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Autore: LittleWillow_    27/02/2015    8 recensioni
"José Martí, noto poeta cubano, diceva che l’essere umano per essere considerato completo deve piantare un albero, scrivere un libro e avere un figlio. Nella sua breve vita, George aveva fatto tutte e tre queste cose."
[child!Dhani. Un piccolo scorcio di amore e di vita quotidiana fra padre e figlio.]
Genere: Fluff, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: George Harrison
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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José Martí, noto poeta cubano, diceva che l’essere umano per essere considerato completo deve piantare un albero, scrivere un libro e avere un figlio. Nella sua breve vita, George aveva fatto tutte e tre queste  cose.

 
Non disegnava da secoli, ma imprimere quei piccoli occhi neri e saettanti sulla carta mentre dormiva era una tentazione troppo forte perché George potesse resistervi.
Non si era mai apprezzato più di tanto e a volte si chiedeva se quella somiglianza così spiccata fosse davvero un bene per quello scricciolo che era la sua vita, nonostante facesse parte  della sua vita da soli otto anni.
Quel giorno era in studio ad incidere, ma appena Olivia gli aveva detto “Dhani non sta bene” aveva percepito che non era quello il posto in cui doveva e in cui voleva essere, ma che al contrario ciò che più gli premeva era accertarsi delle condizioni di salute del suo bambino.
Sorrise appena George, mentre osservava Dhani muoversi leggermente nel sonno. Olivia lo aveva dolcemente preso in giro nel vederlo tornare così presto ed introdursi nella cameretta del bimbo. Lo aveva rassicurato dicendogli che era solo un po’ di febbre e di stare tranquillo, ma aveva bisogno di vederlo con i suoi occhi per esserlo davvero. In fondo fra i due, dalla nascita di Dhani fino a quel momento, era sempre stato lui quello più ansioso.
George osservava Dhani tremare ancora più forte, mentre un gemito gli sfuggiva dalle labbra. Capì che stava avendo un incubo e voleva  solo entrarvi dentro per proteggerlo e rassicurarlo, ma tutto ciò che poteva fare era avvicinarsi al letto e aspettare che aprisse gli occhi.
“Papà? Sei qui? Ho fatto un brutto sogno”
Per Dhani, quello era  l’unico modo di rivolgersi a lui.
Per George, quella era una delle parole più dolci del mondo.
“Papà” era una parola così semplice ma il modo in cui scivolava fuori dalle labbra di suo figlio sapeva renderla eccezionale. George era sicuro che se l’amore avesse avuto un suono, per lui sarebbe stato quello della voce delicata di Dhani che lo chiamava papà.
Guardò quegli occhietti neri appannati a causa della febbre e si trovò ad aggiustargli le coperte, perché stesse meglio e perché fosse più comodo.
“Sono qui” Confermò e per un riflesso involontario si ritrovò a sdraiarsi accanto al bambino, perché sapeva che infondo avevano bisogno entrambi di toccarsi e di stare l’uno accanto all’altro.
Dhani vicino a lui si sentiva proprio al sicuro. Amava il tempo che riusciva a passare con il suo papà, e nonostante il forte desiderio di quest’ultimo di cercare di vivere e di essere il più possibile presente per suo figlio, il tempo che passavano insieme non sembrava mai essere abbastanza, con grande rammarico di entrambi.
Ad un tratto però, un dubbio atroce si insinuò nella sua mente.
“Papà, forse è meglio che ti sposti...Ho la febbre, poi stai male e non puoi cantare”
Dhani aveva sempre saputo che George era orgoglioso di lui.
Forse non glielo ripeteva ogni giorno, anzi forse non glielo aveva mai detto a parole, ma lo sapeva. C’erano gesti, silenzi, e quelle volte in cui faceva qualcosa che non andava e lo minacciava di raccontarlo alla mamma senza poi farlo davvero a testimoniarglielo.
Ma soprattutto c’erano gli occhi con cui lo guardava in quel momento e tante altre volte, con quel fuoco d’amore e di tenerezza che vi ardeva dentro.
George avrebbe voluto dirgli che pur di stargli accanto avrebbe accettato qualsiasi raffreddore e qualsiasi febbre, ma tutto ciò che fece fu lasciarsi andare ad un’affermazione burbera e affettuosa allo stesso tempo, come sua consuetudine.
“Sono io che devo proteggere te e non viceversa, ragazzino” Alzò un sopracciglio, al cui Dhani azzardò un sorriso timido. ” Cerca di riposare adesso” 
Dhani appoggiò piano il capo sul petto di George e poi continuò a guardarlo, quasi a cercare una sorta di approvazione nei suoi occhi, sebbene fosse consapevole del fatto che non lo avrebbe mai e poi mai respinto.
Chiuse gli occhi, ma c’era qualcosa che lo turbava. George l’aveva percepito fin dal momento in cui era entrato nella sua stanza. Lo sentì emettere un gemito spaventato.
“Cosa c’è che non va, Dhani?” Gli passò una mano fra i capelli a spazzola, scrutandolo con attenzione in volto, alla ricerca di qualcosa che gli rivelasse la reale origine del suo turbamento, “Ti fa male la testa?”
Il bambino scosse la testa. Voleva dirgli cosa c’era che lo preoccupava, e sapeva che glielo avrebbe detto, ma conosceva anche la tendenza degli occhi color cioccolato del suo papà a diventare ancora più scuri e tormentati quando venivano rispolverate alcune ferite che non si erano mai richiuse e che non si sarebbero mai richiuse.
“Papà? Tu non mi abbandonerai mai, vero?”
“No. Mai.” Rispose George. Era questo a spaventarlo? Come aveva potuto dargli una tale sensazione? “Come puoi anche solo pensare una cosa del genere?”
Dhani ignorò quella domanda. Sentiva il bisogno di chiedergli di prometterglielo. Suo padre per lui era il suo eroe e il suo migliore amico. La sola idea che un giorno non avrebbe più potuto stringersi a lui era sufficiente a farlo rabbrividire.
“Me lo prometti? Non farai mai come ha fatto lo zio John con Sean?”
Dhani all’epoca aveva solo quattro anni, ma nessuno dimentica la prima volta in cui prova quella sensazione di smarrimento derivata dal vedere un genitore, una figura forte per antonomasia, piangere. Era durata poco, perché – Dhani lo sapeva bene – George detestava perdere un minuto a piangere quando poteva ridere, ma ricordava le innumerevoli sfumature che il dolore aveva assunto nei suoi occhi.
“Non lo ha abbandonato. Lui lo guarda sempre, sai, dal cielo” Potevano sembrare parole di circostanza, ma non se era  George a pronunciarle. Se era George a pronunciarle bisognava credergli.
“E Sean lo sa? Come fa a saperlo se ci sono le nuvole che lo coprono? Tu non lo farai, vero?”
A quelle domande George non sapeva come rispondere. Non era mai stato uno di tante parole, preferiva dirne poche ed essere incisivo. Ad un tratto gli venne in mente qualcosa.
“Chiudi gli occhi, Dhani.”
“Ma…”
Stava per replicare che non aveva sonno, ma George lo batté sul tempo.
“Dhani”
Conosceva quel tono. Quando lo usava, suo papà non ammetteva repliche, quindi decise di obbedire. Sentì le braccia di George stringerlo senza poterlo vedere.
“Dhani, mi vedi?”
Il bimbo si chiese se il suo papà stesse diventando pazzo a chiedergli se riusciva a vederlo con gli occhi chiusi, ma non voleva contraddirlo e farlo arrabbiare, perciò si limitò a rispondere.
“No, papà”
George sorrise sentendo la perplessità nella sua voce. L’idea di suo figlio che pensava a lui come ad un povero vecchio pazzo lo faceva irrimediabilmente sorridere.
“Ma mi senti, non è vero Dhani? Sai che sono qui, accanto a te”
Poteva sentire il calore del corpo di suo padre riscaldarlo e la sua bellissima voce parlargli così teneramente. Dhani era così contento perché sapeva di conoscere ogni nota della voce di suo padre, non solo quando cantava, ma anche e soprattutto quando si rivolgeva a lui. Si sentiva così fortunato.
“Sì, lo sento” confermò il bimbo. “Ma adesso posso aprire gli occhi?”
George sorrise al tono impaziente e irruente che solo un bambino di otto anni può avere. Poi cercò di concludere il discorso che aveva iniziato prima, assumendo un’aria seria. Suo figlio doveva sapere. Gli prese la mano ponendola sulla sua, facendo una smorfia tenera nell’accorgersi di quanto piccola fosse in confronto.
“E’ questo che succederà, Dhani ed è questo che è successo a Sean. Ed è così che andrà.”
George avrebbe voluto aggiungere che sperava che succedesse il più tardi possibile, che avrebbe voluto conoscere e approvare sua nuora e incontrare i suoi nipotini, ma avrebbe reso il tutto più drammatico e il suo intento era quello di rassicurare suo figlio.
“Cosa?” domandò ingenuamente il bambino.
George aspirò forte prima di parlare.
“Non avrai bisogno di vedermi per sapere che sono qui, accanto a te.”
 
 
***
Ti capita di riprendere in mano le foto di quei tuoi giorni in cui lui usava farti compagnia per distrarti da quella febbre altissima che spesso ti tormentava quando eri bambino e cominci a pensare a come il tempo con tuo padre sia passato, senza darti il tempo di accorgertene. Ti sei detto che venticinque anni sono troppi pochi per perdere un genitore, ma poi subito dopo ti sei chiesto se c’è davvero un’età per affrontare una così grande perdita.
Non lo sai.
L’unica cosa che sai è che per i primi mesi dalla sua scomparsa, tutto ciò che hai fatto è stato lanciarti in una disperata caccia al suo fantasma per poi ricordarti di quella sera, per poi ricordarti che hai cercato George in tutti i posti tranne in quello dove è.
Non sta suonando il sitar lungo le rive del Gange, mentre scruta l’orizzonte cercando di vedere oltre, affamato di vita e di infinito.
Non è per le vie di Liverpool, in una delle strade che poteva percorrere ad occhi chiusi e che ha dato il nome a molte delle più celebri canzoni dei Beatles.
Non è nel Cavern, mentre suona la sua chitarra gentile o mentre cerca di difendere Ringo.
Non è nemmeno nella clinica dove è evaporato in nuvola rossa, dove cercava di trasformare il dolore in energia positiva per rassicurare voi e sé stesso.
Non è in nessuno di questi posti, ma allo stesso tempo è in ciascuno di loro quando ci sei tu, e quando prendi una chitarra in mano e lasci la tua voce uscire dolcemente senti al tuo fianco l’ombra di un gigante.
Nessuno la vede, nemmeno tu, ma non hai bisogno di vederla.
Tu senti che c’è.


Note dell'autrice
Arrivo sempre tardi, ovvio, ma essendo il compleanno di George oggetto di una disputa che non arriverà mai al suo termine, riesco a non sentirmi in colpa.
Dhani è il mio preferito fra i figli dei Beatles, e George... ho un grande grado di empatia con quella sua personalità così complessa, misteriosa e riservata, in cui - a volte- rivedo alcuni aspetti della mia.
Non so cos'altro dire sulla storia. E' fluff? O è angst? Non lo so. Credo sia entrambi e che allo stesso tempo non sia nessuno dei due... E' molto dolceamara, questa mia storia. E' difficile definirla diversamente.
Nulla, come sempre, ringrazio per eventuali recensioni.


D.
  
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