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Autore: Aleena    01/03/2015    7 recensioni
Nel regno di Lolth, ogni ottantotto anni i figli bastardi di Che'el Phish, la
Città Rossa, devono correre nell'arena. Non c'è possibilità di salvezza per i maschi, solo
una rapida morte.
Rakartha pensa che il suo sangue di femmina la salverà, ma la crudele divinità dei Drow,
Lolth, ha in serbo per lei una sorpresa che le cambierà la vita.
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Storia vincitrice dell'Oscar per il "Miglior Trucco e Acconciatura" agli Oscar EFPiani 2016
[1a classificata al contest "Sangue, Slash e Fantasy" indetto da Ynis sul forum di efp
2a classificata al contest "Of Monsters and Masters" indetto da La sposa di Ade sul forum di efp]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I fantasmi di Che'el Phish'
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  L’ultimo vero giorno di libertà di Rakartha fu quello in cui perse il suo nome.
Fino a quel momento aveva vissuto come in un limbo, isolata in un mondo in cui niente era reale, nemmeno lei. Se n’era accorta solo anni dopo, quando quella ragazzina non esisteva più.
Oh, non bisogna fraintendere: aveva sempre saputo di essere un prodotto con una data di scadenza, ma fino ai sessantanove anni aveva vissuto una vita più agiata di quella che si sarebbe potuta aspettare.
Una vita orgogliosa avrebbe detto poi, cercando di nascondere l’invidia e la nostalgia dietro un velo di violenza. Una vita falsa
La rimpiangeva, ovvio - chi sarebbe stata così stupida da non farlo? – e odiava quello che le aveva lasciato, quel senso di distanza e inutilità che la assillava ogni notte da quando era stata cacciata. Due volte rifiutata! Questo era troppo per qualunque jalill.
L’avevano portata in uno dei carceri-dormitorio più vicini alle fornaci della Terra e il caldo era infernale, una tortura appositamente studiata per fiaccare i ribelli e sfidare la resistenza fisica degli Ilythiiri – cosa che con lei stava funzionando. Prima c’era stata la necessità di aria fresca, pressante e opprimente, poi la sete e infine il disagio più grande, quello che rischiava davvero di farla impazzire: il bisogno di lavarsi.
Il suo corpo era coperto di sudore e i capelli, madidi, le cadevano il lunghi rivoli argentati sulla schiena, ormai quasi del tutto liberi dall’acconciatura che aveva sfoggiato fino a… quando?
Poche ore prima, valutò, analizzando il senso di fame appena accennata e la cicatrizzazione delle ferite.
Poche ore…
Non riusciva a credere che quella sarebbe stata la sua vita, d’ora in avanti e fino al giorno della sua morte… liberazione benedetta! Non contava più di sopravvivere alla Corsa, non aveva più speranze: quelli come lei erano destinati al macello.
Come lei… certo. Non c’era mai stato nessuno come lei ma, sfortunatamente, Che’el Phish ne era piena. Traboccante. Straripante! L’ironia avrebbe potuto ucciderla. 
Esasperata dal ricordo Rakartha gridò, mettendo tutta la frustrazione che aveva in quello sfogo vano. Avrebbe voluto demolire quella cella mattone per mattone – e forse avrebbe potuto, se non fosse stata così sfinita. Qualcuno doveva aver pensato che la sua furia sarebbe stata distruttiva perché nella stanza non c’era nessun oggetto, solo solida roccia e il ferro surriscaldato della porta.
Per le otto zampe della Dea, quant’è umiliante tutto questo! Si ripeteva in un’ossessiva litania mentre le sue mani chiare passavano fra i capelli bianchi senza accorgersene, in maniera ossessiva, pettinandoli come era solita fare una volta. Ogni tanto qualcuna delle pietre che aveva inserito fra i nodi delle trecce cadeva a terra, tintinnando sommessamente prima di fermarsi a guardarla, terribilmente simile a un occhio vitreo. Un sassolino cavo e sferico, liscio, troppo piccolo per costituire una vera minaccia per le guardie e troppo grande per tentare di infilarlo in gola e porre fine a quel martirio.
Non che la via del suicidio l’allettasse molto, in realtà: aveva ancora abbastanza amore per sé stessa da trovare quell’ipotesi inconcepibile… ma quella cella aveva tanto tempo per farle cambiare idea.
Da qualche parte, là fuori, qualcuno – diversi qualcuno, a giudicare dall’eco dei passi – avanzò lungo il corridoio, chiacchierando piano. Guardie, probabilmente. Al limitare del suo campo d’ascolto, Rakartha fu sicura di aver sentito il suono di una risata e la sua furia si riaccese. Parlavano di lei e di quel Generale, senza dubbio!
Il solo nome di Dresden era diventato come una maledizione: era lui, lui!, la causa di tutto. Incarnava tutte le caratteristiche dell’imbecillità maschile: borioso, sicuro di sé e un completo incapace sotto ogni punto di vista. Era stata gente come lui a darle una speranza e a strappargliela di dosso insieme ai vestiti e all’orgoglio, lasciandola solo con la vergogna, degli stracci e quelle sfere di pietra senza valore né utilità. Come lei.
Quei sassi che la fissavano, giudicandola come facevano tutti da quando era nata. Ne raccolse uno quasi senza rendersene conto e lo tenne in mano, fissandolo con odio mentre nella sua testa tutto ricominciava, ancora.
 “Cos’è questa?” le aveva chiesto Dresden, togliendo una sferetta di pietra da sotto il fianco e mostrandola nel palmo.
“Una Rakartha.” gli aveva risposto lei, contraendo le labbra in quella piega affascinante che aveva provato per giorni. “È una pietra comune, facile da lavorare ed estremamente resistente.” Aveva accentuato il sorriso e si era seduta a sua volta sul letto, accanto al Generale, sollevando l’orlo della gonna scura fino quasi al fianco sinistro con un movimento apparentemente casuale.
“Questo lo so. Ma che ci fa qui?”
“Deve essere sfuggita.” Rakartha si era accorta da subito dell’eccitazione di quello jaluk. Non le aveva tolto gli occhi di dosso da quando, assieme alle altre, aveva sceso la scalinata della casa d’addestramento. Lei era la più bella, quella sera, e lo sapeva: il trucco pesante accentuava la sensualità dei suoi occhi e la morbidezza dei lineamenti da ragazzina appena più di quanto lo facessero le figure scialbe e patetiche delle tre compagne al suo fianco. Anni di servilismo e pettegolezzi le avevano fatto guadagnare il privilegio di poter chiedere a una maestra l’abito che, nella prigione, ancora indossava: una veste rossa ampia e morbida che le lasciava scoperte solo le braccia e la schiena, fin quasi al sedere. Meraviglioso prima e ora ridotto a un brandello di stracci sporchi.
“La tua acconciatura è alquanto singolare, ragazza.” Aveva commentato Dresden, asciutto. L’imbarazzo era in costante lotta con l’orgoglio, in lui, e la facilità con cui Rakartha l’aveva capito dimostrava quanto profonda fosse la debolezza del maschio. Non ragiona, come tutti loro.
Dresden credeva di aver vinto, di star vivendo il momento più bello per uno jaluk: quello in cui poteva essere lui a scegliere una femmina e a farle quello che voleva.
“Non è una semplice acconciatura. Sono io. Quella…” aveva spostatole mani, lentamente, sul viso maturo dello jaluk, in una carezza che aveva il sapore graffiante delle unghie affilate. Poi si era avvicinata col viso a quello dell’altro e aveva ruotato il capo per mostrare le altre sfere di pietra che le adornavano i capelli. “è il mio nome. Anche io sono Rakartha. Ricordalo.” Era sensuale e languida mentre le dita scivolavano alla camicia di lino bianca, slacciando i piccoli bottoni d’osso. Il generale si era lasciato sfuggire un gemito di soddisfazione, e Rakartha quasi una risata di scherno.
Non aveva ancora capito che era lei che ci guadagnava. Sognava di perdere la verginità da anni, ormai - da quando il suo corpo aveva cominciato a passare dall’infanzia all’adolescenza. E ora che era una jalill adulta aveva finalmente l’occasione di mettere alla prova l’arte della seduzione che così duramente aveva imparato.
“C’è qualcosa che desideri, Generale Dresden?” aveva domandato Rakartha, ben sapendo di star stuzzicando un nervo scoperto… in tutti i sensi. Sentiva il corpo dell’altro irrigidirsi mentre le sue labbra scivolavano lungo il petto scuro, lasciando segni vermigli di rossetto sulla pelle scoperta. Lui non si muoveva: non era in grado di prendere l’iniziativa, non lo sarebbe stato nemmeno sotto tortura.
Anche il corpo di Rakartha rispondeva: era vicina a soddisfare una curiosità che nutriva da tempo e questo la eccitava molto più del maschio che le affondava le mani nei capelli, spingendola verso il basso con urgenza.
Fin da quando le era stato detto che jalill e jaluk erano diversi, Rakartha aveva provato una genuina curiosità verso l’altro sesso, un mistero sconosciuto in una casa di sole femmine. Cosa c’era di diverso in loro rispetto a lei? Si domandava, osservandoli e desiderando. Provava un’attrazione quasi irresistibile per i maschi, per il loro corpo: cos’è che avevano che poteva interessare una jalill abbastanza da accoglierli nella propria intimità?
Niente di così eclatante, pensò con rabbia. Solo la prima di una serie di grandi delusioni.
Ma in quella camera, quando era ancora sé stessa, il mistero era l’unica cosa che le faceva sopportare le debolezze e l’odore di Dresden – lo stesso dolciastro olezzo che sentiva su di sé nella prigione e che la nauseava, catapultandola ancora indietro, ancora a lui.
Dresden l’aveva lasciata andare e aveva preso ad armeggiare con la lampo dei pantaloni. Lei l’aveva lasciato fare e si era avvicinata, troppo presa dalla scoperta.
Fu quando il sesso dello jaluk fu completamente libero che Rakartha capì che c’era qualcosa che non andava.
Aveva accettato le somiglianze tra loro con la passiva, tranquilla accettazione che è la conseguenza dell’ignoranza, ma ciò che vide l’atterrì, sconvolgendola. Un attimo di panico fu tutto quello che le occorse per scrollarsi di dosso la delusione e la sorpresa prima che il suo cervello, allenato a sopravvivere più che a ogni altra cosa, la spingesse ad agire.
Si era sollevata di scatto, con tutta la violenza che l’adrenalina poteva scatenare, e si era allontanata dal maschio di un paio di spanne prima che lui l’afferrasse a una caviglia.
“Eh no, ragazzina, non funziona così.” Le aveva detto, gli occhi folli che continuavano a guardarla con una passione malsana. “Ho riportato una grande vittoria e tu… tu sei l’unico premio che avrò. Quindi te ne starai zitta e buona o ti ci farò stare io.”
In quel momento Rakartha non aveva pensato più a niente se non a fuggire via da quell’essere. Si era girata, scalciando e aggrappandosi alla struttura del letto, ma lui le aveva afferrato il vestito e aveva tirato, sbilanciandola. Dresden si era allora gettato in avanti e l’aveva sovrastata, sollevandole il vestito e scoprendo le natiche.
Se solo avessi chiesto... ricordava di aver pensato, disperata. Aveva avuto meno di un vago accenno sul sesso dalle sue insegnanti e tanto le era bastato. Lo scoprirò da sola, sarà più divertente si era detta. Bell’affare!
“Resta… Resta così…” aveva provato a dire, sperando che quelle parole avessero il senso che lei intuiva. Doveva essere stato così perché sentì l’altro cominciare a farsi strada… prima di fermarsi.
“No, ragazzina. Non così. Io non sono una bestia da soma. Voglio guardarti in faccia.” Le disse, tirandola indietro. Lei gridò e chiuse gli occhi, cercando una vita di fuga nel panico della sua mente.
Ricordava un frusciare di vesti, il suono dei suoi piedi che sbattevano contro il petto di Dresden un paio di volte prima di venire allontanati... e poi il silenzio.
“Ma che cazzo…” aveva detto il Generale, rimanendo immobile. E Rakartha, improvvisamente lucida, aveva aperto gli occhi in tempo per vedere la sorpresa sul suo volto trasformarsi in rabbia e imbarazzo.
Lui aveva impiegato più di lei a reagire. Si era ripreso quando ormai Rakartha era già corsa verso il fodero della pistola, abbandonato sull’unica sedia della stanza, accanto alla giacca di pelle di drago del maschio. Ricordava tutti i dettagli della corsa con estrema precisione: la sua mano chiara che si allungava; l’urlo di rabbia alle sue spalle; il pavimento gelido sotto i piedi; la sensazione di vuoto quando il vestito l’aveva tradita per la seconda volta, fermandola a pochi centimetri dalla fondina.
Ricordava tutto con precisione fino a lì, e poi era solo confusione: il rumore delle guardie che entravano e il suono dei calci, il dolore che aveva provato quando Dresden l’aveva colpita al volto e al sesso, ripetutamente, e l’eco agghiacciante delle sue parole.
“Chi ha organizzato questo scherzo del cazzo?” urlava, isterico. Dalla stanza si era trovata nell’atrio e poi giù, scaraventata dalle scale in una caduta che l’aveva costretta, poi, a ri-articolare il braccio. E improvvisamente non erano più soli, improvvisamente c’erano le altre jalill della casa che gridavano e gli uomini della guardia che si scusavano, le si stringevano intorno, le strappavano il vestito per vederla.
“Chi cazzo è stato?” aveva continuato Dresden e poi, come una sentenza definitiva, aveva gridato “Chi cazzo ha messo un maschio travestito da jalill nel mio letto?”
Non c’era stato posto per altro, dopo quello.
Rakartha non ricordava nulla del processo che era seguito, né delle accuse che le avevano mosso. Sapeva che qualcuno aveva voluto metterla a morte e che qualcun’altra – una Maestra, forse? – aveva detto che sarebbe stato più divertente “rimetterlo al suo posto”.
Una parte di Rakartha era d’accordo con quel verdetto: la metà più sadica e femminile di lei, quella che era ancora convinta che, se lo avesse voluto, si sarebbe liberata da quell’arnese che le causava vergogna e le impediva di tornare a essere una jalill. Di tornare a sperare di poter sopravvivere alla Corsa.
Un’altra parte di lei, però, avrebbe voluto prendere un’arma e sparare in bocca a quella stronza… e, per buona misura, a tutti quelli che l’avevano ridicolizzata.
Non lo avrebbe mai potuto fare, lo sapeva, ma era sempre meglio sognare la loro morte che pensare alla propria. Infondo, non c’è molto altro da fare in questa prigione.
Se avesse potuto provare pena per qualcuno all’infuori di sé stessa, avrebbe cominciato a dispiacersi per la vita che la sua gente aveva imposto agli jaluk… ma non ne era capace. Come avrebbe potuto vivere come un maschio? Lei non era come loro! Non poteva esserlo!
Dei passi pesanti rimbombavano nel corridoio, seguiti dal ritmico cozzare di chiavi di ferro e serrature. Gli altri prigionieri sciamavano fuori in silenzio, per la maggior parte, incamminandosi subito lungo i corridoi e fino a chissà quale lurida fogna. Quando anche la sua cella venne spalancata lei non si mosse che per coprirsi il sesso. La guardia, un maschio senza un occhio, estrasse una pisola dalla fondina con la calma dell’abitudine.
«Non fare il difficile, principessa, o sarò costretto a spararti nelle palle.» le disse, col tono falso di chi abbia preparato la battuta in anticipo, e qualcuno alle sue spalle rise sguaiatamente. Un maschio completamente calvo si affacciò e la squadrò, seguito a ruota da altri due.
«Per la Dea! Non solo è albino ma… tutto quel trucco! È la cosa più schifosa che abbia mai visto. Quasi peggio di te, Zirag.» disse il pelato con una smorfia, e gli altri risero.
«Sta attento a quello che dici, coglione, o alla fine del turno te lo faccio trovare nel letto.» minacciò il primo, estraendo la pistola come avvertimento.
«Non lo toccherei nemmeno se fosse Matrona Chelyrra in persona a ordinarmelo!»
«Davvero? Allora muoviti e vallo a prendere. E tienilo coperto: non ho voglia di vedere se le storie che dicono sono vere!»
«Paura che ce l’abbia più grosso del tuo?» domandò il pelato afferrando una corda di metallo che teneva legata alla cintura. Avanzò di qualche passo nella piccola cella e fissò Rakartha con malcelato disprezzo mentre tendeva  il cavo. Poi si mosse e lei non riuscì a sopportare l’idea di venire costretta ancora una volta. Si alzò con uno scatto, ringraziando la Dea per averle donato un addestramento decisamente migliore di quello che avevano avuto quegli animali che si credevano Ilythiiri.
«Non mi toccare, jaluk, o ti spezzo la mano.» disse, allungando un dito chiaro davanti alla faccia, in tono di sfida. L’unghia, fino a poche ore prima laccata di rosso, era spezzata. «Mettete giù quelle armi, imbecilli. Se voi non toccate me con quelle luride mani, io non toccherò voi, e forse mi risparmierò qualcuna delle malattie che vi portate addosso. E trovatemi dei vestiti, per la Dea!» sbottò, in un tono di comando che la mise a suo agio. Era quello, il suo posto.
L’uomo abbassò le mani e le fece un cenno beffardo, indicandole la porta senza abbassare gli occhi – un gesto di sfida aperta che lei raccolse. Fu questo, forse, a distrarla: i tre alla sua destra le furono addosso prima che avesse avuto il tempo di rendersene conto. La ripresero di nuovo a calci nelle palle e, mentre ancora sperava che a forza di dolore e percosse quelle inutili appendici le cadessero, le guardie la costrinsero ad alzarsi e a camminare, scalza e nuda, lungo un corridoio e fino a una porta aperta, oltre la quale c’era solo terra battuta e una grande fossa. La spinsero sul bordo e la costrinsero a guardar giù, verso i maschi coperti di sangue che si azzuffavano a meno di tre metri da lui.
«Benvenuto a Obsul Renor, brutto scherzo della natura.» gli disse una guardia – forse il pelato, forse uno dei ragazzini che avevano riso tanto – prima di dargli una spinta. «Non vedo l’ora di vederti Correre!»


 


Piccolo Spazio-Me: questa storia è un esperimento, nato da un'idea assurda di cui vi siete già fatti un'idea, credo :D 
Fatemi sapere che ne pensate mi raccomando ;)

Passate a trovarmi anche qui > RELEESHAHN


 




Storia vincitrice dell'Oscar per la miglior descrizione fisica del personaggio (Rakartha/Rakhart). Sono troppo fiera di questa ragazza :'D




 

Piccolo dizionario:
 
Jalill: Femmina appartenente alla razza Drow
Jaluk: Maschio appartenente alla razza Drow
Ilythiiri: “Drow” in lingua drowish
 
“Maschio” e “femmina” sono, come mio solito, preferiti a “uomo” e “donna” perché questi ultimi indicano i due sessi nella razza umana, quindi sarebbero troppo specifici in un universo fantasy.
 
Lolth (la Regina Ragno): è la dea più venerata e potente nella società Drow, è capricciosa e crudele ed è solita mettere i suoi seguaci uno contro l’altro, affinché solo i più forti, i più crudeli e i più infidi sopravvivano per servirla. Solo le femmine Drow possono diventarne sacerdotesse.
 
Jaracas: è il nome di una specie di vampiro brasiliano che si presenta sotto forma di serpente. Per questo l’ho scelto per il mio personaggio.
 
Qualche info:
 
Drow (o elfi scuri ): sono splendidi ma malvagi elfi dai capelli bianchi e dalla pelle nera come l'ebano. Sono di bassa statura e hanno lineamenti aggraziati, ma a differenza degli altri elfi hanno la pelle sempre e solo nera (con rari casi di albinismo, nel qual caso la pelle è di color bianco avorio) e capelli bianchi fin dalla nascita, che ingialliscono o ingrigiscono con l’avanzare dell’età. La maggior parte dei Drow ha occhi rossi e sono in grado di vedere anche nel buio totale grazie all’infravisione: la capacità di avvertire trame di calore attraverso l’aria e la roccia. Hanno inoltre un udito e un senso tattile estremamente fini e posseggono un'intelligenza e una prontezza mentale che gli offrono un vantaggio intellettuale su gran parte delle altre creature.
La società drow è composta da una gerarchia matriarcale: le donne occupano tutte le posizioni di potere (tra le quali quelli di capofamiglia e di sacerdotessa di Lolth), mentre i maschi, sia nobili sia popolani, devono sottostare al volere delle loro Matrone (coloro che comandano le famiglie nobili) e vengono impiegati come guerrieri o incantatori o mercanti, un ruolo considerato degradante e quindi riservato esclusivamente agli uomini.
Altro QUI
 
Variazioni personali:
 
Innanzitutto, l’universo in cui i miei personaggi si muovono non è quello di D&D ma il mio personale, anche se riprendo la mitologia tipica della razza.
Per quanto riguarda la vita media, a seconda del manuale (o sito) che si consulta le informazioni cambiano. Nel mio caso il ciclo di sviluppo di un Drow (infanzia/fine adolescenza) è di circa 200 anni, e la loro vita ha durata potenzialmente infinita (come quella degli Elfi di superficie), con un invecchiamento progressivamente più lento che è visibile solo dopo il primo millennio. Ovviamente quasi nessuno arriva oltre i primi 600/700 anni di vita, data la forte competizione interna alla società.
Le femmine Drow sono sacerdotesse con magia innata, che deriva dal favore dalla Dea ed è attiva solo nel suo dominio d’influenza (sottosuolo). I maschi Drow sono quasi esclusivamente combattenti, raramente maghi: non hanno magia innata. Non possono presenziare ad alcun rito (tranne che come offerte sacrificali) e vivono la religione tramite il servizio e la devozione alle Matrone e Sacerdotesse, sotto l’occhio vigile della Dea.
Gli albini non sono rari a Che’el Phish, la città più grande e popolosa del sottosuolo: la Dea li usa come segno del proprio scontento. Hanno la pelle di tinte dall’avorio al grigio pallido, capelli bianchi e occhi rossi, raramente viola cupo (estremamente inusuale fra le razze del sottosuolo dunque considerato di cattivo auspicio). La loro infravisione è meno potente, rendendogli necessaria almeno un po’ di luce per vedere correttamente. L’insofferenza al sole e alle fonti luminose è minore, ma queste comunque li danneggiano. Nella società, le femmine albine sono considerate alla stregua dei mercanti (“tollerabili finché sono utili e con pochi diritti”) anche se molti dei maschi, vuoi per il condizionamento o per la paura della sfortuna, non infieriscono troppo su di loro, tributando il rispetto minimo. Gli albini maschi, invece, hanno un valore appena superiore aglio schiavi, ma nettamente inferiore al più stupido e inutile dei Drow “puri”. Entrambi i sessi vengono allevati alle tradizioni e alla cultura del proprio popolo sia nel caso sopravvivano e si dimostrino utili, sia perché questa consapevolezza aumenta la sofferenza e la frustrazione degli albini, soprattutto delle femmine.
Essendo contemporaneamente poco graditi alla stessa Dea e un “dono” inviato ai suoi schiavi, essi non possono essere sacrificati da infanti nel Tempio e devono essere allevati, possibilmente per uno scopo. Nell’antichità venivano spesso usati come “carne da macello” negli eserciti ma, dopo la Grande Catastrofe (di cui si accenna nella prima storia che fa parte di questa raccolta, “L’angolo nel Buio”, attualmente in fase di revisione), si è evitato di dar loro ruoli che potessero portarli ad accumulare troppo potere o sviluppare ambizioni. Nel tempo attuale, la Corsa è un espediente accettato per eliminare la vergogna.
Un albino è trattato dal popolino alla stregua di uno iettatore: toccarlo, parlargli o stargli troppo vicino equivalgono a cercare la sfortuna – essendone consapevoli, spesso gli albini giocano su questa superstrizione, minacciando, terrorizzando o intimidendo per scopi personali o per puro divertimento. 
 
  
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