casa mia.
Ripensai a quel bacio: così casto e semplice, ma anche così pieno di significato. Lasciava intendere un seguito, come un invito a continuare per vedere cosa sarebbe successo dopo. Una promessa di qualcosa di più.

Entrai in casa e richiusi la porta dietro di me.
"Sono a casa!" urlai.
Sentì dei passi e vidi Isabelle scendere frettolosamente dalle scale.
"Allora? Come è andata? Ti piace? Vi siete baciati?" mi domandò a raffica avvicinandosi.
Le posai le mani sulle spalle. "Izzy, calmati. È andata bene. È una ragazza molto simpatica e sì, mi piace, ma non ci siamo baciati."
Il suo viso si piegò in una smorfia. "Peccato, però uscirete ancora vero?" domandò saltellando.
Sorrisi. "Lo spero." Mi avviai su per le scale dirigendomi verso la mia stanza.
Le pareti di fianco alla scala erano tappezzate di foto: i miei genitori il giorno del loro matrimonio, Alec appena nato, Isabelle da piccola che indossava i tacchi della mamma, Max il suo primo giorno di scuola, io mentre andavo in skateboard. Quasi tutti i membri della famiglia avevano capelli neri e occhi azzurri e la gente si era sempre chiesta come mai io fossi biondo e avessi gli occhi di un particolare color ambra che pareva quasi oro.
La ragione era che io ero stato adottato.
Poco prima della mia nascita, mio padre Stephen fu ucciso da una gang di strada e mia madre Céline, straziata dal dolore, si suicidò. I dottori però riuscirono a tirarmi fuori dal suo ventre poco dopo la sua morte e, anche se nacqui con un mese d'anticipo, sopravvissi. Poco tempo dopo fui dato in custodia a Maryse e Robert Lightwood e crebbi con i loro figli; dapprima Alec e poi, quando nacque, anche Isabelle. Quando avevo 8 anni poi, venne al mondo anche Max.
Nonostante considerassi i Lightwood la mia famiglia e all'anagrafe mi chiamassi Jonathan Christopher Lightwood, mi ero sempre fatto chiamare con il cognome del mio padre biologico, Herondale. In questo modo ho sempre pensato che almeno una parte dei miei veri genitori sarebbe potuta sopravvivere con me.
Aprì la porta della mia stanza e mi gettai di pancia sul letto tirando fuori il cellulare dalla tasca dei jeans. Andai nella rubrica e scorsi i nomi fino a trovare quello che cercavo: "Clary". Schiacciai il numero e mi portai l'apparecchio all'orecchio.
Lei rispose dopo tre squilli. "Pronto?"
Sentendo la sua voce mi comparve un sorriso sulle labbra. "Hey, Clary! Sono io, Jace."
Lei parve sorpresa. "Ciao Jace! Aspettavo la tua telefonata per stasera."
"Scusa, ma non ho saputo aspettare."
Parlammo per una ventina di minuti quando sentì in sottofondo che qualcuno chiamava Clary.
"Scusami, mia madre mi chiama per la cena. Devo andare." La sua voce era vagamente dispiaciuta. "Ah, quasi dimenticavo, ho ancora la tua giacca. Te la riporto la prossima volta che ci vediamo."
"Non preoccuparti, puoi tenerla se vuoi." Nell'attimo in cui pronunciai quelle parole me ne pentì. "Cioè, nel senso che... Insomma, se vuoi. Ok, ritiro quello che ho detto. Perché mai vorresti tenere la mia giacca?" Ma da dove cavolo uscivano quelle parole? Io, Jace Herondale, che balbettavo per una ragazza? Ma che diavolo mi stava succedendo?
Sentì il sorriso attraverso la sua voce. "Beh, in realtà mi piacerebbe tenerla. Ha un buon profumo. Sa di autunno."
Smisi di balbettare e sorrisi tirando un sospiro di sollievo. "Allora tienila pure."

A cena, mentre tutti discutevano degli affari propri, Isabelle se ne uscì con un: "Jace oggi è uscito con una ragazza," e mi scoccò uno sguardo malizioso.
Mia madre si girò verso di me. "Davvero? Perché non ce lo hai detto?"
"Beh," tentai di spiegare, ma Isabelle mi interruppe.
"E le ha regalato pure la sua giacca, quella di jeans chiara con gli strappi sulle tasche."
"E tu come fai a..." La guardai confuso.
"Wow, deve piacerti proprio. Quella non era la tua giacca preferita?" chiese Alec portandosi alla bocca una forchettata di patate lesse annegate nella salsa.
"Uh! Jace è innamorato!" esclamò Max e cominciò a saltellare sulla sedia.
"Cosa?! Ma se ci sono uscito una volta sola?"
"Sì, ma ci uscirai anche sabato." Isabelle mi guardò sorridendo e un'idea mi balenò in mente.
Sbattei con forza la forchetta sul tavolo e le rivolsi il mio miglior sguardo assassino. "Hai origliato la nostra telefonata?"
Lei fece un risolino e ritornò a mangiare la sua insalata.

Come annunciato da Isabelle, la settimana dopo uscì nuovamente con Clary. Questa volta, però, andammo a Central Park.
Passai a prenderla a casa sua con la moto, cercando in qualche modo di impressionarla.
Quando suonai il campanello aprì suo fratello.
Mi guardò dalla testa ai piedi, posando lo sguardo sulla mia giacca di pelle bordeaux e sui miei jeans neri strappati, poi lo rivolse oltre a me, sulla moto parcheggiata sul vialetto. "Quella è tua?"
Annuì e la sua espressione si rilassò.
"Gran bella moto. Vieni, entra. Clary arriverà tra un minuto."
Oltrepassai la porta e ci fermammo nell'ingresso.
"Allora Jace, Clary mi ha parlato un sacco di te."
Sgranai leggermente gli occhi. "Davvero?"
"Oh sì, negli ultimi giorni non ha parlato d'altro: 'Jace di qui, Jace di là, Jace mi ha portato al parco, Jace mi ha dato la sua giacca'. Penso ormai di conoscerti bene." Mi rivolse un sorriso. Non era poi così male come avevo pensato.
Poco dopo, Clary fece capolino dalle scale e quando mi vide mi rivolse un enorme sorriso. "Ciao!"
La osservai mentre scendeva i gradini: indossava gli stessi scarponcini della scorsa volta, una gonna a fiorellini rossi su sfondo blu con una fascia elastica in vita, una canotta bianca e, con mia piacevole sorpresa, la mia giacca di jeans con le maniche arrotolate sugli avambracci esili. Le stava larga, ma allo stesso tempo la portava benissimo. Era stupenda.
"Bene, io vi lascio andare," disse Jonathan lasciandoci libero il passaggio per la porta.
Ci dirigemmo fuori e Clary si bloccò quando vide la moto.
"Quella è tua?" Sgranò gli occhi. Io annuì.
Espirò rumorosamente. "Wow."
L'aiutai a indossare il casco e a salire sulla moto.
"Tieniti," le consigliai e lei allacciò le braccia attorno alla mia vita.
Arrivammo a Central Park e parcheggiai la moto sul ciglio della strada, assicurandola con la catena a un palo della luce e pregai gli angeli che nessuno le facesse del male. Era da quando avevo sei anni che tenevo da parte i soldi per comprarla e se le fosse successo qualcosa non me lo sarei mai perdonato.
Mi voltai e vidi Clary alle prese con il laccetto del casco.
Feci una risata. "Hai bisogno di aiuto?"
Lei annuì rassegnata, così mi avvicinai e le slacciai il casco.
"Sei così carina in questo momento." Con le nocche della mano destra le accarezzai la guancia e lei abbassò lo sguardo sorridendo e arrossendo. Le rialzai il viso con un dito e le sistemai i capelli che si erano leggermente spettinati durante il tragitto. Con una mano sulla schiena la guidai all'ingresso del parco.
Le ore passarono velocemente e perdemmo la cognizione del tempo. Passammo tutto il pomeriggio a parlare, prendemmo un gelato e risi quando lei si sporcò tutta la bocca di cioccolato. Con un fazzoletto la pulì mentre il suo viso diventava di un colore rosso acceso.
Nei giorni seguenti avevamo chiacchierato al telefono per ore, ma nonostante ciò non avevamo ancora finito gli argomenti di conversazione: parlammo di come era nata la sua passione per il disegno, di come io ero stato adottato, di come avessi passato undici anni della mia vita a sognare una moto e di come lei avesse conosciuto Isabelle.
Ad una certa ora ci ritrovammo a passeggiare per un enorme viale alberato. La magia della situazione era creata dai magnifici colori che le foglie avevano assunto: giallo ocra, rosso vermiglio, marroncino chiaro, e dalla luce che caratterizzava quella particolare ora del pomeriggio, quando sai che il tramonto sta per giungere inghiottendo il sole e trascinandolo via con sé sino alla mattina seguente.
Mi capitava a volte di pensare a quale canzone sarebbe stata adatta in una certa situazione, questa volta la più consona mi sembrò Smiling di Harry Gregson-Williams.
Guidato da quell'atmosfera magica e dalle note della canzone che risuonavano nella mia testa, misi una braccio intorno alla vita di Clary e la avvicinai al mio corpo. Lei mi guardò e mi fece un sorriso, il più bello che avessi mai visto.
Mi fermai di colpo e lei mi guardò confusa. "Che succede?"
Io la guardai come non avevo mai guardato nessuno e le accarezzai con il pollice lo zigomo mormorando. "Posso baciarti?"
La sua espressione cambiò e mi guardò con i suoi bellissimi occhioni verdi. Poi annuì leggermente e io avvicinai il suo viso al mio.
Mentre mi avvicinavo sentì il suo profumo: mele e vaniglia, un'inebriante combinazione che mi fece desiderare di diminuire ancora di più la distanza tra le nostre labbra. Quando finalmente le nostre bocche furono così vicine da sfiorarsi... il mio telefono cominciò a squillare.
"Non ci credo..." Riaprì gli occhi per ritrovarmi davanti una Clary ridacchiante.
"Avanti, rispondi." Si allontanò un po' da me, ma io me la spinsi di nuovo contro.
"Chiunque sia può aspettare." Le presi il viso tra le mani e il cellulare cessò di squillare. Mi avvicinai di nuovo per baciarla e il telefono riprese a suonare fastidiosamente.
Innervosito, tirai fuori dalla tasca il l'apparecchio e controllai il nome sul display: "Isabelle". "Isabelle? Sapeva che oggi uscivo con Clary, non mi avrebbe mai disturbato," pensai.
Allarmato, mi scusai con Clary e risposi. "Izzy?"
Dall'altro capo del telefono la sentì singhiozzare. "Jace..." La sua voce era soffocata e non riusciva a parlare. "Max..."


"Max, vado a fare una doccia. Se hai bisogno di me bussa."
Il ragazzino annuì continuando a guardare i cartoni animati e così la ragazza entrò in bagno.
Ne uscì una trentina di minuti dopo completamente vestita e con i capelli asciutti. Si diresse in camera sua e cercò la sua spazzola senza trovarla.
"Max, hai visto la mia spazzola?" esclamò, ma nessuno rispose.
La ragazza si diresse nella cameretta del fratellino, che trovò era vuota."Max?"
Lo cercò in soggiorno, poi in cucina.
"Max? Stai giocando a nascondino? Penso che tu sia ormai un po' troppo grande per questo genere di giochi."
La sua espressione però mutò completamente quando vide un foglietto con la calligrafia del fratellino sul tavolo da pranzo.
"Stavi facendo la doccia e non volevo disturbarti, sono andato in quel negozio di fumetti con il nome strano."
Il suo cuore fece un tuffo nel vuoto e, senza neanche rendersene conto, era già schizzata fuori dalla porta correndo in direzione della fumetteria.


Sfrecciai al doppio della velocità consentita e in pochi minuti arrivai sul luogo. Non stetti nemmeno ad assicurare la moto a qualcosa, era l'ultimo dei miei pensieri.
Clary aveva insistito per tornare a casa da sola in metropolitana quando mi aveva visto così sconvolto e avevo balbettato qualcosa sul dovermene andare.
Poco lontano da me erano raggruppate una ventina di persone che formavano una piccola folla, perciò non riuscì a vedere nulla oltre a loro. Mi feci largo spingendo malamente le persone raggruppate e nell'attimo in cui riuscì a scorgere la scena davanti a me mi immobilizzai.
In quel momento il mio cuore cessò di battere.
In mezzo alla strada era steso un bambino dai capelli neri, gli occhiali gettati sull'asfalto ad un metro e mezzo di distanza. Una macchina della polizia e un'ambulanza erano parcheggiate poco più in là e due uomini si stavano avvicinando al corpo del bambino con un grosso sacco nero di tessuto.
In quel momento non riuscì a pensare a niente. Tutto ciò che poco prima mi aveva affollato la mente ora era completamente scomparso: le foglie autunnali, il profumo di mele e vaniglia, la canzone di Gregson-Williams, la suoneria del cellulare, il panico provato durante la mia folle corsa.
La polizia cominciò a segnare il perimetro con un nastro giallo e nero con su scritto: "Scena del crimine, non oltrepassare", allontanando le persone che assistevano alla scena.
Delle parole mi giunsero alle orecchie: "Incidente d'auto... Il bambino correva... Non ha frenato in tempo... Che disgrazia..."
Poco più in là scorsi il corpo di Isabelle accartocciato contro la parete dell'ambulanza mentre un uomo le avvolgeva una coperta attorno alle spalle scosse dai sussulti.
Gli uomini con il sacco si chinarono sul corpicino e lo sollevarono per riporlo al suo interno.
Sentì un urlo agghiacciante che gridava il nome del bambino e solo quando mi ritrovai a correre verso i due uomini capì che era fuoriuscito dalla mia bocca. La mia corsa fu bloccata da un paio di braccia forti che mi strinsero le spalle fermandomi.
"Jace, calmati."
La voce di Alec mi arrivò alle orecchie e mi girai a guardarlo, pentendomene immediatamente.
Il suo viso era contratto in una smorfia di dolore, calde lacrime gli solcavano il viso e capì che stava tentando con tutte le sue forze di tenere lo sguardo lontano da Max. Sapevo per certo che quell'Alec forte, che mai nemmeno la più potente delle frecce avrebbe potuto scalfire, ormai era morto con il suo fratellino.
Rimanemmo a fissarci per parecchi minuti, dimenticandoci di tutto ciò che ci circondava, tentando disperatamente di salvarci e sostenerci a vicenda, di non cadere in quel vortice di dolore che attanagliava i nostri cuori.

Quella notte non tornai a casa. La passai fuori, girovagando per le strade di New York e trovando rifugio tra le radici di una grossa quercia che con i suoi rami frondosi mi offriva un parziale riparo dalla pioggia che scendeva a grandi gocce sulla città.
"Max. Fratellino, dove sei? Rimani qui con noi. Non lasciarci. Non lasciarmi."


Appena seppi la notizia mi precipitai a casa Lightwood. Suonai il campanello e pochi secondi dopo mi aprì Isabelle, o almeno, quella che pareva essere Isabelle. Me la ricordavo come una ragazza forte e spensierata, quella invece era l'immagine di una donna oppressa dal dolore per la perdita di una persona fondamentale nella sua vita. Appena la ragazza mi vide i suoi occhi si riempirono di lacrime e mi abbracciò stretta.
"Clary... Sei qui..."
"Non potevo lasciarvi soli, ho appena saputo. Mi dispiace così tanto." Mi sciolsi dall'abbraccio ed entrai nell'ingresso.
Prima che potessi emettere un solo suono Isabelle mi precedette. "Jace è di sopra, in camera sua. Puoi provare a parlargli, ma dubito che ti ascolterà. Non esce dalla sua camera da due giorni."
Esitai, non volevo lasciarla sola in quel momento così duro.
"Vai, io sto bene," interruppe i miei pensieri come se mi avesse letto la mente.
Le rivolsi un sorriso di incoraggiamento e mi avviai su per le scale. Trovai la porta di Jace quasi subito, era l'unica chiusa. Bussai delicatamente.
"Jace? Sono io, Clary. Posso entrare?"
Non ricevetti risposta. Bussai nuovamente.
Niente.
Spinsi la maniglia e mi accorsi che la porta era aperta, così entrai nella stanza.
Accasciato sul letto si trovava Jace, con le spalle rivolte verso la porta. Sembrava che stesse dormendo, ma quando mi avvicinai notai il suo respiro irregolare.
Cautamente mi sedetti di fianco a lui e con un po' di esitazione gli posai una mano sulla spalla.
"Jace?" lo chiamai di nuovo.
Lui non rispose.
Mi alzai e feci il giro del letto. Mi sedetti sul pavimento e lo guardai. Aveva gli occhi spalancati puntati nel vuoto davanti a sé. Due grosse occhiaie nere gli scavavano il viso e le guance erano lucide, come se avesse appena smesso di piangere. Non mi sarei mai immaginata di vedere un ragazzo come lui ridotto in quello stato.
Con la mano destra gli asciugai una lacrima che stava rotolando giù per il suo zigomo. Lui continuava a non guardarmi.
"Mi dispiace," sussurrai con voce rotta. Posai la mia fronte sulla sua e in quel momento lui chiuse gli occhi e si abbandonò ad un pianto liberatorio singhiozzando. Lo strinsi forte.

Nei giorni seguenti non ebbi più notizie di alcun membro della famiglia Lightwood, pareva che si fossero rintanati in casa. Provai a chiamare più volte Jace, gli mandai decine di messaggi chiedendogli se stava bene, ma lui non rispose mai.
Io ero a terra. Sia per il dolore per la famiglia Lightwood, sia per il fatto di starmi rendendo conto che ad ogni giorno che passava perdevo sempre di più quell'unico ragazzo che mi avesse mai donato un minimo di attenzione.
Un giorno poi, ricevetti una telefonata e il mio cuore sprofondò quando lessi il nome sul display: "Jace". Risposi immediatamente.
"Clary," La sua voce era roca, soffocata. "Ho bisogno di parlarti. Vediamoci al parco," e con ciò concluse la telefonata.
Nel giro di pochi minuti ero nel viale alberato e mi guardavo in giro alla ricerca di Jace. Lo trovai seduto tra le radici di un albero. Mi sedetti di fianco a lui e lo abbracciai.
"Come stai?" gli chiesi guardandolo negli occhi.
Lui ignorò la mia domanda ed evitò il mio sguardo. "Non posso più continuare a vederti."
Quelle parole mi colpirono come uno schiaffo in pieno viso.
"Per... Perché?" balbettai staccandomi da lui.
"Io... Io non posso. Dopo tutto quello che è successo non riesco a pensare a nessun tipo di rapporto, né con te, né con nessun altro." Mentre pronunciava quelle parole continuò a tenere lo sguardo basso. "Tu non c'entri niente. Sei una ragazza fantastica, una delle migliori che abbia mai conosciuto e io non posso darti quello che tu desideri. Non sono più me stesso. Ormai me ne sto rintanato nella mia stanza ventiquattro ore su ventiquattro e ho perso qualsiasi contatto con il mondo esterno. Ti prego, non rimanerci male. Sei una ragazza comprensiva, so che potrai capire." A quel punto sollevò lo sguardo su di me.
Non riuscì a far altro che annuire, sapevo che se avessi pronunciato una sola parola sarei scoppiata in lacrime. Mi chinai verso di lui e gli diedi un lungo bacio d'addio sulla guancia mentre gli occhi mi pizzicavano e un groppo si formava nella mia gola. Mi sfilai la sua giacca di jeans dalle spalle e gliela posai in grembo. Dopodiché mi alzai e mi avviai verso l'uscita, lasciando Jace sotto l'albero mentre le lacrime cominciarono a scorrere calde e rapide.
Guardando il terreno ricoperto dal fogliame non vidi più un magico tappeto dai toni autunnali, ma solo un ammasso di foglie marce e rinsecchite che mi intralciavano la strada.


Le settimane passarono e la mia vita scorreva come al solito: colazione in camera da letto, pranzo in camera da letto, cena in camera da letto, dormita per un paio d'ore, incubo, notte insonne. Avevo perso la voglia di vivere, avevo allontanato da me tutte le persone che mi stavano care.
Ognuno ha un diverso modo di affrontare i lutti: alcuni escono la sera e si ubriacano fino a dimenticarsi il proprio nome, altri si buttano nell'attività fisica e altri ancora piangono ma vanno avanti. Io invece me ne stavo steso sul letto a guardare il soffitto. È incredibile come la vita di un ragazzo di diciassette anni possa essere stravolta in questo modo da un giorno all'altro.
Un giorno però, non so nemmeno io come, trovai la forza di trascinarmi giù dal letto per andare a fare una passeggiata.
Tornai nel parco che ormai era diventato il mio posto preferito in tutta la città: così tranquillo, nessuno ti infastidiva e potevi allontanarti dal mondo per tutto il tempo che volevi. Passeggiai per il viale alberato. Le foglie ormai erano diventate sempre più secche e pendevano flosce dai rami degli alberi. La magia di quel posto era scomparsa.
Non sentivo Clary dall'ultima volta in cui ci eravamo visti, quando le avevo confessato che non avrei più potuto vederla. Era stata una scelta difficile da fare quella di lasciarla andare, ma sapevo che non avrei mai potuto renderla felice. Ero diventato un corpo senza vita.
Suo fratello Jonathan era venuto a parlarmi qualche giorno dopo quella conversazione, volendo sapere perché sua sorella era tornata a casa piangendo e balbettando il mio nome. Io gli avevo spiegato la situazione e lui mi aveva dato una premurosa pacca sulla spalla andandosene.
Non mi sarei mai aspettato che Clary la prendesse così male da tornare a casa piangendo, ma a quanto pare mi sbagliavo.
Passeggiando mi ritrovai a pensare a quello che mi aveva detto Isabelle una notte in cui mi ero risvegliato urlando dall'ennesimo incubo. Era entrata nella mia stanza e si era infilata sotto alle lenzuola con me prendendomi tra le braccia. Avevamo parlato di Clary e lei mi aveva confidato che secondo lei era stato un terribile errore lasciarla andare, poiché al mondo non esisteva nessun'altra ragazza che avrebbe potuto sopportare il mio dolore come lei.
Forse Izzy aveva ragione, forse era stato uno sbaglio, ma ormai il danno era stato fatto e non sarei riuscito a tornare indietro.

La notte seguente ebbi l'ennesimo incubo, ma quella volta fu diverso. Sognai Clary che mi guardava con i suoi occhioni verdi sorridendo. La avvicinavo a me e mi chinavo per baciarla, quando la terra sotto di noi cominciava a cedere e Clary mi scivolava via dalle braccia precipitando nel vuoto e urlando a squarciagola il mio nome.
Mi risvegliai bagnato di sudore e in quel momento capì tutto. Senza nemmeno accorgermene mi ritrovai a frugare nell'armadio alla ricerca di vestiti.
Pochi minuti dopo mi trovavo davanti alla casa di Clary. Era notte fonda e tutte le luci erano spente, tutte tranne una. Il cuore mi si riempì di speranza e mi guardai in giro. Mi avvicinai al vialetto di ingresso e raccolsi da terra alcuni sassolini levigati. Mi avvicinai il più possibile alla finestra dalla quale proveniva la luce e ne scagliai uno contro il vetro.
Niente.
Presi lo slancio e ne lanciai un altro.
Niente.
Mi preparai a lanciarne un terzo quando la finestra si aprì e ne fece capolino la chioma rossa di Clary. Avevo indovinato finestra, per mia fortuna.
Lei ci mise un po' per fare abituare gli occhi al buio, ma quando mi riconobbe si accigliò.
"Jace? Che ci fai qui? Sono le tre e mezza di notte," sussurrò per non svegliare nessuno della sua famiglia.
"Scusami, ma non riuscivo proprio ad aspettare. Ti devo parlare." Tenni il tono di voce basso.
"Adesso?"
"Adesso."
"Non puoi aspettare domani? Se i miei ti scoprono ti uccidono."
"Vuol dire che morirò stanotte, ma devo assolutamente parlarti prima." Un sorriso si fece strada sulle mie labbra, il primo da settimane. Lei, notando la mia espressione, si addolcì.
"Vengo giù io, aspettami." Con ciò, richiuse la finestra e poco dopo uscì dalla porta d'ingresso cercando di fare meno rumore possibile. Indossava un leggero pigiama di cotone azzurro estivo, non adatto alla temperatura di quella notte di metà autunno. Appena si avvicinò, le misi sulle spalle la giaccia di jeans che mi aveva restituito settimane prima per tenerla al caldo. La feci sedere sul prato accuratamente tagliato e mi misi accanto a lei.
Le spiegai tutto: il mio incubo, le parole di Izzy, i miei pensieri degli ultimi giorni, quello che mi aveva detto suo fratello.
Lei mi guardava attenta, rapita dalle mie parole.
Quando terminai il discorso, le sue spalle si rilassarono.
"Tutto ciò è per dirti che mi sono reso conto di aver commesso un terribile sbaglio a lasciarti andare. Come ha detto Izzy solo tu puoi aiutarmi a sopportare il mio dolore. Pensando a te mi dimentico di Max, e anche se è solo per un minuto o due è un grande passo in avanti. Io ho bisogno di te. So che siamo usciti solo due volte, ma valgono anche tutte quelle telefonate fino a notte fonda, quando non riuscivamo più a rimanere svegli e ci addormentavamo ancora in linea." Mi interruppi per rivolgerle un sorriso. "Io con te sto meglio, non vedi? Sto sorridendo, erano settimane che non sorridevo."
Lei tacque tenendo lo sguardo basso.
"Ti prego, di' qualcosa."
Sollevò lo sguardo su di me e dopo un attimo di esitazione mi si gettò tra le braccia facendomi perdere l'equilibrio. Finimmo a terra, sdraiati sul morbido tappeto d'erba. Lei ridacchio e si appoggiò al mio petto. Da quella distanza potei osservare le piccole imperfezioni della sua pelle che prima non avevo notato e la sottile cicatrice a forma di stella che le decorava la spalla.
La luna piena in cielo proiettava la sua pallida luce su di noi, illuminandoci.
Allungai una mano per sfiorarle la guancia e feci scorrere le nocche sul suo viso. Lei arrossì, ma questa volta non abbassò lo sguardo. Al contrario, si avvicinò a me e posò le sue labbra sulle mie. Dapprima fu un semplice contatto, un casto bacio a stampo. Le posai i palmi sulle guance e lentamente schiusi le labbra. A quel gesto, Clary aprì leggermente la bocca, quel tanto che mi bastava per baciarle il labbro inferiore. Dopodiché anche lei cominciò a muovere la bocca sulla mia. Il bacio si trasformò lentamente, diventando sempre più profondo e passionale. Riuscì a far passare la lingua tra le sue labbra e ad entrare in contatto con la sua. Il bacio durò ancora per qualche altro secondo, ma dovemmo staccarci per riprendere fiato.
Ci scambiammo uno sguardo adorante e poi lei si accoccolò sul mio petto, stringendosi tra le mie braccia. Sentì il suo fiato caldo sul lobo dell'orecchio destro e pronunciò poche parole.
"Mi prenderò cura di te."
Affondai il viso tra i suoi capelli inspirando il suo profumo: mele e vaniglia.
E in quella notte di luna piena un fiore sbocciò nel mio cuore, che riprese a battere.


Note dell'autrice:
Questa è la prima fan fiction che decido di pubblicare (mi sembrava la più decente tra quelle che avevo scritto), quindi vi sarei grata se poteste commentare la storia per dirmi se vi è piaciuta e per darmi eventuali consigli su come migliorare il mio stile di scrittura. Grazie!

  
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