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Autore: Mokusha    01/03/2015    1 recensioni
[Raccolta di OS, DallasBuyersClub!Verse]
Il freddo era una sensazione persistente, da quel giorno.
Non se ne andava mai.
OS 1 - Disfigured. Destroyed. Damned. Dead.
OS 2- The soul underneath the skin.
OS 3 - Little ray of sunshine
OS 4 - Take ne to church
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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take me to church.

(RED SHOES - PROMISE ME I'LL DIE LIKE A PERSON)



L’aria le scompigliò i capelli mentre entrava nel cimitero, superando il grande cancello in ferro battuto nero, spalancato, come al solito.
Lì era tutto grigio e tutto morto.
Odiava quel posto.
Lo detestava con tutto l’odio che era capace di provare, che aveva scoperto essere molto.
Lo odiava con ogni singola fibra del proprio cuore, del proprio essere, lo odiava così tanto che la estenuava.
Eppure non riusciva a starci lontana.
Ogni giorno, da quel giorno, i suoi piedi calpestavano quel lastricato, il ticchettio vuoto delle sue scarpe sul cemento era l’unico rumore a rompere quel silenzio innaturale, morto, che avvolgeva quel posto.
Le lapidi erano tutte uguali.
Anonime.
File e file di pietre morte.
Morte.
Quella di Rayon si trovava nella dodicesima fila, dopo la fontana, lapide numero ventisei.
Un percorso automatico, ormai i suoi passi si muovevano tra le tombe senza che lei nemmeno se ne rendesse conto, a testa bassa.
Ma quella sera, non era ancora arrivata a metà strada, qualcosa catturò la sua attenzione.
Qualcosa che le fece alzare le testa di scatto, e sforzare di mettere a fuoco, nonostante le lacrime che si liberavano presuntuose, ogni volta che sorpassava l’entrata di quel posto, le annebbiassero la vista.
Cominciò a correre, bruciò la distanza che la separava dal suo blocco di pietra in poche falcate, la borsa le scivolò dalla spalla, bloccandosi nell’incavo del suo gomito non appena le sue ginocchia si schiantarono a terra, e le sue mani cominciarono frenetiche a cercare di cancellare lo sfregio, che, sfacciato, deturpava la superficie liscia del marmo.
‘A B O M I N I O’.
Non era la prima volta che quelle lettere di vernice nera venivano vomitate sulla lapide.
E ogni volta, lei si impuntava e insisteva, insisteva fino all’isterismo per farla sostituire, e, puntualmente, qualche settimana dopo lo scempio si ripeteva.
Questa volta coprivano tutta la scritta che lei aveva farci incidere. Niente nomi, niente date. Solo ‘a little ray of sunshine’.*
Il cuore le si spezzò, e poté percepire ogni frammento schiantarsi al suolo.
La terra era fredda.
Il freddo era una sensazione persistente, da quel giorno.
Non se ne andava mai.
Fredda era la terra, il marmo sotto le sue mani, il vento sulla sua pelle.
Fredde erano le lacrime che la accecavano. Fredda era l’aria che i suoi polmoni cercavano disperatamente di incamerare, ma che le si incastrava in gola, facendola singhiozzare singhiozzi freddi.
Di quelli che si fanno largo nella gabbia toracica aprendola, sbriciolandola, lasciando costole spezzate a perforare il cuore ad ogni battito.
Le sue unghie continuavano a grattare la pietra, spezzandosi, le sue dita si consumavano nel tentativo di tirare via quelle stupide, malvagie, lettere.
Ignorava il sangue, che aveva inevitabilmente cominciato a scorrere da quella carne viva e martoriata.
Ignorava il dolore, badando solo a quello che la divorava da dentro, straziante.

“Promettimelo.”

La sua voce era nella sua testa, delicata, dolce, sottile, stanca.
Era nella sua testa ed era chiara, nitida, reale e continuava ripetersi.
“Promettimelo.”
Continuava a disperarsi, inconsolabilmente, i singhiozzi aumentavano d’intensità, e pensava che forse, ad un certo punto il cuore avrebbe smesso di rompersi e si sarebbe semplicemente fermato.
Bloccato.
Congelato, lì, in quel  freddo paralizzante.

Continuava a lottare con quella vernice, sperando di poterla pulire con le proprie lacrime, con il proprio dolore, perché era sofferenza che si aggiungeva al tormento, e non c’era pace, sollievo, espiazione.
Ron aveva gridato, bestemmiato, inveito contro la medicina, e contro Dio.
Eve aveva quasi distrutto un’intera parete del suo soggiorno, sfogando tutta la propria rabbia con un martello in mano.
Lei no.
Aveva urlato dentro, in un terremoto tremendo, devastante, ma silenzioso.
La miseria era tutta dentro di lei, segreta, inespressa. Zitta.
Come un guscio invisibile che la avvolgeva, separandola dal resto del mondo.
Gli altri l’avevano superato, forse accettato.
Lei era rimasta indietro. Aggrappata alla sua mano, riflessa nei suoi occhi, rifugiata nel suo immenso, immenso cuore.

Adesso erano le mani di Ron che si erano chiuse sulle sue, incuranti del sangue, dello sporco e delle ferite. Le avevano bloccate, e l’avevano tirata contro il suo petto, contro la propria camicia consunta. E l’avevano cullata.
Perché adesso lei stava urlando, e crollando, si stava disfacendo su quella tomba, tra quelle mani.
Ron sapeva di tabacco, pelle, Texas e di qualcosa di caldo.
“Shhh.” i baffi le pungevano la fronte, ma non le importava, aveva bisogno della sua stretta, ancora salda, ancora forte.
‘Promettimelo.’ il sussurro di Rayon era ancora nella sua testa.
“Shhh” ripeté lui “E’ tutto okay. La faremo sistemare. La faremo sistemare, Shhh.”
Lei tremava e si spezzava contro il suo corpo.
“Andiamo.” le disse. Era gentile. Era raro che lui fosse così gentile con qualcuno. “Vieni, andiamo. Andiamo a casa.”
Mentalmente, si chiese quale casa intendesse. Casa non esisteva più. Casa era…
“Da Eve. Sistemerà queste mani.”
Le uniche ferite che potessero essere sistemate.
Ron le accarezzò i capelli, prima di tirarsi su e trascinarla in piedi con lui.
“Vieni.” la invitò, sostenendola “Ti tengo io.”
E lei pregò che ci riuscisse davvero.

Più tardi.

Il fuoco era acceso. Aveva una coperta sulle spalle. Le mani avevano smesso di sanguinarle, medicate e bendate, tremavano reggendo la tazza di the caldo corretto con qualcosa di sicuramente più forte.
“Stavo pensando…” la voce le uscì graffiata, roca per colpa di tutti quei singulti che le avevano ferito la gola. 
Eve e Ron alzarono lo sguardo verso di lei, titubanti. La guardavano come se fosse una granata chi minacciava di esplodere e distruggere tutto da un momento all’altro.
Strinse più forte la sua tazza, e tentò di schiarirsi la voce.
“Prima, al cimitero…” riprese “Stavo pensando ad una…” si interruppe per un momento, quasi smarrendosi. “Ad una promessa che mi aveva chiesto di farle…”
Evie la guardò, stupita, poi il suo solito sorriso dolce le comparve sul volto.
“Ti aveva chiesto di prometterle qualcosa?”
La ragazza annuì.
“L’ultima volta che era stata ricoverata in ospedale. Prima che…” la frase le si spense in gola, di nuovo. Abbassò lo sguardo. La presa sulla tazza aumentò ancora, tanto che le nocche delle sue mani sbiancarono. “Insomma, prima…” concluse in un soffio.

Le labbra erano screpolate, secche. Dei tagli le aprivano, spesso sanguinavano.
Rayon se le umettò con un sospiro, come se anche quel semplice gesto le costasse una fatica immensa. Ma poi la guardò e le sorrise.
La ragazza strinse la sua mano ancora più forte, le sue dita agganciate alle proprie.
Quel sorriso, la vita, l’amore nei suoi occhi la scaldava.
Erano casa.
Erano casa anche in quella stanza d’ospedale asettica e vuota.
Erano casa in tutta la  solitudine che le circondava.
“Ehi…” la salutò in un bisbiglio.
Le sorrise, in rimando. Non le avrebbe lasciato la mano nemmeno se l’avessero trascinata via a forza. 
“Ray…” mormorò “Come ti senti?”
Lei si strinse nelle spalle, diventando ancora più piccola, ancora più fragile.
“Starò meglio.” rispose.
Perché lei era così. Affamata di vita. E sogni. E condannata.
La ragazza annuì.
“Ma devo chiederti una cosa.” continuò.
Lei annuì, subito. “Tutto quello che vuoi.”
Rayon deglutì, e chiuse gli occhi per un momento. Quando li riaprì, quando la investì di nuovo con quell’azzurro, l’azzurro più caldo, accogliente e struggente del mondo, erano lucidi. Immensi.
“Dimmi, Ray-Ray.”
L’altra esitò per un momento.
“Ho bisogno…” si bloccò, come a riflettere su ciò che stava per chiedere. “Di una promessa.”
Sfuggì agli occhi della ragazza solo per un millesimo di secondo, ma la percepì irrigidirsi, sulla seggiola accanto al suo letto.
“Ray…” la riprese.
“No, no, ascoltami” sentenziò “So che non vuoi discuterne. Che non ci vuoi pensare. Ma, cara, questa volta probabilmente mi riprenderò. Ma una delle prossime volte non succederà. Io sto per… Io ho bisogno che tu…”
“Dimmi.” tagliò corto la ragazza, un po’ troppo bruscamente. Se ne accorse per il veloce lampo di dolore che attraversò quell’azzurro sconfinato. Se ne pentì immediatamente.
“Dimmi” ripetè più dolcemente.
“Promettimi” iniziò “Promettimi che morirò come una persona.” spiegò, sottolineando l’ultima parola.
“Oh, Ray…”
“Come una persona.” disse di nuovo “Come la persona che sento di essere.”
La guardava, insistente, e i suoi occhi, i suoi occhi vivi, e sognanti, e affamati la guardavano e le spogliavano l’anima. E la supplicavano. Con candore, onesta e bisogno.
La ragazza ingoiò le proprie lacrime.
“Certo.” bisbigliò. “Certo.”
“Promettimelo.” insistette.
Sollevò una mano e la accarezzò. Le piaghe erano ruvide sotto la punta delle sue dita.
“Te lo prometto.”



“Intendeva come una donna.” precisò, sotto lo sguardo commosso di Ron e della dottoressa. “Dicendo ‘come una persona’, intendeva come una donna.” spiegò.
“Sentirsi una donna, essere trattata come una donna.” continuò, sollevando la testa per guardarli “Era l’unica cosa che la facesse sentire una persona. Per quello ho dato di matto per il vestito. E per le scarpe. Non avevo fatto in tempo a comprarli prima perché non avevo fatto altro che rimandare quel momento. Sapevo che era vicino, ed inevitabile. Stava male da giorni, quella mattina stava addirittura peggio del solito, e aveva freddo, e…”

…il riscaldamento si era rotto, così era uscita a comprare una stufetta, un pigiama più pesante e una crema per quelle piaghe che continuavano a rompersi.
Quando era rientrata Rayon era sul letto, aveva tentato di truccarsi. E tossiva, sanguinava, piangeva.
Era spaventata, e per la prima volta nella sua vita voleva scappare. Da sé stessa, dalla sua malattia, da Raymond, dalla morte.
L’aveva spogliata, rivestita, messa al caldo. Le aveva tenuto la mano. Forte. Sperando che una stretta di mano potesse restituirle quella vita che voleva così tanto.
E aveva pianto, guardandola piangere.
“Hai sempre avuto degli occhi così belli.” le aveva detto, sul suo ultimo respiro.
Prima che Ray, quegli occhi li roteasse, e poi li chiudesse, negandole il suo azzurro caldo per sempre.
La giovane aveva sentito la sua mano abbandonarsi sulle sue. Aveva visto la vita scivolarle di dosso.
Edera stato allora che il freddo si era abbattuto su di lei.
Era rimasta a guardarla per un’eternità. Da sola, ad ascoltare il silenzio.
Poi era arrivato Ron. Poi Evie. Poi l’avevano portata via. All’obitorio.
E avevano iniziato a parlare di funerale, di bare, lapidi, e chiese.
Volevano celebrare la funzione nella cappella della chiesa, la sera stessa.
E lei aveva cominciato a dire che no, no, no, voleva una chiesa vera.
E le era tornata in mente la promessa. Ed era fuggita via. Via da Ron, via da Evie, via dall’ospedale, aveva setacciato New Orleans, ogni negozio, ogni mercatino, come una furia disperata che gira in tondo senza sapere dove abbattersi.
“Mi piacciono quelle scarpe.” le aveva detto una volta, accennando ad un paio di scarpe rosse che lei indossava. Ma le sue erano troppo piccole, e consumate, quindi doveva trovarne un altro paio, adatto a lei.
E aveva corso, corso e corso, di nuovo nell’obitorio, tra quei corridoi morti.
Era arrivata con il fiato in gola e le scarpe rosse in mano. E le avevano detto che la bara era già chiusa. Non aveva capito, allora aveva chiesto semplicemente di riaprirla.
Le avevano risposto che non si poteva.
Allora aveva cominciato a piangere. E ad urlare. Ad urlare che dovevano. Non importa se avessero dovuto cambiare le cassa, dovevano riaprirla. Dovevano. E piangeva, urlava e agitava le scarpe, ripetendo che dovevano aprirla per metterle le cose che lei aveva appena comprato.
Alla fine era scesa la dottoressa, e le aveva dato ragione, e finalmente l’avevano riaperta.
E lei era fredda, e pallida, e rigida. Ma le avevano messo quel vestito nero con la gonna a ruota e le scarpe rosse. E poi lei l’aveva truccata. Le avevano detto di andare via ma lei non aveva ascoltato.
Ed era bellissima. 


“Sembrava Biancaneve” confessò, il suo sussurro spezzato inumidito dalle lacrime. Non più violente e rabbiose, ma delicate, tristi.
“L’ho sempre pensato.” 
Un sorriso, lieve, malinconico, dolce, le increspò le labbra.
“Sembrava Biancaneve.”





*in italiano “piccolo raggio di sole.” Non rende, il gioco di parole starebbe in “Ray”, per l’appunto “raggio”, ma anche diminutivo di Rayon/Raymond.

Note autrice: Voi non potete capire, ogni volta credo di aver dato a sufficienza con questo personaggio, poi l’ispirazione torna e io mi devasto.
Non posso dirvi le lacrime che mi è costata questa One Shot.
Spero piaccia anche a voi, e che abbiate voglia di spendere un minutino a farmi sapere il vostro pensiero.
Vi abbraccio,

Mokusha
   
 
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