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Autore: Geilie    28/02/2015    2 recensioni
[Medea - Giasone/Medea, Modern!AU]
Giasone. L’anello debole della catena, alla fine, era stato Giasone.
Genere: Angst, Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Autore: Geilie
Titolo: Burn baby burn
Fandom: Mitologia e letteratura greca (Medea, Euripide)
Personaggi: Giasone/Medea
Rating: arancione; R
Avvertimenti: Modern!AU, Angst, Accenni a tematiche delicate (razzismo e infanticidio), Major Character Death
Parole: 1560 (Word)
Note: partecipa alla Battaglia navale organizzata da Pseudopolis Yard. Per maggiore chiarezza ho anacronisticamente scelto di mantenere i nomi antichi, dei luoghi oltre che dei personaggi. In realtà la Colchide era una regione caucasica situata a cavallo delle attuali Georgia e Russia, mentre la Iolco di Giasone, che fino a pochi anni fa era ancora un comune autonomo nella regione greca della Tessaglia, è oggi stata accorpata alla vicina e più grande città di Volos. Almeno il Mar Nero è ancora lì… Mi scuso in anticipo per il mio Giasone, che è fin troppo stronzo e probabilmente troppo bidimensionale: volevo una Medea pazza e volevo che a risaltare fosse il suo punto di vista, il prezzo l’ha dovuto pagare lui.
Prompt: Giasone/Medea, Modern!AU (by kuma_cla)



 
Burn baby burn

You told me yes
You held me high
And I believed when you told that lie
I played soldier, you played king
And struck me down, when I kissed that ring
You lost that right, to hold that crown
I built you up, but you let me down
So when you fall, I'll take my turn
And fan the flames
As your blazes burn

 
[Burn It Down - Linkin Park]
 
 
 
Giasone era arrivato per mare, un giovane di bell’aspetto e belle speranze e poco altro.
Era arrivato per mare con un gruppo di amici scapestrati, in cerca di avventura e magari di qualcosa da poter raccontare al suo ritorno, ma sembrava quasi che in patria non ci sarebbe voluto tornare mai. Dalla Grecia, era venuto con i suoi compagni, da una città di cui Medea a malapena conosceva il nome, e lì in Colchide aveva cercato di che colmare la sua sete di vita e di gloria.
Medea l’aveva incontrato a una festa sulla spiaggia, aveva insistito per offrirgli un drink dopo che nell’urtarlo accidentalmente gli aveva fatto cadere il bicchiere di mano; da lì, tra un grazie e un non c’è di che, la conversazione era sgorgata vivace, complici l’alcool e il clima allegro.
Avevano chiacchierato, avevano ballato, avevano riso insieme. Più tardi si erano acciambellati sulla sabbia davanti a uno dei grandi falò, la giacca di lui sulle spalle di lei; Medea gli aveva chiesto della sua terra e gli aveva raccontato della propria e, forse per caso, forse perché sedevano a due passi dal mare, aveva scelto di parlare del leggendario relitto della Vellodor.
Nessuno sapeva più se la storia fosse vera oppure no, ma ogni padre e ogni madre avevano narrato ai propri bambini, notte dopo notte, del meraviglioso vascello decorato d’oro e argento che, si diceva, si era inabissato nelle acque scure del Mar Nero mentre trasportava tutte le ricchezze e i beni preziosi accumulati in Occidente da un ignoto nobiluomo. Qualcuno parlava di hýbris punita, altri di tempeste e sfortuna, alcuni addirittura di un attacco di pirati, ma in realtà quando o perché la Vellodor fosse stata inghiottita dai flutti era un grande mistero. Quel che era certo era che ogni anno quel mistero attirava decine di cacciatori di tesori, turisti e semplici curiosi che passavano al setaccio le coste della Colchide sperando in qualche rinvenimento fortunato.
Giasone si era interessato alla storia talmente tanto che Medea gli aveva proposto di fargli da guida e accompagnarlo nei luoghi in cui tutti gli aspiranti Indiana Jones del Caucaso facevano tappa. Per lei, già incantata dal suo sorriso aperto e da quel suo accento curioso, non era che una scusa comoda per rivederlo. E si erano rivisti, nei giorni successivi, pur non avendo scoperto nessun favoloso tesoro. Si erano rivisti una, due, dieci volte, finché lui non l’aveva baciata sotto le stelle e non le aveva chiesto di seguirlo fino a Iolco, fino a casa, con promesse d’amore eterno in cui sembrava abbastanza ingenuo da credere.
Mio padre non me lo permetterà mai, aveva detto lei.
Allora fuggiamo via, aveva risposto Giasone, e i suoi occhi tanto azzurri e tanto limpidi, chissà come, l’avevano convinta davvero.
 
Per un anno, a Iolco, Medea era stata la donna dell’est che vestiva diverso, che parlava diverso, che pregava un dio diverso, che tutti spiavano sempre e nessuno guardava mai in faccia. Per un anno le voci delle malelingue l’avevano inseguita ovunque andasse, perché era sempre troppo o troppo poco e sembrava non fare mai la cosa giusta. Per un anno aveva sopportato, ingraziandosi i vicini di casa a colpi di sorrisi e piccole cortesie, e per quel lungo anno l’amore di Giasone era stato abbastanza. Dopo, quando le cose avevano pian piano iniziato a migliorare e suo padre aveva addirittura smesso di ignorare del tutto le sue lettere riconciliatorie, Medea era rimasta incinta e la sua gioia aveva preso il volo.
Il primo figlio era arrivato a dare nuovo brio alla sua vita come un acquazzone d’estate; all’improvviso non le importava più di essere percepita come un’estranea, o di non sentirsi mai davvero a casa, perché ogni giorno c’era una nuova sfida e tutta una nuova gamma di emozioni sorprendenti da provare. Non importava più di non essere la donna giusta, o la moglie giusta. Nel ruolo di madre, ora suo di diritto, Medea si era calata con devozione totale e fierezza degna di una leonessa, e d’un tratto gli sguardi che si posavano su di lei per la strada si erano fatti meno diffidenti e si erano, anzi, tinti di tenerezza.
E poi, completamente inaspettata, era arrivata anche la seconda gravidanza, il secondo figlio, un ulteriore raggio di luce capace di rendere ogni cosa ancora più brillante.
Tutto era sembrato perfetto, e perfetto era rimasto per quasi sette anni. Dieci in tutto da quando Medea era caduta nella tela di un paio d’occhi troppo azzurri e troppo limpidi e aveva seguito il cuore fino a Iolco. Dieci anni. Abbastanza perché la straniera venuta d’oltremare diventasse una perfetta cittadina greca, con amici greci, figli greci, abitudini greche. La lingua del suo nuovo popolo le era penetrata nelle ossa al punto che suo padre, quando parlavano al telefono, talvolta le doveva correggere la pronuncia di parole che aveva imparato da bambina e usato ogni giorno per tutta la sua vita e che adesso, all’improvviso, le uscivano di bocca troppo poco gutturali o troppo sibilanti. Ne ridevano insieme, anche se l’idea di perdere pezzo dopo pezzo la cultura dei suoi antenati le lasciava segretamente un gran vuoto dentro. A volte si chiedeva se la propria identità fosse stata sacrificata per una buona causa, se ne fosse davvero valsa la pena, e per farle tornare il buonumore ci volevano i sorrisi dei suoi figli. Certo che ne era valsa la pena, si diceva allora smettendo di rigirarsi la fede al dito; qualunque pena sarebbe sempre impallidita a confronto con le risate spensierate dei suoi due piccoli angeli. Certo che ne era valsa la pena... Eppure c’erano sempre nuvole nere in agguato, nel suo cielo.
Così, quando il sogno era crollato, Medea era andata in pezzi come una lastra di vetro, in mille frammenti minuscoli e trasparenti e affilati.
 
Giasone. L’anello debole della catena, alla fine, era stato Giasone. Lui che le aveva promesso l’eternità, e che da lei l’aveva ottenuta, si era rivelato infido e crudele come tanti uomini sanno essere.
Si era stancato di lei, se delle sue imperfezioni o della semplice quotidianità non era dato sapere, e si era invaghito di una certa Glauce: una giovane ereditiera incontrata chissà dove, bella e innocente come Medea era stata un tempo.
La pelle di Medea non era più così liscia, le sue gambe non più così toniche, le sue voglie meno pressanti. Glauce era tutto ciò che Medea non poteva più essere e Giasone aveva colto l’opportunità di evadere dalle proprie frustrazioni senza pensarci due volte.
Avevano litigato, ma lei si era detta disposta a perdonarlo, a dargli una seconda chance, e lui? Lui le aveva riso in faccia e le aveva detto che non avrebbe fatto nessuna differenza, che all’amore non si possono porre freni, che gli dispiaceva, davvero, ma non era colpa sua. Non era colpa sua, aveva detto.
Tutte balle. Era colpa sua se Medea si era lasciata tutto alle spalle fidandosi delle sue parole. Era colpa sua se aveva speso dieci anni a cercare di farsi accettare in un altro paese solo per amor suo. Era colpa sua se le aveva dato due figli e poi aveva deciso di abbandonarli, lei e loro, per il calore delle braccia di un’altra donna. Era colpa sua, tutta colpa sua.
E allora che la pagasse, aveva deciso Medea, e aveva continuato a pensarlo mentre una calma gelida s’impadroniva di lei. Avrebbe voluto distruggere ogni cosa, ogni mobile scelto insieme, ogni piatto in cui avevano mangiato entrambi, ogni oggetto su cui lui avesse posato gli occhi anche solo una volta.
Invece era rimasta seduta davanti a una finestra, le mani in grembo, una tazza di tè dimenticata da una parte, e aveva pensato e pensato per ore. Aveva preso e contorto ogni pensiero, smontato e analizzato tutte le ragioni. Aveva rimuginato, sola con se stessa, tanto a lungo da farsi venire il mal di testa.
Alla fine era scoppiata a ridere, e insieme a piangere, e se fossero arrivate prima le lacrime o prima le risate non avrebbe saputo dirlo. Aveva riso e riso e riso, fino a sentirsi svuotata, e a quel punto le era rimasto un solo pensiero, una sola abbagliante stella di follia.
Giasone non si era fatto scrupoli a buttarla via come una batteria usata, a mandare in fumo un’intera esistenza, ma Medea sapeva di poter risorgere dalle proprie ceneri. Ci voleva solo il fuoco. Un fuoco purificatore, che cancellasse il passato e l’aiutasse a riscrivere il futuro. Fuoco, per distruggere ogni residuo di quel falso sentimento con cui lui l’aveva soggiogata e tenuta legata a sé.
Fiamme per estinguere ciò che lui aveva giurato di amare, per insegnargli l’assenza e la vera sofferenza. Per fargli capire il dolore del perdere un pezzo di sé a causa di qualcun altro.
Aveva dato un sonnifero ai bambini, quella notte, e aveva lasciato aperto il gas in cucina. Aveva indossato il suo vestito preferito, rosso come il sole al tramonto, e si era seduta ad aspettare nella stanza dei suoi figli, un accendino in mano.
Giasone le aveva promesso l’eternità, tanti anni prima. Medea avrebbe mantenuto la sua promessa per lui.
Facendo scattare l’accendino, con la puzza di gas nelle narici e un guizzo di malizia negli occhi, pensò che nei ricordi l’avrebbe tormentato fino alla fine dei suoi giorni. Finché morte non ci separi, caro.
Poi tutto fu fuoco.


 
  
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