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Autore: Mokusha    23/02/2015    2 recensioni
"Siamo entrambi talmente distrutti. Devastati. Ci faremmo solo del male, cercando di guarirci"
"Ma io non voglio guarirti." sussurrò. "Voglio amare ognuna delle tue crepe. Ognuno dei tuoi frammenti."
Genere: Angst, Drammatico, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Nuovo Personaggio, Owen Hunt, Un po' tutti
Note: Lemon, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nel futuro, Contesto generale/vago
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CRACKS.

I.
WHAT THE SKY CRIES.


22 novembre 2014, Kabul, Afghanistan.

497° giorno.
Owen lo sapeva. Sapeva che quello era esattamente il giorno numero quattrocentonovantasette. 
Lo aveva imparato anni prima, in Iraq. Contare i giorni, segnarli, scriverli, era l’unico modo per non impazzire, in guerra. L’unico modo per vedere il tempo scorre, per accorgersi di vivere, in un mondo fatto di bombe, e attacchi, e ferite, e sangue, e urla, tante, tante urla, e morte. Morte, morte, morte, morte. Scandire le giornate era la sola via per rimanere aggrappati al mondo reale, illudendosi, fingendo, che quello in cui stava vivendo non lo fosse, che non ci fosse nulla di vero, quasi come se si trattasse di una realtà alternativa da cui estraniarsi, ignorandola, rinnegandone l’esistenza.



Quattrocentonovantasette giorni e qualche settimana prima, Grey-Sloan Memorial Hospital, Seattle.

“Stai scherzando, vero?” Callie Torres guardava stupefatta il suo superiore, che si limitò a scuotere la testa, tranquillo.
“No, Callie, non sto scherzando. Ho già avviato tutta la documentazione necessaria, darò l’annuncio ufficiale la settimana prossima, per questo mi auguro che tu possa accettare la mia offerta.”
“Ma… Owen.” protestò la dottoressa “Non puoi mollare tutto così, e non puoi prendere una decisione del genere alla leggera. Si tratta dell’ospedale, della tua vita, e…”
“E’ proprio questo il punto. Quest’ospedale non è più la mia vita da molto tempo ormai. E’ scorretto che io continui a dirigerlo. Ho bisogno… Ho bisogno di andare via. Per un po’.”
“In Afghanistan?” sbottò Callie “Credi che ritroverai te stesso in Afghanistan?”
Il dottor Hunt scrollò le spalle.
“Lì hanno bisogno di me.” spiegò.
“Ma anche qui!” protestò lei. “Anche l’ospedale ha bisogno di te, noi abbiamo bisogno di te!”
“E’ qui che ti sbagli, Torres.” replicò Owen “L’ospedale ha bisogno di un capo di chirurgia, non di me. E sono certo che tu potrai benissimo…”
“Io non sarò il nuovo capo di chirurgia. Toglitelo dalla testa.”
“Questa è la mia decisione.”
“Me lo stai imponendo, Hunt? Perché ti informo che…”
“Non vorrei che tu mi mettessi in una posizione tale da importelo, Callie. Ma mi piacerebbe moltissimo che accettassi.”
“Ma qualcosa di cui discutere con il consiglio?”
“Ne ho già discusso con il consiglio, e tutti si sono mostrati d’accordo. Sei la persona giusta per dirigere quest’ospedale in mia assenza.”
“Anche io faccio parte del consiglio, e non ricordo che qualcuno ne abbia mai parlato con me…”
“Lo sto facendo adesso.”
“Quando ormai è già tutto deciso!” puntualizzò Calliope, stizzita “Mi stai mettendo davanti ad un fatto compiuto, e io non credo di…”
“Manca solo il tuo consenso, Callie. Non voglio costringerti a fare qualcosa che non vuoi fare. Ma sarei molto, molto felice che mi dicessi di sì. Sarebbe solo temporaneo.”
La dottoressa lo guardò. Owen ricambiava il suo sguardo, in attesa. 
“Quando hai intenzione di partire?”
“Tra un paio di settimane.”
Sospirò.
Owen le piaceva. Era un ottimo medico, e un buon amico. Non poteva negare la solitudine, e la desolazione che lo circondavano da quando Christina se n’era andata. Lui aveva fatto del suo meglio per superarlo, per nascondere, ed insabbiare le ferite che il fallimento del matrimonio e la partenza di lei gli avevano inflitto. Ma Callie conosceva la solitudine fin troppo bene perché le sfuggissero.
“Perché io? Ci sono molti altri chirurghi qualificati in questo ospedale.”
“Perché” cominciò Owen “Sei brillante, E forte. E volitiva. Sei uno dei medici più appassionati con cui mi sia mai capitato di lavorare. Credo che questa possa essere un’occasione perché tu ti renda conto di quanto vali. Perché, dottoressa Torres, tu vali molto.”
Callie fece una smorfia.
“L’ho sempre detto che ci sai fare con le donne.” borbottò.
Owen sorrise.
“Accetti, dunque?”
Lei sopirò, guardando il modulo che lui le aveva messo davanti. Esitò ancora qualche istante, prima di impugnare la penna e firmarlo.
“Sì, Hunt.” rispose, fintamente spazientita. “Accetto.”


 490° giorno, un po' più tardi.

Se ne stava steso nella sua branda, gli occhi puntati al soffitto della sua stanza nella basa americana a Kabul. Non sapeva che ore fossero, era ancora buio. Il rumore delle bombe che esplodevano, molti chilometri più in là, dove lui non sarebbe potuto arrivare, echeggiava sordo.
Quando aveva affidato l’ospedale alla dottoressa Torres e aveva lasciato l’America per l’Afghanistan, credeva di essere pronto per la guerra.
Aveva già vissuto l’Iraq.
Aveva già sperimentato, visto, sentito cose mostruose.
Ma l’inferno di quei quattrocentonovantasette giorni era stato ben peggiore. 
E nonostante i suoi sforzi di resistere, di rimanere umano, alla fine aveva ceduto.
La guerra, l’orrore, erano scivolati dentro di lui, soffocandolo, annientandolo, ed ora si sentiva come un automa pieno di ingranaggi guasti
“Hunt!” 
Owen sobbalzò, al suono del suo nome, che risuonò come uno sparo nel bianco vuoto dei suoi pensieri. Fissò il soldato che l’aveva chiamato.
“Vieni. Una delle nostre camionette è stata attaccata mentre faceva evacuare una scuola a poche miglia da qui. Ci sono molti feriti.”
“Anche bambini?”
“E’ probabile. Muoviti, stanno arrivando.”
Il Maggiore scattò, esattamente come era stato addestrato a fare. Afferrò la borsa del primo soccorso, e seguì il suo collega all’esterno della palazzina.
Si stava dirigendo in fretta verso lo spiazzo fuori dalla base, quando lo sentì.
Click.
Quel click.
Un suono appena percepibile, terrificante, agghiacciante.
I secondi cominciarono a scorrere lenti, mentre i suoi pensieri impazzivano, guidati dall’istinto di sopravvivenza, folle, incosciente, che si disperava per trovare un modo per scampare al disastro imminente.
Quel click, il rumore di una mina innescata.
Owen avrebbe voluto disperatamente avere qualche speranza a cui aggrapparsi. Nessuno si era accorto che era rimasto indietro, freddato, immobile bloccato.
Lentamente, mentre ogni singolo nervo del suo colpo si tendeva, e i battiti del suo cuore rallentavano quasi fino a bloccarsi, cercò di spostare il tutto il proprio peso sul piede salvo, e poi, scattò all’indietro.
Fu questione di attimi, il fuoco lo investì, la luce lo accecò, e poi fu buio.

26 novembre 2014, Grey-Sloan Memorial Hospital, Seattle.

Pioggia.
C’era sempre così tanta pioggia, lì a Seattle.
Ma a lei non dispiaceva. Il rumore della pioggia era rassicurante. Quasi confortevole.
“Dottoressa Carter…” la voce del dottor Morris la riportò alla realtà.
“Nicole” sussurrò la giovane moretta “La prego, mi chiami Nicole.”
Il dottore sorrise.
“Mi fa piacere che lei voglia che io la chiami per nome, dottoressa Carter, ma le ho già spiegato che tendo a mantenere un rapporto piuttosto distante con i miei pazienti.”
Nicole sospirò, tornando a guardare tristemente fuori dalla finestra dello studio del suo psicologo.
“Dottoressa, la sua ora è quasi finita e lei non ha proferito parola. Mi pare quasi di commetterle violenza stando qui a guardarla senza poter far nulla per aiutarla E’ già la quarta seduta.”
La ragazza si strinse nelle spalle, abbassando lo sguardo.
“Mi dispiace, dottor Morris, ma non mi va di parlare. Non ancora, credo.”
“Dovrò informare la dottoressa Torres, ne è consapevole?” 
Nicole annuì, mesta.
Il silenzio era la sua arma migliore. La proteggeva. Non poteva parlare, perché se  si fosse fermata anche solo a pensare a cosa dire, sarebbe crollata, e le macerie di sé stessa l’avrebbero schiacciata definitivamente, senza lasciarle scampo.

Il trillo del suo cercapersone la rianimò.
Scattò in piedi
“Dottoressa, non abbiamo ancora finito!” esclamò lo psicologo.
Ma Nicole si era già precipitata fuori dalla stanza, infilandosi in fretta nell’ascensore.
Quando uscì, sul tetto dell’ospedale, in attesa dell’elicottero trovo Meredith e la Bailey.
“Cos’abbiamo?” domandò la ragazza.
“E’ un soldato, in arrivo dall’Afghanistan.”
“Afganistan?”
Meredith annuì.
“Non sappiamo molto.” urlò, per coprire il rumore dell’elicottero che si avvicinava “Solo che è stato colpito da una mina qualche giorno fa. Gli è stata prestata assistenza in un ospedale di Kabul, ma nel suo fascicolo era espressamente scritto che in caso di incidente grave venisse rimandato qui a Seattle. Hanno cercato di stabilizzarlo prima di farlo imbarcare, ma durante il volo da Kabul ci sono state delle complicazioni. La dottoressa Torres.”
“C’è qualcuno dei nostri con lui?” si informò la Carter.
“La dottoressa Torres. Purtroppo a causa del diluvio la comunicazione continuava a saltare, quindi non abbiamo molte informazioni sulle condizioni del paziente.”
L’elicottero era ormai atterrato sulla pista dell’ospedale, i paramendici stavano facendo uscire la barella.
“Uomo, quarant’anni, bianco, ferite da…” uno dei giovani aveva cominciato ad elencare le informazioni preliminari, quando Callie saltò giù dall’elicottero, in lacrime sconvolta.
“Hunt!” singhiozzò “E’ Owen Hunt.”



Note dell'autrice: ehm, allora. Salve. E' la prima volta che pubblico in questo fandom,  nonstante io mi faccia straziare il cuore segua la serie tv già da qualche anno. E dal momento che io/angst=OTP e angst/GA sono praticamente sinonimi, per il male di tutti eccomi qua, con questa storia che mi gira in testa già da un po', ovviamente con un inizio pieno d'allegria, fiori, unicorni, zucchero filato e arcoblaeni.
Naturale.
Ciancio alle bande, spero che questo capitolo non vi induca a tirarmi le frittelle avanzate dal carnevale, e che possiate lasciarmi qualche parolina su cosa ne pensate.
Nei prossimi capitoli vi farò conoscere meglio Nicole, un personaggio a cui tango moltissimo e che spero possiate apprezzare anche voi.
A presto, un bacio!


Mokusha
   
 
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