Gentili
lettori,
è
con trepidazione che vi vengo a sottoporre l’inizio del mio primo
racconto a capitoli originale.
Mi
sembra ancora impossibile di essere riuscita nell’impresa di iniziare
qualcosa di lungo – senza quantificare cosa lungo stia ad indicare, ma non temete, non sono Tolkien – che
si disegni con relativa chiarezza su carta e si prospetti definito già dal
principio.
Dunque,
questo è un racconto poco serio e senza pretese. L’ho scritto
ripensando ad anni che ormai non sto più vivendo e che ricordo con
affetto, gioia e anche con un po’ di pena. La mia adolescenza è
stata, a posteriori, estremamente bella, ma so benissimo che viverla non
è stata sempre una favola. C’è dell’ironia verso
quell’età in queste pagine, ma è un’ironia molto
affettuosa.
Non
è assolutamente un racconto autobiografico e nessuno dei personaggi che
compaiono è reale, come non lo é la maggior parte delle vicende
narrate. Ogni riferimento a persone realmente esistenti e fatti accaduti
è puramente casuale.
Con
questo, vi auguro una buona lettura.
suni
INSOSTENIBILMENTE
GIU’
Giuseppina riteneva
fermamente che nella vita non ci fosse nulla di peggiore del trasferirsi da una
città all’altra durante l’adolescenza.
Niente
a parte chiamarsi Giuseppina, naturalmente: nell’anno domini 2003 ritrovarsi
con un nome proprio del genere costituiva la vergogna più grande che un
essere umano potesse provare, se non si superavano le sessantacinque primavere.
Erano gli inconveniente dell’avere una madre retrograda e svanita, persa
negli anni trenta e del tutto priva di qualunque senso del gusto: non per
niente si chiamava Serafina, lo zio Agenore e la nonna Immacolata. I nomi
imbarazzanti costituivano una consolidata tradizione familiare dal lato materno
e infatti il papà, un banalissimo Marco, passava ogni anno il pranzo di
Natale a sbellicarsi dalle risate stringendo la mano dei vari prozii Agamennone
e cugine Ermenegilda della moglie.
Conseguentemente,
Giuseppina aveva optato per il farsi chiamare con un sonoro Giù per gli
amici occasionali o un intimo Pi per gli affezionati, e già questo
faceva parte del problema: cambiando città avrebbe cambiato anche i
suddetti amici e questo significava dover sopportare di sopravvivere a
chissà quanti drammatici mesi sentendosi chiamare Giusy o – sommo
orrore – Pina prima che la gente capisse quanto avrebbe preferito
un’infibulazione all’onta di ricevere soprannomi del genere.
Ad
ogni modo Giù effettivamente si era appena trasferita in una nuova
città. E questo era appena meno peggio di chiamarsi Giuseppina.
Aveva
letto una quantità di libri e visto chissà quanti film in cui la
protagonista liceale si vedeva sradicare come un geranio e trasportare da un
angolo all’altro del mondo al seguito di genitori gretti ed egoisti che
non ricordavano più cosa volesse dire doversi costruire una vita
sociale. Sapeva perfettamente che il trauma poteva essere anche insormontabile
e che spesso alla malcapitata avveniva di trovarsi investita di poteri
spiacevoli e circondata da persone inquietanti come era successo anche a quella
mentecatta di Buffy. Che sì, poi aveva incontrato quel gran figliolo di
Angel, ma comunque.
Quella
seconda parte della storia, quella in cui lei si faceva valere e trovava un
ragazzo secondo di poco in bellezza a Johnny Depp arrivando a conquistarsi la
stima di tutti e diventando eroina nazionale, Giù lo sapeva, era
prerogativa soltanto delle storie di fantasia, libri e film appunto.
A
lei, nella realtà, sarebbe spettato unicamente il trauma.
Anche
perché oggettivamente Giù non era figa come Buffy e non portava
il suo stesso tipo di minigonne, non aveva un carattere vulcanico come Pippi
Calzelunghe né il fascino etereo di Isabella Swan e porco Giuda, prima
di fare amicizia con qualcuno ci metteva una vita, anche perché era
piuttosto selettiva e aveva passatempi magari non particolarmente comuni.
Giù
era quel genere di diciassettenne che per presa di posizione si sforzava di non
uniformarsi. Al tempo stesso, non le interessava sbandierare nessuna presunta
diversità. Non voleva mettersi gli occhiali D&G ma nemmeno vestirsi
di nero e tagliuzzarsi le vene, oppure sfoggiare camicioni colorati di cotone
nepalese ingombranti come impalcature. La sua intera personalità seguiva
in ogni ambito quel desiderio di anonimo individualismo e di conseguenza la
sventurata sviluppava ciclicamente lievi problemi d’identità cui
sicuramente un trasferimento traumatico non avrebbe giovato. Per giunta il suo
completo disinteresse per ogni forma di moda e la sua deliberata mancanza di
cura per l’estetica la portavano a compiere sbalzi anche inquietanti,
ché non era raro vederla presentarsi in classe conciata accidentalmente
come un cyberpunk un giorno e appallottolata in un’innocua mise di braghe
in tela e golfino sdrucito l’indomani.
Quello
e il fatto che fosse poco interessata agli svaghi di massa la rendevano
leggermente isolata già in ambienti che frequentava dalla nascita: non
osava nemmeno pensare a cosa sarebbe stato presentarsi in una nuova scuola,
dove nessuno la conosceva, e per di più ad anno iniziato.
La
catastrofe.
Era
quella la ragione per cui, in quel grigio mattino d’inizio inverno,
esitava davanti allo specchio scrutando torva la propria immagine riflessa,
rischiando di presentarsi in ritardo in classe al primo giorno. Quella e il
fatto di non essere molto sicura di voler comparire davanti ai suoi nuovi
compagni prima di aver subito un’operazione di chirurgia plastica che la
rendesse completamente irriconoscibile, anche se poteva sembrare inutile dal
momento che quelle persone non la conoscevano nemmeno con il suo aspetto
autentico, ma dopo l’operazione lei
avrebbe saputo che loro non potevano riconoscerla comunque e si sarebbe
sentita in pace con se stessa.
Qualcosa
del genere, insomma.
Era
la prima volta da quando andava a scuola che trascorreva più di quattro
minuti a vestirsi. Aveva spulciato tutto il suo guardaroba, ancora parzialmente
ammonticchiato negli scatoloni del trasloco, nel tentativo di trovare degli
abiti che non le facessero attirare l’attenzione e impedissero la
formulazione di qualunque giudizio approssimativo sulla sua persona. Resasi
conto che quest’ultima speranza era tragicamente vana aveva stabilito di
cercare almeno di non sembrare un panda con la criniera da leone: cosa che
tendeva ad avvenire quando si lasciava andare a se stessa – cioè
sempre - per via dei capelli crespi e tiziani e delle occhiaie clamorose che la
accompagnavano dalla tenera età di dodici anni, per ragioni su cui
nemmeno il suo medico curante aveva saputo fornire spiegazioni convincenti.
Dunque
si era messa un filo di matita nera sugli occhi, che erano di un bel verde
rugginoso e costituivano uno dei pochi attributi di se stessa che non la
disgustasse particolarmente. Aveva trascorso un quarto d’ora a
spazzolarsi i capelli, tirandoli come se avesse dovuto staccarseli tutti senza
eccezioni, e al momento quelli aveva un’accettabile conformazione che
seguiva più o meno quella della sua nuca e che con un po’ di
fortuna avrebbe tenuto almeno fino a dopo l’intervallo senza
l’ausilio di gel e lacca, che andavano contro i suoi principi. Per
l’uscita da scuola aveva anche pensato a mettere nello zaino un berretto
nero – esitando sulla scelta di un più pratico passamontagna -
così da poter nascondere eventuali rigonfiamenti della capigliatura al
momento di sfilare fuori dalle porte.
Si
era infilata un paio di jeans chiari e non stretti, un maglione verde e il suo
cappotto vintage ma non troppo – nel senso che gliel’aveva passato
sua madre in memoria della gioventù e che non vantava pretese
particolari. A concludere aveva infilato guanti lanosi, sciarpa formato
lenzuola e gli stivaloni neri da Marines che la accompagnavano dalle medie,
indispensabili per sopravvivere ai marciapiedi ghiacciati senza rimediare
fratture composite settimanali.
Del
resto ne sapevano, i Marines: avevano fatto il Vietnam, che non era proprio
come una passeggiata sul lungomare.
Fatti
loro, comunque.
“Giuuuuuù!
Muoviti, è tardiiiii!”
La
voce di sua madre risuonava come una sirena dei pompieri, ricordandole
l’infausto destino che l’attendeva. Giù era una ragazza
mediamente coraggiosa e fornita di un certo fatalismo, dunque si gettò
un’ultima occhiata dolente, fece alla propria immagine una linguaccia
propiziatoria e scattò fuori trotterellando giù per le scale,
senza aver fatto colazione, senza sigarette e senza avere idea di quale fosse
il numero del suo autobus.
Merda.