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Autore: httpjohnlock    22/02/2015    4 recensioni
«When it will snow again.»
//I capitoli di questa raccolta sono stati scritti insieme a Miketta99 (tranne Snow). :)
Genere: Fluff, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Un po' tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note:
Parole: 4263;
Coppia: Mirco;
Capitoli: 4;
Rating: Verde;
Note: What if?

Snow

 



L'asfalto riposava sotto una coperta di candida neve di un bianco abbacinante.
Sembrava emanasse scintille.
Le saracinesche dei negozi erano abbassate mentre alcuni di loro avevano vetrine dotate di luci interne che mostravano le merci in vendita.
I palmi violacei dei venticinquenne sfregavano convulsamente contro la stoffa del pesante cappotto verde militare. Cercavano disperatamente calore in quella gelida sera di gennaio, con la sola compagnia del cuore altrettanto gelido del ragazzo.
Quel gelo, però, poteva essere trasformato in calore dal soffio caldo del ventenne, che indirizzava al liquido marroncino. Il ragazzino teneva stretta tra le mani una tazza blu contenente del cioccolato fuso.
Appena un sorso bollente gli attraversò la gola secca, fu scosso da un piacevole brivido.
Senza rendersene conto si ritrovò ad osservare il fumo che, generato dal cioccolato caldo, si espandeva nell'atmosfera creando delle buffe forme.
«Sembra un unicorno!» constatò.
«Un ricciolo...» e poggiò la tazza sul basso tavolino di fronte, dandosi mentalmente del bambino.
Sguaiatamente quasi si stese sul divanetto e si passò le dita affusolate tra il ciuffo corvino, ravvivandolo.
Sorrise.

Michael lanciò svogliatamente il mazzo di chiavi sul mobile più vicino; c'era la chiave che apriva la casa di Londra, quella di Los Angeles¹, quella di Parigi e infine la chiave dell'automobile.
Già, casa.
“Casa” per Michael era dove c'è chi ti ama, chi ti protegge, chi ti aspetta impaziente, e il cantautore casa sua non l'aveva mai trovata.
Si lasciò cadere a peso morto sul letto –inutilmente– a due piazze. Melachi, come se avesse percepito il senso di solitudine del padrone, si alzò dalla sua cuccia e saltò sul materasso accanto al ragazzo. Michael sorrise flebilmente nel vedere la sua cagnolina strofinare il muso sulla sua pancia; almeno aveva lei e la certezza che non lo avrebbe mai abbandonato.
Il cantante chiuse gli occhi, estenuato.
Era stufo di indossare quella maschera colorata sempre sorridente che soltanto quando usciva dalle pressioni della casa discografica e dagli schiamazzi dei fan, si sfilava.
Ed era nelle sue abitazioni dove si svolgevano le sue numerose lotte.
Si sentiva frustato.
Era appena tornato dagli studi della Universal Studios, dove gli avevano raccomandato di sbrigarsi con la scrittura delle canzoni altrimenti per settembre il suo secondo “figlio” non sarebbe stato pubblicato. Aveva spiegato gentilmente che in quei giorni non riusciva a scrivere nulla, il ché era vero.
Era passato così tanto tempo dall'ultima volta che Michael aveva scritto un nuovo brano che quasi non ne ricordava il momento.
Pensò quasi di ritirarsi.
Ma poi, lo voleva davvero? Voleva davvero distruggere il sogno che aveva fatto crescere per tanti anni?
No, che non lo voleva.
Aveva bisogno soltanto di un po' di riposo e qualcuno con cui condividere ciò che gli stava accadendo. Sì, aveva quattro fratelli, una madre e una band, ma i primi erano occupati con lo studio e il lavoro, Joannie non poteva avere altre preoccupazioni e i musicisti oltre ad avere le loro vite erano impegnati con gli arrangiamenti dei pezzi.
Michael credette di aver perso il suo spirito libanese: il coraggio di andare avanti nonostante le intemperie, il non abbattersi mai. Quella sua parte si era crogiolata in una scatola sprofondata in una fossa; bisognava che ci fosse qualcuno che scavasse per recuperarla.
Il ragazzo si lasciò cullare da Morfeo senza essersi neanche cambiato d'abito, con un solo pensiero in mente: trasferirsi. Londra iniziava a stargli stretta e magari cambiando paese sarebbe riuscito a schiarirsi le idee.


Qualche mattina dopo, Marco si svegliò di buon umore –come succedeva spesso in quel periodo. Da quando aveva lasciato Ronciglione e la casa natia, si sentiva finalmente bene. I suoi genitori non gli avevano mai fatto mancare niente, ma quella casa non riusciva più ad ospitare un ventenne² pieno di voglia di vivere e maturare. Un po' gli mancava la sua famiglia, ma la sua scelta l'aveva presa e non l'avrebbe cambiata.
Il ragazzo, alzatosi dal comodo lettino, si diresse in bagno e guardatosi allo specchio alzò un sopracciglio storcendo la bocca.
«Fijo mio, fa qualcosa perché, ceh... l'orrore» si raccomandò infilandosi una mano tra i capelli per metà sparati in alto e metà appiattiti dalla pressione del cuscino.
Dopo essersi spazzolato i denti ciabattò nella piccola cucina per prepararsi un caffè.
La sua casa non era chissà ché: un appartamento situato in via Livilla dotato di una cucina, un bagno e una camera da letto, ma per €250 al mese andava più che bene. Aveva anche trovato lavoro come barista a Frascati e come fonico.
Marco dopo aver bevuto una tazzina di caffè guardando i cartoni animati e aver sgranocchiato una manciata di cereali, andò a lavarsi il viso e a cambiarsi.
Si affacciò alla piccola finestra del bagno e notò le automobili coperti da un manto di neve.
Indossò un paio di pantaloni neri della tuta, una maglietta bianca con delle scritte rosse, una felpa grigia lasciata aperta e le sue adorate Converse bianche.
La sua tipica ambientazione per le sue lotte mattutine era sicuramente davanti allo specchio del bagno... e anche quella mattina accadde.
Marco cercò di dare una forma quantomeno decente ai suoi capelli con l'uso delle mani.
Ben presto una fila –che parve infinita– di imprecazioni riempirono la stanza creando una forte competizione tra il ragazzo e i suoi capelli.
«Sembro 'na gallina...» brontolò.
Il suo sguardo cadde su un tubetto di gel nascosto dal dentifricio.
«Ah-ah... mo 've metto a posto io.» annunciò con il sorrisetto di chi ha la vittoria tra le mani.
Aprì il tubetto ma lo trovò –con somma delusione– vuoto.
Rimase così sconvolto che guardò la scatolina verde per un po'.
«Fate schifo.» sbottò lanciando il tubetto e uscendo con veemenza dal bagno.
Si rifugiò in cucina.
«Vi odio.» disse ancora contro la sua capigliatura disordinata, camminando con rabbia intorno al tavolo.
Guardò l'orologio e quando vide che erano le 7:02 cacciò un urletto acuto.
«Porca troia, ecco, adesso Luca me fa 'n mazzo tanto, e sapete di chi è la colpa?» chiese più a sé stesso che alla casa vuota, «Vostra!» rispose, indicando la sua nuca.
Alla fine, coprì quella massa incolta di capelli con un beanie nero lasciato sul divano la sera prima.
Inserì la chiave nella serratura e appena questa scattò e la porta si aprì, si ritrovò una visione assolutamente perfetta e insolita.
Un ragazzo alto almeno 1.90 accompagnato da tre valigie lasciate in disparte accanto alla rampa di scale, stava armeggiando con una chiave cercando di aprire la porta.
Lo sguardo di Marco cadde inevitabilmente sul lato B del giovane che trovò deliziosamente perfetto.
Un pantalone bianco gli fasciava le gambe magre e indossava un giubbetto azzurro.
“Beh, almeno non sono l'unico che c'ha i capelli alla cazzo, oggi.” pensò guardando il cespuglio boccoloso del ragazzo; erano color nocciola e ogni ricciolo sembrava aver vita propria dato che andavano tutti in una direzione diversa.
Ridacchiò.
“O cazzo” fu il suo primo pensiero non appena vide la figura slanciata dello sconosciuto voltarsi.
Al riccioluto pareva aver visto l'ascesa della Madonna.
Sentì il suo corpo talmente leggero che inconsapevolmente spinse una valigia, che, inevitabilmente rotolò giù dagli scalini.
Marco cercando di recuperarla dal manico perse l'equilibrio. Immaginava già la fredda e funesta conoscenza della sua faccia con il pavimento, ma questo non accadde perché un esile ma forte braccio gli avvolse la vita evitandogli quel triste presagio.
La valigia rotolò fino a scontrarsi con la porta di ferro causando un forte fragore.
Il silenzio che ci fu dopo fu una delle situazioni più imbarazzanti a cui Marco ebbe mai preso parte.
Si trovò letteralmente tra le braccia di un ragazzo sconosciuto maledettamente attraente che non sembrava volerlo lasciar andare, e per di più aveva la schiena schiacciata sul suo petto.
La vicinanza fu così forte che percepì l'alito freddo sul suo collo, il ché gli provocò una miriade di brividi d'eccitazione.
Il riccio allentò la presa lasciando libero il ragazzino, il quale abbassò la testa imbarazzato.
«G-Grazie» balbettò, raccogliendo coraggio e alzando il volto.
“Sono in Paradiso o all'Inferno?” si domandò, guardando per la prima volta il volto dell'altro ragazzo. Il suo volto era tondeggiante e liscio e labbra sottili di un rosa chiaro.
Incontrò i suoi occhi e in quel momento la bocca di Marco prosciugò tutta la saliva.
Erano più che perfetti, quegli occhi. Erano grandi e innocenti come quelli di un bambino, ma ciò che colpì Marco fu soprattutto il colore: il nocciola si mescolava con il verde creando un mix paradisiaco. Osservando quelle magiche iridi, però, a Marco venne un senso di angoscia quando notò che erano ricoperte da una patina di tristezza.
«Di niente» rispose Michael. La sua conoscenza della lingua italiana si fermava alle cose basilari.
“Dio, che voce” pensò Marco. La voce di Michael oltre ad essere particolare era bellissima: acuta ma terribilmente dolce. L'accento straniero, poi, faceva impazzire il ventenne.
«Listen, can you help me?» domandò il libanese naturalizzato britannico.
«How can I help you?» chiese di rimando l'italiano, cercando di ricordare l'inglese studiato al liceo.
«I can't open the door» rispose con un sorrisetto palesemente imbarazzato.
«Oh, sure.» accettò il ragazzino allungando la mano destra. Michael stette per un paio di secondi boccheggiando e osservando le iridi color caffè dell'altro, aumentando l'imbarazzo tra i due.
«Ehm, the key...» sussurrò Marco, sorridendo.
«Oh, yes, sorry» ridacchiò nervoso e gli diede la chiave grigia.
La serratura era evidentemente difettosa dato che anche Marco dovette “lottare” per far aprire la porta color mogano.
Michael, dal canto suo restò imbambolato ad osservare quel ragazzo che pur essendo sconosciuto, gli trasmetteva una sicurezza particolare.
Marco si piegò leggermente per riuscire a vedere se nella serratura c'era qualcosa che bloccasse l'entrata della chiave, e Michael si morse voluttuosamente il labbro inferiore.
“Cristo Mika, sembri una dodicenne in piena crisi ormonale” si sgridò mentalmente.
Marco sentiva lo sguardo del riccio su di sé e le mani improvvisamente sudate e tremolanti.
“Concentrati sulla porta, concentrati sulla porta” ripeté come un mantra.
Michael guardava il volto del ragazzino contratto in un'espressione concentrata, tant'è che aveva la punta della lingua stretta tra le labbra.
Gli venne da ridere.
Marco lo udì e si voltò verso di lui con uno sguardo interrogativo ma un sorrisetto sul volto.
«Nothing, nothing, sorry» disse il riccio, scoppiando in una sonora risata.
Marco si sentì quasi morire. La pelle ai lati del naso leggermente a punta dell'altro si arricciarono in un modo che Marco trovò perfetto.
«Why?» domandò il ragazzo, riferendosi alla risata dell'altro.
«I don't know» rispose tra le risate.
Marco non poté evitare di ridere nel vedere quella scena.
“Che buffo” pensò.
Fatto sta che Marco riuscì ad aprire la porta e recuperò la valigia ancora schiantata sulla porta.
«Thanks» ringraziò con un sorriso che Marco ricambiò alzando le spalle.
Marco vide di sbieco l'interno dell'appartamento e notò che era bello impolverato.
«What's your name?» domandò il più grande.
«Marco, and you?»
«Michael, but you call me Mika» rispose.
Adesso l'avrebbe riconosciuto.
“Mika, mi piace.” pensò.
«Okay, Mika» disse sorridendo.
… o forse no.
«Listen, if you want I can...» gesticolò l'altro per far capire ciò che voleva dire, e il venticinquenne annuì, «the bags. I'm late for go to work» concluse.
“Oddio, sto flirtrando con 'sto tizio?”
«Oh, it's my fault. I'm so sorry» si scusò sinceramente dispiaciuto.
«Don't worry.»
“Eh, don't worry, don't worry 'sta minchia Mika, Luca me farà 'na cazziata infinita, me licenzia e me spara pure.” pensò.
Neanche sapeva in quale angolo di sé trovò il coraggio di fargli quell'offerta.
Il volto di Mika quasi si illuminò e Marco lo trovò –se possibile– ancor più bello. Per poco non perse l'equilibrio nel vedere il suo sorriso accompagnato da due incisivi un po' sporgenti e due fossette ai lati della bocca, che gli attribuivano un aspetto infantile.
«Anyway, yes, thank you.» rispose un po' titubante, sorridendo.
Marco ricambiò il sorriso e aiutò Mika a portare le valigie in casa.

Ci impiegarono due abbondanti ore.
La verità è che parlarono e risero tanto e misero poco in ordine. Senza contare il fatto che ogni tanto Michael con la scusa di essere stanco –incluse prese in giro scherzose da parte del suo aiutante– si fermava ad osservare il viso di Marco; quella mascella perfettamente scolpita, il naso un po' a punta, le labbra piene e i capelli disordinati mandavano il suo cervello a farsi fottere.
Per non parlare di quando Marco si spogliò del berretto e alcuni capelli si attaccarono alla fronte alta per il sudore.
Ma non era solo questo che faceva impazzire il povero Michael, oh no. Il frequente balbettare di Marco, il suo accento fortemente romano, la sua risata fragorosa e il suo riuscire a far ridere anche una persona in un periodo non proprio incline alla felicità, facevano si che “attrazione” fosse un eufemismo.
Dio, era perfetto.
Chiacchierarono di musica scoprendo che condividevano molti ascolti, ma Mika non rivelò la sua identità di cantautore, né Marco gli disse di vivere per la musica e di voler vivere di musica.


«Good!» esclamò Michael con le mani sui fianchi, osservando appagato l'ordinata miriade di colori nell'armadio.
«Good work» pronunciò l'italiano con un sorriso e passandosi una mano tra i capelli.
Michael sentì la mandibola cadergli sul pavimento.
Cosa non gli scombussolava dentro, quel ragazzino?
Si raccomandò di non affezionarsi a lui, avrebbe soltanto sofferto.
«Woul you like something to drink?» chiese.
«Yes, thanks.» rispose il ventenne.
“Forse è meglio così” affermò mentalmente il riccio, riferendosi al fatto che Marco non l'aveva riconosciuto o semplicemente non sapeva dell'esistenza di un cantante di nome Mika.

Dopo aver bevuto un succo di frutta, sgranocchiato qualcosa e aver chiacchierato un altro po', Marco decise di congedarsi dopo essersi ricordato di avere un lavoro.
«I have to go, now» disse con un po' di tristezza nella voce.
«Oh,>> sussurrò l'altro, «Sure» continuò alzandosi dalla sedia
Insieme raggiunsero la porta.
Marco si domandò dove fosse finito il sorriso che tanto caratterizzava il libanese. Infatti Mika aveva la testa china e le labbra serrate.
«Sono stato bene con te» disse l'italiano, alzando l'angolo destro delle labbra.
«What?» chiese confuso l'altro, arricciando il naso com'era suo solito fare quando era confuso o divertito.
«Ah, giusto... I... s-spent a good time with you.» disse un po' impacciato. Michael sorrise.
Gli venne voglia di baciarlo.
A Marco piaceva vedere il suo sorriso, specialmente quando era lui a provocarlo.
D'improvviso un forte imbarazzo si librò nell'aria.
Entrambi non volevano lasciarsi; stavano così bene insieme che separarli sembrava la punizione più crudele.
Marco oltrepassò la soglia.
«You were very helpful, Marco. Crazie, crazie, crazie! Mile crazie!» disse in un italiano buffo ma che Marco trovò irresistibile.
«Si dice “Grazie mille” e comunque di niente» rispose ridendo.
«See you soon, Marco» lo salutò. Il suo tono diventò improvvisamente malinconico e pronunciò il suo nome come se quello fosse un addio.
Mika gli disse che aveva affittato l'appartamento per quindici giorni perché aveva “bisogno di schiarirsi le idee”, ma Marco non osò chiedergli altro nonostante morisse dalla curiosità.
Ebbero la strana impressione che non si sarebbero rivisti.
«Bye, Mika» disse di rimando, sorridendo.
Michael con un ultimo sorriso con tanto di fossette chiuse la porta lasciandosi impressa sulle labbra quella pericolosa voglia di baciare le labbra rosee di quel ragazzino.
Che gli succedeva?

“Beh, non credo che mi sia dispiaciuto averti incontrato, caro Mika” pensò il ventenne, e sorridendo si ripose il beanie sul capo.
“A presto.” sussurrò tra le labbra per poi aprire il cancelletto di ferro.

Quel giorno, Marco si subì una bella strigliata dal proprietario del bar per colpa dei suoi frequenti ritardi.
Ma quella volta fu giustificato.
Oh sì.
Quel 18 gennaio conobbe un angelo.


I due ragazzi da quel giorno non si rincontrarono.
Marco andava a lavorare di mattina presto e Michael a quell'ora dormiva; quando Michael di sera usciva, Marco tornava a casa.
Di certo nessuno ebbe il coraggio di dare all'altro un appuntamento o qualcosa di simile, ma c'era un costante bisogno di essere uno di fronte all'altro, di nuovo.
Di affogare uno nelle iridi dell'altro.
Di ridere insieme, forte, mischiando le risa.
La neve, poi, ormai era un ricordo.

Un giorno, però, quando Marco stava uscendo per andare a lavoro, dall'appartamento del cantante si udì flebilmente una voce.
“Sembra la sua voce, ma...” pensò, avvicinando l'orecchio alla porta.
La voce incredibilmente simile a quella di Michael cantava una canzone che intonava più o meno così:
“I could put a little stardust in your eyes, put a little sunshine in your life. Give me a little hope you’ll feel the same and I wanna know will I see you again. Will I see you again.”
Dal falsetto inconfondibile, Marco scoprì che a cantare era il venticinquenne.
Ma quella voce, cazzo, quella voce l'aveva già sentita... ma dove?
Marco si lasciò andare con la schiena contro il muro, facendosi cullare da quella magnifica voce.
E poi, quelle parole... sembravano le avesse scritte lui.
Per Michael.
Quando la voce cessò, Marco mise da parte la sua innata timidezza e decise di chiedere spiegazioni.
Doveva sapere.
Premette il pulsantino nero e un “dlin dlon” risuonò nel corridoio.
Michael si chiese chi poteva essere alle 6:40 del mattino se conosceva soltanto la proprietaria dell'appartamento e... oh, no.
Quando aprì la porta la scena che ebbe davanti non gli parve reale: il ragazzo che aveva popolato prepotentemente i suoi sogni era lì davanti a lui? Per giunta alle 6:40 del mattino?
«E-E» non riuscì a terminare il saluto perché Marco si auto invitò in casa, costringendolo ad arretrare.
«You are Mika! That Mika... Grace Kelly!» eslcamò in un misto di sorpresa e... rabbia?
«I'm caught red-handed» disse un po' scosso dall'intraprendenza del ragazzino.
«Why didn't you tell me?» domandò. Michael chiuse la porta in legno e fece un gesto per invitare Marco ad accomodarsi.
«I... I'm sorry, Marco.» si scusò abbassando il capo.
«No, no, I'm sorry for-for coming there»
«It's okay.» disse con un mezzo sorriso.
Calò il silenzio.
«I like your song.» ammise Marco grattandosi il capo, ponendo fine ai quei secondi di silenzio snervante.
«Oh... really?» chiese Michael, con un sorriso stupito.
“Se solo sapesse che l'ho scritta pensando a lui...” pensò.
«Sure... and... I» si fermò con un po' d'esitazione ma lo sguardo curioso di Mika lo incoraggiò a continuare, «I l-love your song and I often listen your music when... I-I'm make the cocktail, but I didn't r-recognize you because I'v never seen your face... i-in this moment I'm feel e-embarassed...» spiegò con un sorrisino nervoso.
«Why?»
«Beh... you are a very popular singer...»
Michael sorrise quasi intenerito.
«Do not feel embarassed, Marco. I'm a boy like you. Anyway, thanks.» Ogni volta che Michael pronunciava il suo nome una scarica di brividi lo percorrevano. «And you?»
«What?»
«Do you write songs?»
Marco questa volta rispose senza aver paura di essere giudicato.
«Do you sing?»
«Yes.»
«Oh, it's beautiful!» esclamò alzandosi e battendo le mani. Marco lo guardava dal basso, confuso ma divertito.
«Oh, no!» Rispose, capendo la sua muta richiesta.
«Oh, yes! Daje Mengoni» disse sorridendogli. Quel “daje” insegnatogli da Marco stesso, lo fece sorridere.
Mika sembrò un bambino che stava convincendo la mamma a comprargli un giocattolo a cui teneva tanto.
Era irresistibile.
«Please, Marco!»
«Okay, okay!» Michael a quella risposta affermativa iniziò a saltellare allegro facendo ridere Marco.
“Se facendo lo stupido riesco a farti ridere così, non farei altro.”
«I sing “Almeno tu nell'universo”.»
Marco si alzò in piedi mentre Mika si sedette aspettando impaziente sempre con quel delizioso sorriso sulle labbra.

Mentre Marco cantava cercando di non pensare al fatto che di fronte a lui c'era un cantante di fama internazionale, nonché una persona per la quale provava qualcosa.
Cantava, cantava a voce bassa e con gli occhi chiusi.
Michael non avrebbe capito ciò che la canzone recitava ma Marco gliela dedicò ugualmente.
Il riccio aveva gli occhi sbarrati e le labbra socchiuse dallo stupore; mai avrebbe pensato che quel ragazzino così imbranato potesse cantare così!
Rimase folgorato da quella voce leggermente rauca, sensuale ma contemporaneamente dolce.
Marco era come la sua voce: tenero e dolce, ma sexy da morire. In più aveva una tecnica e un'estensione pazzesca.
“Cristo, come canta.”
Al ritornello una lacrima solcò la guancia liscia del cantautore.
Quella canzone gli entrò dritta nel cuore, abbracciandolo e riscaldandolo. Si sentì sciogliersi... era indescrivibile quanta passione Marco ci stava mettendo e quanto era emozionato l'altro ragazzo.
Il ritornello finì e con lui anche la voce di Marco cessò.
Le sue palpebre si alzarono scoprendo le sue iridi color caffè lucide.
Si avvicinò a Michael non appena vide le sue mani sul viso e le spalle alzarsi e abbassarsi freneticamente.
Stava piangendo?
«M-Michael? Are you... fine?» gli chiese.
Dalla gola di Mika fuoriuscì un mugugno gutturale.
«Mika...» Marco era seriamente preoccupato, così gli poggiò una mano sulla spalla destra.
A quel tocco, Michael tolse le proprie mani dal viso e con le braccia circondò il corpo del ragazzo; gli venne quasi istintivo rifugiarsi tra quelle braccia tanto bramate.
Marco fu visibilmente sorpreso da quel gesto che parve disperato, ma ben presto circondò il suo corpo, stringendolo a sé.
«Yes. Yes, I'm fine.» sussurrò Michael, ancora in lacrime. Ed era vero, quella volta era vero.
Stava bene.
Quella casa tanto cercata negli anni l'aveva appena trovata.
Era entrato in quella casa, aveva serrato la porta impedendo l'entrata di chiunque.
Non sarebbe uscito.
Ora c'era dentro.
Michael Holbrook Penniman Junior aveva appena trovato la sua casa.


Per Mika era arrivato il momento di partire.
Ma come poteva partire, lasciare quella casa che finalmente aveva trovato e ritornare al passato?
Non voleva e non poteva.

Giunse in aereoporto insieme a Marco.
Il momento che tanto temevano era arrivato, e nessuno se ne rese conto fino ad allora; infatti, quella settimana passò troppo in fretta tra risate, pianti, serate passate insieme, musica, film e cibo.
Nessuno seppe cosa dire.
Vollero solo trascorrere quella settimana ancora e ancora.
Una lacrima fredda si mescolò ai fiocchi di neve che presero a scendere sulle loro teste.
«Marco...» sussurrò Michael, dispiaciuto Odiava vedere l'espressione sofferente e le lacrime scendere sul volto angelico del ragazzino. Posò una mano su una guancia e la accarezzò delicatamente.
Ma Marco a quel tocco pianse più forte. Gli sarebbe mancato così tanto quel dolce tocco.
«Sing for me again, Marco.» sussurrò improvvisamente, facendo tremare il ragazzino. «Please.»
Marco alzò il capo incrociando lo sguardo del libanese: era affranto: il volto contratto in un'espressione indescrivibile, le sopracciglia aggrottate.
Oh, no.
Marco aveva le labbra infreddolite, i capelli che parevano esser stati vittima di un'esplosione di una bomba e la gola secca bloccata da un nodo che non ne voleva sapere di sciogliersi come la neve sul suolo, ma si promise di cantare.

Fammi respirare ancora,

portami dove si vola,
dove non si cade mai.

Lasciami lo spazio e il tempo
e cerca di capirmi dentro.

Scrisse quella canzone il giorno prima, pensando al ragazzo che aveva di fronte.
La sua voce era rotta per via delle lacrime, ma non importava.
Non in quel momento.

Dimmi ogni momento che ci sei, che ci se, che ci-

Michael scosse la testa facendo confondere il ragazzo.
La voce di Marco non ebbe il tempo di continuare la frase perché le labbra di Mika si poggiarono su quelle del ragazzo.
“Sto sognando?” si domandò mentalmente.
Le labbra di Michael erano fisse tra le sue come se volesse imprimere nella pelle la morbidezza, la forma e il sapore.
Marco sarebbe finito sicuramente sull'asfalto se non fosse stato per Michael che gli avvolse il corpo con le braccia.
Si sentì così leggero in quel momento che credette di esser morto.
Non dava peso alle persone munite di valigie che li superavano con passo svelto.
Si sentiva in una stanza completamente vuota.
C'erano solo loro due, in quel momento.
La bocca di Marco era come anestetizzata, immobile, ma quando le labbra morbide di Michael si mossero, queste si scongelarono.
Mai avrebbe creduto che quelle labbra a cuoricino tanto agognate si sarebbero unite con le sue.
Si sentirono così bene.
Con i petti a pochi centimetri di distanza, le labbra incollate le une sulle altre, gli occhi serrati, le mani grandi di Marco che accarezzavano quasi impercettibilmente le guance del venticinquenne.
Michael, ormai, si era innamorato di quella bocca che sapeva di caffè zuccherato... o forse si era solamente innamorato del proprietario di quella bocca perfetta.
Sarebbero stati tutta la vita a baciarsi, ma purtroppo la voce fastidiosa della hostess comunicò il volo imminente costringendoli a staccarsi.
Marco lasciò il volto di Michael mentre quest'ultimo lo abbracciò forte.
«Is it a goodbye?» domandò il ragazzino.
Il venticinquenne sciolse l'abbraccio accogliendo il volto mascolino del ragazzo tra le mani.
«No, no, no, no, no. We'll see...» alzò la testa e guardo in alto: la neve non si era fermata. Era come il loro rapporto: non sarebbe finito con quel bacio. «When it will snow again.» concluse, sorridendo.
Ogni volta che i loro sguardi si incontrarono, la neve faceva loro compagnia.
Anche Marco sorrise.
«Allora... alla prossima nevicata?»
«What?»
Marco scoppiò a ridere.
Neanche seppe spiegarsi il motivo.
«Until the next snowfall?»
«Ala prosima nevicata.» ripeté Michael, sorridendo.

Dopo un ultimo –purtroppo breve– abbraccio, Michael dovette raggiungere l'aereo.
Salutò il il ragazzino con una mano e sfoderò il più bello dei sorrisi che venne dolcemente ricambiato.
Le porte si chiusero e Marco restò ancora qualche secondo ad attendere.
Attendere cosa, poi?
Forse sperò che Michael ritornasse e lo baciasse ancora e ancora, senza mai fermarsi.
Scosse la testa, ritornando sui suoi passi.
“Alla prossima nevicata, Michael.”
Sorrise.



¹: non so nel 2008 se Mika avesse una casa a L.A.... licenza poetica, lol.
²: so che Marco è andato a vivere da solo a diciassette/diciotto anni... seconda licenza poetica!


Saaalve!
E da un po' che non mi faccio vivo, vè?
Anyway, sono ritornato, questa volta con una collaborazione con una mia amika:
miketta99 c:
(Ti voglio bene, sistah.)
Saranno 4 capitoli autoconclusivi sui Mirco, ma che sono in qualche modo legati da un tema: i fenomeni atmosferici.
Dato che non sapevamo in quale account postare la raccolta abbiamo deciso di postarla sui nostri account ma così:
una mia e una sua sul mio account e viceversa.
Quindi, siete obbligati ad andare a trovarla! *risata malefica*
Ho anche una cosa da precisare sul titolo della raccolta: è una frase de "Il regalo più grande" dove noi due abbiamo diviso una frase in due parti così una l'avrà lei e una io. :)

In questo periodo ho attraversato un periodo odioso: il blocco dello scrittore.
Ero a scuola e puff, ho iniziato a scrivere sul banco (che trasgry) l'introduzione di questa os.
Non vedo l'ora di ricevere tanti pareri diversi, specialmente critiche negative (costruttive)! :)
Boh, spero vi piaccia.
Alla prossima,
xo

 
  
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