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Autore: lumieredujour    24/02/2015    1 recensioni
La vita è una questione di scambi, do ut des così come dicevano i latini.
Anna e Alice si trovano davanti una vita che sa solo prendere e mai dare, perciò decidono di rendere unico il dono che hanno sempre avuto: l'un l'altra.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Do ut des

Spalanco gli occhi in preda al panico, cercando quell’aria che fino a qualche attimo prima sembrava mancare. Nel buio della mia stanza volgo lo sguardo a sinistra e, vedendo la mia sorellina minore dormire, mi rilasso leggermente.

Era solo un incubo.

Cercando di fare meno rumore possibile, mi alzo dal letto per andare in bagno, lasciandomi dietro le impronte dei miei piedi caldi sul pavimento freddo.
Accendo la luce e, dopo essermi spruzzata un po’ di acqua sul viso, guardo stanca lo specchio, riflettendo sul fatto che a sedici anni una persona non dovrebbe sembrare così vecchia.

Delle pesanti occhiaie circondano i miei occhi rimpiccioliti dal sonno e la mia labbra sono piene di piccole ferite, causate dalla brutta abitudine che ho di mordicchiarle. La mia pelle è biancastra, senza vita e l’ovale del viso è un po’ scavato. Non sto vivendo una bella adolescenza.

Sospirando, mi avvio verso il mio letto, sperando di trovare la forza per riaddormentarmi, quando sento delle voci provenire dalla camera dei miei genitori.

-Non puoi pensare le cose che stai dicendo, Giacomo. Semplicemente non puoi- sussurra mia madre, un sussurro rotto e carico di frustrazione.

-Se l’ho detto, sai che lo penso. Non ce la faccio più, sei una carceriera per me- replica gelido mio padre, aprendo la zip di un qualcosa.

La porta è chiusa, perciò mi ci accovaccio vicino e cerco di ascoltare la loro ennesima litigata. All’inizio, i miei genitori litigavano sempre scherzosamente, scambiandosi battutine ironiche, ma da qualche tempo a questa parte lo scherzo aveva lasciato il posto alla tensione, le battutine erano diventati attacchi veri e propri e alla fine non riuscivano a non rinfacciarsi tutti i loro rimpianti, gridando fino a non avere più aria nei polmoni.

-Ma questa lo sai, è solo una crisi passeggera. Io e te possiamo aggiustare tutto, possiamo riportare il nostro rapporto a com’era prima- continua imperterrita mia madre, sembrando sempre più vicina alle lacrime.

-Come puoi aggiustare tutto questo? Non c’è niente di rotto. Semplicemente i miei sentimenti per te sono cambiati, la nostra relazione è arrivata al suo capolinea e non riesci a darmi più nulla che mi emozioni- un attimo di silenzio, in cui sento solo il respiro affannato di uno dei due –non ti amo più e questo lo sai. Quello che abbiamo avuto è stato bello, ma è finito. E io ho voglia di ricominciare ad amare qualcun altro-

-E alle nostre bambine? Non ci pensi a loro?-

-Sono ormai grandi e io non sono mai stato un bravo padre. Ogni volta che cerco di avvicinarle, si ritraggono impaurite di chissà cosa e io sono stanco di loro, delle loro moine e dei pianti. Giada, sono stanco di tutto-  alza la voce, ringhiandole contro come una bestia.

-Non gridare o le sveglierai- è l’unica cosa che riesce a dire mia madre, ritrovando un po’ di vivacità.

Appoggio la fronte contro il muro, cercando di fermare le lacrime che sento stanno per uscire. Questo mia madre non lo sa, ma io e Alice ci siamo svegliate più e più volte, sentendoli gridare nella stanza accanto, guardandoci affrante da un letto all’altro. In molti casi, la mia sorellina cercava conforto nel mio letto e io le accarezzavo la testa dicendole che tutto sarebbe andato meglio, che mamma e papà si amavano tanto e che era semplicemente un periodo non molto bello della loro relazione.

-Facciamo una cosa: io oggi me ne vado, sparisco per un po’ così non ci ascolteranno più litigare, così non rischierò più di dargli fastidio-  sento un’altra volta il rumore di una zip, capendo che papà ha riempito un borsone con dei vestiti, corro in camera mia cercando di fare il meno rumore possibile.

Entro nel letto con gli occhi sgranati, trattenendo quasi il respiro per paura che mi abbia vista passare dalla loro camera da letto. Dopo non molto, sento la porta di casa aprirsi e mia madre gridare il nome di mio padre.

“Se ne è andato davvero” è tutto quello che riesco a pensare e per un po’ rimango a fissare la finestra, cercando inutilmente di dormire.

La casa è avvolta nel silenzio, mentre il mio cuore batte fortissimo; i miei occhi si riempiono ancora di lacrime e questa volta lascio che cadano sul cuscino, creando delle enormi macchie sulla stoffa candida.

La verità è che non sento niente dentro di me: né ansia, né gioia o rancore, non sento nulla e, terrorizzata da questa consapevolezza, mi muovo per entrare nel letto di mia sorella.

La stringo un po’ a me perché è lei la persona che amo di più, cercando di non strapparla al sonno, ma non ci riesco.

-Ehi- mi dice, con quella sua vocina dolce – hai avuto ancora un incubo?- mi chiede assonnata, strofinandosi entrambi gli occhi.

-Sì, ma non preoccuparti stellina. Ora che sono accanto a te mi sento più tranquilla- le dico, coprendoci fin sotto il mento con le coperte–dormi adesso che domani c’è scuola-

E mentre seguo il respiro di Alice farsi sempre più pesante, cerco di sincronizzare il battito dei nostri cuori e, alle prime luci dell’alba, riesco anch’io ad addormentarmi.

La mattina dopo nostra madre viene a svegliarci, ignorando come sempre fa il fatto che siamo nello stesso letto, e si siede pesantemente sul mio letto.

-Ragazze è ora d’alzarsi- ci dice utilizzando un tono statico, come se la sua voce fosse registrata.

Mi strofino un po’ gli occhi e, lasciando andare mia sorella in bagno per prima, guardo la mamma di sottecchi per vedere come ha reagito.

Si vede che ha pianto, perché ha gli occhi arrossati e continua a tirare su col naso, ma quando nota che la sto fissando, si sforza di sorridermi riuscendo a rivolgermi solo un pallido ghigno.

-Cosa c’è amore? Tutto bene?- mi chiede, alzandosi e voltandomi le spalle, pensando di nascondermi quanto stia male.
Non ha notato le mie occhiaie ancora più pesanti rispetto a quelle degli altri giorni, né la mia voce roca di pianto che le risponde. Alcune cose sembra non volerle vedere.

-E’ tutto okay- le dico, non credendoci neanche per un secondo.
Tutto è lontano dall’essere okay e lo sappiamo bene entrambe; mi alzo anch’io dal letto e raggiungo mia sorella in bagno.

Dopo essermi lavata e vestita, mi siedo al tavolo della cucina per fare colazione, prendendo meccanicamente il latte e versandolo sui cereali, pur non avendo per niente fame.

-Mamma, dov’è papà?- chiede Alice addentando la sua fetta biscottata e, in un attimo, la temperatura sembra scendere di venti gradi.

-Se n’è andato via poco fa- dice soltanto mia madre, cercando di sfuggire al mio sguardo pungente.

-E quando torna?- candidamente, la mia sorellina fissa mia madre spensierata e, solo in quel momento, capisco che papà se n’è andato per non fare più ritorno in questa casa.

-Presto- risponde invece mia madre, alzandosi dal tavolo per andare in bagno e piangere un po’, prima d’accompagnarci entrambe a scuola.

 
DIECI ANNI DOPO

Suona il campanello ed io e Alice ci fissiamo incuriosite. Chi diavolo può venire a casa nostra alle dieci di sera?

-Vado io- dice mia sorella, alzandosi in piedi e raggiungendo l’ingresso con la sua camminata lenta e sinuosa.

La mia piccola sorellina di nove anni è sbocciata in una splendida ragazza, con i capelli lunghi e mossi che le incorniciano un viso acuto ed elegante.

-Anna, credo che sia per…- dice, prima di bloccarsi –tu?- aggiunge dopo poco.

Preoccupata, mi alzo dalla tavola e la raggiungo davanti la porta, dove un uomo robusto e un po’ sciatto sta guardando commosso mia sorella.

Ha una barba incolta, mentre i capelli sono grigi e stoppacciosi. Il naso sembra una patata un po’ schiacciata, ma è la forma degli occhi a farmi raggelare il sangue nelle vene: occhi che vedo ogni giorno allo specchio, occhi così familiari da colpirmi come la lama di un coltello nello stomaco.

-Alice, Anna- singhiozza commosso mio padre, fissandoci entrambe incredulo.

-Cosa ci fai qua?- chiedo, mettendomi subito fra lui e mia sorella, offesa per il semplice fatto che si sia davvero permesso di suonare stupito, come se non sapesse dove fossimo state per tutto questo tempo e ci avesse ritrovate solo ora.

-Sono qui per voi- mi risponde, abbassando la testa –posso entrare?-

La mia prima cosa che mi viene in mente è chiudergli la porta in faccia, ma dopo aver scambiato uno sguardo con mia sorella capisco che lei vuole davvero che entri, perciò annuisco seccata prima di voltarmi e sparire in sala da pranzo.

-Come va?- chiede Alice, sedendosi accanto a me sul divano e lasciando a lui la poltrona dove, tanti anni prima, passava serate intere a guardare la televisione con noi.

-Tutto bene, voi?- risponde vago, guardando il salotto con grande attenzione.

-Noi stiamo bene, mai state meglio. Anzi, stavamo bene prima che venissi a rovinarci la serata- gli dico guardandolo intensamente.
Almeno ha il buon gusto di arrossire, imbarazzato dalle mie parole.

-Anna, io…- inizia a balbettare in maniera pietosa, ma io non voglio sentirlo affatto.

-Senti, risparmiaci le tue stupide scuse, siamo ormai troppo grandi per credere ad una sola parola che uscirà dalla tua bocca. Come ti permetti a spuntare dal nulla così, all’improvviso!- mi fermo, cercando di trovare il modo giusto per esternare i miei sentimenti.

Se dieci anni fa, i primi giorni dopo il suo abbandono, quello che aveva regnato dentro di me era stato il nulla assoluto, ora una vasta gamma di emozioni mi ribollivano dentro. Rabbia perché ci aveva abbandonate al nostro destino, rancore per tutto quello che avrebbe dovuto fare in quanto padre ma che non aveva fatto, incredulità per come fosse rispuntato da un giorno all’altro davanti casa, come se nulla fosse successo.

-Quello che vuole dire Anna è che da tanto che non ti vediamo e che forse avresti potuto chiamare prima- aggiunge con tono cauto Alice, fissando prima me e poi lui, cercando diplomaticamente di calmare i toni.

-No, quello che voglio dire è che non abbiamo bisogno di te ora. Dopo anni che non ti fai sentire, compleanni e feste passate a piangere perché non ti eri degnato d’inviarci neanche un messaggio, ora che finalmente stavamo andando avanti, hai il coraggio di presentarti ancora in questa casa?- grido frustrata, sentendomi sopraffatta da lui, non riuscendo a sopportare neanche la sua vista.

Mi copro il viso con le mani e sento subito il braccio di Alice circondarmi le spalle.

-Lo so, ho sbagliato, ma voglio recuperare il tempo perduto- dice papà

-Recuperare il tempo perduto?- gli grido, scioccata –tu non puoi recuperare proprio un bel niente! Non possiamo semplicemente riavvolgere il nastro e ricominciare tutto daccapo. Non ti sei perso l’inizio di uno stupido film, qui ti sei perso le nostre vite, la nostra crescita!-

-Eppure lo voglio davvero, lo so d’aver sbagliato- continua, disperatamente certo di riuscire a convincerci che non è stato lui ad andarsene e non farsi più vedere per dieci maledettissimi anni.

-Non puoi riparare il torto che hai fatto a me e ad Anna, papà- interviene Alice con gli occhi pieni di lacrime –sapevi dove fossimo, quale fosse il numero di casa, ma non hai mai chiamato-

Ora sono io che la stringo a me, fissando un punto al di là della sua testa per non fissare i suoi occhi sgranati.

-Dov’è vostra madre, fatemi parlare almeno con lei, sono sicuro che capirà che sono seriamente pentito- propone allora mio padre, sorridendoci un poco.

-Sei proprio una bestia- gli dico in preda al risentimento, alzandomi per andare a prendere un cartoncino plastificato e lasciandoglielo sulle ginocchia –mamma è morta un anno fa e tu neanche lo sapevi. Io ed Alice siamo dovute crescere senza un padre, abbiamo dovuto affrontare la morte di nostra madre senza di te e ora vuoi rimediare ai danni che hai fatto?- gli chiedo sprezzante, mentre l’unica cosa che lui riesce a fare è fissare con mani tremanti la foto che abbiamo scelto per la mamma.

Ricordo quanto duri sono stati i primi mesi senza di lei, in una casa che ci sembrava quasi ostile, troppo piena di ricordi riguardanti due persone che, in un modo o nell’altro, ci avevano abbandonate.

-E di cosa è…?- mormora, la voce mossa forse dalle lacrime.

-Un infarto nel bel mezzo della notte- gli risponde Alice, asciugandosi gli occhi con l’orlo della maglia –neanche ce ne siamo accorte. La mattina dopo lei non…- ed ecco che l’argine si rompe e mia sorella inizia a singhiozzare, ogni respiro una nuova ondata di dolore per me.

Si può amare così tanto una persona, da condividerne anche il dolore?

-Piccole mie, non ne sapevo niente, mi dispiace- ci dice allora papà, cercando di avvicinarsi a noi.

-E come potevi sapere?- commento stanca, sfinita dal troppo risentimento nei suoi confronti.

-Ora però dovete capire che avete ancora più bisogno di me. Sono l’unico genitore che vi è rimasto, l’unica persona che potrà farvi da guida. Bambine mie, voglio far parte della vostra vita-

Sento Alice che scuote la testa contro il mio petto, mentre entrambe ci fissiamo afflitte e risentite.

-Te lo ripeto papà, è troppo tardi. Non siamo più né tue né bambine, siamo due donne che hanno imparato a crescere sole. Senza di te la nostra vita è stata particolarmente dura, ma abbiamo affrontato tutto mano nella mano, andando incontro a tutto con la consapevolezza di coprirci le spalle a vicenda. Questo dovrebbe fare un genitore, questo è quello che non hai mai fatto- finisco sospirando, pensando che solo gli uomini codardi possono fuggire davanti alle difficoltà e poi cercare di fare ammenda.

All’improvviso, così repentino quanto inatteso, mio padre si alza in piedi diventando tutto rosso e, per un attimo, sono di nuovo la ragazzina di sedici anni che aveva paura di sedersi a tavola perché non voleva essere sgridata per un nulla.

-Ecco, vedete che è tutta colpa vostra! Io cerco di parlarvi, ma voi non fate altro che respingermi, mi guardate con quell’aria di sufficienza che avete sempre avuto. E’ anche colpa vostra se ho lasciato vostra madre, tutte e tre eravate solo dei pesi che non facevano altro che farmi salire il sangue al cervello, dalla sera alla mattina- ci rinfaccia nostro padre, squarciando in un attimo il velo di pentimento che aveva ricoperto la sua figura.

Tremo leggermente, per un attimo incredula davanti alle farneticazioni di questo uomo che non ha più diritto d’essere chiamato padre. Un padre non rinfaccia, non attacca, non colpisce le proprie figlie proprio là dove sa di colpire sul vivo.

-E allora, se pensi questo di noi, perché sei qui?- gli chiede Alice con un tono quasi disgustato e la capisco.

-Sono qui perché volevo vedere come fossero cresciute le mie figlie, se fossero ancora le bambine che avevo lasciato io o se mi fossi perso qualcosa- dice utilizzando un tono tranquillo, come se si fosse dimenticato d’averci urlato addosso neanche un minuto prima.

-Vuoi sapere cosa ti sei perso?- gli rispondo, serrando la mascella e alzandomi dal divano.

Prendo da un cassetto del tavolino un pacco di lettere e gliele porgo, osservando come la vena sulla sua fronte stia ancora pulsando pericolosamente.

-Che cosa sono?- mi chiede, avvicinandosi a me e fissandomi dritta negli occhi.

Così identici ai miei, eppure così freddi e subdoli, così sconosciuti quanto familiari.

-Lettere. Per fare felice Alice, i primi tempi immaginavamo che eri partito per qualche tempo, perciò ti scrivevamo delle lettere per farti sapere come stessimo e cosa fosse successo nella nostra vita. Dopo qualche tempo, però, ho iniziato a buttarci dentro tutto quello che provavo per colpa tua, tutto il disgusto che provavo nei tuoi confronti-

Ogni volta che prendevo in mano la penna per scrivergli, per scrivere a quel padre che ci aveva dimenticate, le parole che lasciavo sulla carta facevano sempre malissimo. Era come se le strappassi direttamente dalla mia carne, svuotandomi periodicamente del risentimento che aveva riempito il vuoto che aveva lasciato. Alla fine, mentre firmavo la busta e la buttavo nel cassetto, sentivo di stare meglio.

Lui sposta lo sguardo da me alle buste, sfogliandole una ad una come si fa con le fotografie delle vacanze e con la mente ripercorro ogni lettera che gli ho scritto, perché me le ricordo tutte come se le avessi marchiate a fuoco nelle palpebre. Le mani mi tremano, per cosa in particolare non lo so bene.

-Non puoi pretendere nulla se non sei disposto a dare. La è vita tutta una questione di scambi, do ut des, come dicevano i latini. Se sei tu il primo a non amarci davvero, che molto probabilmente non ci ha mai amate, non puoi venire qui e chiedere d’essere accolto a braccia aperte. L’unica cosa che sei riuscito a darci in tutta la tua vita è stato un sordo dolore, la consapevolezza che per te non eravamo abbastanza, il rifiuto insomma. E, mi dispiace, l’unica cosa che riceverai in cambio sarà il nulla perché è ciò che ti meriti- gli dico, sentendomi davvero male per quel padre che sarebbe potuto essere e che non è stato mai, quasi compiangendo quell’uomo che aveva buttato all’aria una famiglia per la sua incapacità d’amare.

Sento il rumore prima ancora del dolore e, sconvolta, mi copro la guancia dove la sua mano mi ha colpita. Lo fisso con la bocca leggermente aperta, ferma come una statua di sale mentre sento, dietro di me, mia sorella gridare.

-Non ti meriti di rimanere neanche un secondo di più in questa casa, sei il peggiore padre che potesse mai capitarci- continua a dirgli, riprendendosi le lettere e spingendolo verso la porta.

Sembra quasi senza forze, si fa strattonare come se fosse un manichino mentre Alice gli chiude la porta in faccia, realizzando quello che avevo voglia di fare dal primo istante in cui l’avevo visto sulla soglia.

Alice, dopo averlo buttato fuori, torna da me con uno sguardo afflitto e allo stesso tempo acceso dalla rabbia.

-Non si sarebbe mai dovuto permettere- è l’unica cosa che dice, prima di abbracciarmi.

Lo schiaffo in sè non mi ha fatto molto male, eppure scoppio a piangere come una bambina. Mia sorella ha ragione, non si sarebbe mai dovuto permettere di venire qui e distruggere tutto.

Dopo tutto quello che ci era successo, stavamo ricostruendo pezzo per pezzo quel castello di carte che era la nostra vita, creando lentamente un equilibrio precario e fragile che forse si sarebbe stabilizzato col tempo. Ed invece il nostro castello, già pericolante per colpa della morte di mamma, era stato spazzato via da nostro padre, così come un bambino geloso butta all’aria il lavoro di un altro solo perché gli va.

Non so per quanto tempo rimaniamo abbracciate, né l’esatto momento in cui smetto di piangere, ma alla fine ci ritrovammo sedute sul divano con la sua testa sulla mia spalla.

-Pensi che tornerà?- mi chiede Alice, giocando con la fede della mamma che porta sempre al collo.

-Non credo, stellina. Penso tu l’abbia davvero terrorizzato- dico, cercando di sdrammatizzare su una situazione piuttosto delicata.
Alice alza la testa e incontra i miei occhi prima di ricominciare a parlare.

-Ti giuro che, nel momento in cui l’ho riconosciuto, ho avuto un tuffo al cuore. Non sai quante volte ho desiderato e pregato perché ritornasse e vederlo seduto sulla sua poltrona mi rassicurata; però, quando ha iniziato ad alzare la voce e quando ti ha colpita, non c’ho visto più. Non era quello il padre che volevo tornasse, io volevo solo qualcuno su cui contare e che mi volesse bene-

Le accarezzo i capelli sorridendole, pensando che è lei l’unica cosa che mi tiene ancora a galla; senza di lei, non so dove sarei ora, cosa sarei ora. Alice, con la sua capacità di vedere il buono in tutto e con il suo sorriso sempre pronto a rallegrarmi la giornata, mi ha salvato la vita e, cosa ancora più incredibile, neanche se ne rende conto.

-Lo so che non potrò mai essere come un genitore per te, ma sono tua sorella e devi credermi quando dico che ti amo così tanto da essere pronta a buttare all’aria i sogni di una vita pur di vederti felice. Forse lui è venuto qua con le migliori intenzioni, ma si è dimostrato soltanto per la persona che è: violento, irascibile e indegno di farti da figura paterna-

-E ora cosa faremo?- aggiunge dopo poco, fissando la finestra oltre la quale, noto solo in questo momento, ha iniziato ad albeggiare.
-Faremo quello in cui siamo più brave. Terremo duro, ci appoggeremo l’una all’altra e ci scrolleremo via questa notte come se fosse polvere- le dico, alzandomi dal divano – ma per prima cosa, è meglio andare a dormire perché abbiamo delle vite da portare avanti-

Andiamo in camera assieme e ci infiliamo nello stesso letto, ricreando una situazione molto simile a quella di dieci anni fa. Siamo cresciute un bel po’ per stare comode entrambe in quel lettino, ma non ci facciamo molto caso.

Ho bisogno di starle vicina, di tranquillizzarmi sentendo il suo respiro e di cercare di sincronizzare i nostri cuori, così come ho sempre fatto quando sentivo che solo lei poteva farmi stare bene.

Io e Alice siamo opposte, lei sempre gioviale e gentile con tutti, praticamente un raggio di sole che cammina; io, d’altro canto, sono sempre stata diffidente nei confronti degli altri, sempre poco incline a fidarmi di qualcuno.

-A cosa stai pensando?- mi chiede, girandosi un po’ per appoggiarsi sul gomito e guardare nella mia direzione.

Si vede pochissimo perché le tapparelle sono mezze chiuse, perciò non riesco ad inquadrare subito i suoi occhi, molto più simili a quelli di nostra madre che ai miei.

-Penso al fatto che sei una persona molto forte, sicuramente più forte di me-

Alice si mettere a ridere, comportandosi come se avessi detto una battuta.

-Cosa dici? Sei sempre stata tu quella forte tra le due. Io ero la bambina ingenua e incauta mentre tu dovevi prenderti cura di me quasi come una mamma. Quante volte sarei incappata in seri pericoli se non ci fossi stata tu ad aiutarmi a vedere cosa stessi sbagliando-

-No, non parlo di questo. Io sono una persona che si porta sopra la propria tristezza, una persona che preferisce crogiolarsi e consumarsi nella rabbia; tu, invece, sei forte perché invece di lasciarti andare in questo mare di emozioni, preferisci sforzarti per trovare quel po’ di luce che serve per uscire dal tunnel. Io non saprei mai farlo e ne siamo consapevoli entrambe- le dico, scostandole una ciocca di capelli dagli occhi.

-Forse è per questo che siamo sorelle: io ho bisogno di te per essere una persona coi piedi per terra e tu hai bisogno di me per scappare dal risentimento che ti porti dentro- conclude Alice, prima di sbadigliare e sistemarsi meglio accanto a me –grazie per essere una sorella così fantastica-

-Grazie a te per essere la mia piccola stella- le sussurro, ma non penso mi abbia sentito perché si è già addormentata.

Prendo un respiro profondo, consapevole che questa nottata si fisserà nella mia mente e infesterà i miei sogni per un bel po’ di tempo.

Non volevo farlo vedere a mia sorella, ma nostro padre mi ha completamente sconvolto: in una notte è successo così tanto e così in fretta che ancora sento l’adrenalina scorrermi nelle vene, come se da un momento all’altro potesse tornare e ricominciare a urlarci addosso cose che avevamo sempre temuto di sapere.

Alcune persone sanno solo ferire, provano gioia nel portare scompiglio nella vite degli altri e mio padre è proprio uno di questi. Una delle mie peggiori paure, non l’ho mai raccontata a nessuno, è che a lungo andare, nel momento la mia strada si allontanerà da quella di Alice, diventerò anch’io così: troppo ferita per guarire e troppo egoista per soffrire in solitudine.

Mi rassegno al fatto che non riuscirò a dormire neanche un’ora questa notte, o meglio, questa mattina e, passando una mano sui capelli di mia sorella, mi tranquillizzo sapendo che per ora ho lei affianco e che niente potrà mai buttarci giù. Abbiamo incassato troppi di colpi per cedere proprio ora.
 
 
 





*NdA beh? Grazie tantissimo per aver letto, questa storia è stata difficile da scrivere, ma necessaria.
Una recensione la lasciate? Grazie ancora,
Em*
  
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