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Autore: Il_Capitano    02/03/2015    1 recensioni
Normandia, 1944...
Jonathan è un giovane paracadutista americano, e questa breve storia illustra quanto sia dura, e a volte inutile, la vita di un soldato durante la più grande mattanza che il genere umano abbia mai visto... la Seconda Guerra Mondiale.
Genere: Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I proiettili fischiavano, fendendo l'aria tutt'intorno a me.
Come ci ero finito in quella situazione?
Un momento prima io e la mia unità stavamo avanzando tranquillamente per la campagna francese, diretti in una missione di esplorazione verso l'Altura 686, e un attimo dopo ci trovavamo in un fosso, immersi nel fango, con una ventina di tedeschi che ci martellavano con un imponente volume di fuoco dall'altura che avremmo dovuto esplorare e conquistare.
Tutto si era svolto in una manciata di secondi, il suono secco di una mitragliatrice Mg42, il corpo del giovane Carl che cadeva a terra senza vita e la voce del nostro Sergente, il signor Wave, che ci gridava di buttarci immediatamente dentro al fosso che si trovava di fronte a noi.
Subito dopo essermi lanciato nel fossato per trovare riparo avevo dato un'occhiata alla situazione generale: Carl era stato raggiunto dalla prima raffica in pieno ventre e aveva tutto lo stomaco squarciato, dal quale fuoriusciva lentamente un denso sangue nero e in più, mentre cadeva, era stato anche colpito da un altro proiettile alla gola, cosa che lo aveva, forse fortunatamente, ucciso privandolo di altre sofferenze.
Il medico dell'unità, il Tenente Raming, era subito corso a soccorrere quel povero ragazzo, ma inutilmente in quanto lo trovò già spirato, di contro fu però raggiunto alla coscia destra da un colpo di fucile così, dopo essere strisciato fino alla nostra trincea improvvisata, inizio ad auto-medicarsi tentando in tutti i modi di fermare l'emorragia.
Facendo un rapido conto vidi che dei dodici che eravamo all'inizio eravamo rimasti a mala pena in otto, portavamo con noi un morto e tre feriti, tra cui il nostro medico.
La situazione si stava mettendo male, con meno della metà degli effettivi rispetto a quelli su cui potevano contare i nemici e con un numero di munizioni insufficiente a sostenere un scontro prolungato ormai il nostro destino sembrava scritto...
Eppure c'era qualcosa nel Sergente che mi dava una certa sicurezza, nonostante l'incessante rumore delle bocche di fuoco avversarie e le urla dei nostri feriti, lui sembrava mantenere la calma, i suoi occhi azzurri, quasi eterei, fissavano un punto indefinito dinnanzi a lui, come se potessero vedere un qualcosa che sfuggiva a tutti quanti noi.
Tutt'un tratto il fuoco nemico iniziò a diminuire d'intensità e fu allora che il Sergente Wave ci illustrò il suo piano per catturare la collina.
Dato che non potevamo arretrare ci saremmo divisi in tre gruppi, il primo comandato dal mio amico d'infanzia George, aveva il compito di fornirci fuoco di copertura grazie al fucile mitragliatore B.A.R. e a due carabine M1A1, il secondo guidato dal Sergente avrebbe avuto il compito di strisciare fino ad una ventina di metri dalle postazioni tedesche per poi lanciare una mezza dozzina di bombe a mano, quelle bastarde facevano piazza pulita di tutto ciò he si trovava nell'arco di dodici metri, infine il terzo gruppo, di cui io ero al comando avrebbe dovuto irrompere nelle linee nemiche ed uccidere o catturare tutti gli eventuali superstiti.
Non appena a tutti fu chiaro il proprio compito ci dividemmo e partimmo, per vincere o morire...
George e i suoi due uomini cominciarono ben presto a fare il loro dovere, falciando un paio di crucchi che avevano sporto troppo la testa dalla trincea, erano solo in tre ma grazie alle loro armi e alla loro aggressività sembrava che a combattere fossero almeno il doppio; il signor Wave intanto strisciava,  a circa due metri da me, verso la sua posizione, insieme al soldato che si era preso l’onere di portare tutto quell’esplosivo legato alla cintura.
In meno di cinque minuti i due artificieri improvvisati avevano raggiunto la postazione prestabilita e, lentamente, avevano iniziato a togliere la sicura dalle varie granate.
Fu in quel momento che il Sergente mi guardò; il suo sguardo, colmo di compassione, mi attraversò l’’anima, come se gli dispiacesse nel profondo per ciò che stava per fare lanciando quelle bombe…
Un attimo dopo le sei granate erano in volo e solo allora capii veramente a cosa si riferiva, con quello sguardo, il signor Wave. Le esplosioni che seguirono mi fecero sobbalzare e quasi non caddi a causa dell’onda d’urto che si era venuta a creare.
A quel punto non potevo più esitare così, brandendo il mio Thompson M1A1 e richiamando l’attenzione del soldato che avrebbe dovuto entrare nelle trincee con me, mi lanciai gridando contro quelle che fino a poco tempo prima erano state le postazioni nemiche.
Ciò che si presentò ai miei occhi fu uno spettacolo raccapricciante: corpi dilaniati dalle esplosioni, arti sparsi un po’ ovunque e tanto, troppo, sangue…
Gli unici superstiti erano quattro soldati che si erano miracolosamente salvati nascondendosi dietro alla mitragliatrice che poco prima aveva tentato di ucciderci, tenevano le mani alzate, in segno di resa, ma a me questo non bastava.
Con il mio mitra puntato corsi incontro al primo e, una volta giunto dinnanzi a lui, iniziai a colpirlo con una violenza tale che quando ebbi finito sembrava più simile ad uno dei morti che agli altri tedeschi ancora in vita.
Ci fu uno sparo, cosa che mi fece tornare alla realtà, e così mi girai; a far partire il colpo era stato il mio compagno che con la sua Colt aveva forato la testa di uno dei prigionieri iniziando successivamente a ridere in maniera nervosa…
Riacquisita la calma gli corsi incontro, presi la sua pistola e gli tirai uno schiaffo, eravamo soldati e dovevamo ricordarcelo, le Convenzioni di Ginevra dicevano chiaramente che non potevamo in alcun modo uccidere i nostri prigionieri.
Poco dopo ci raggiunsero sull’altura anche i restanti compagni che, vedendo lo scempio attuato, volsero velocemente lo sguardo altrove, forse per non correre il rischio di sognarsi queste scene nella notte o, peggio ancora, quando tutto sarebbe finito.
Ma quando tutto questo sarebbe finito? Ormai erano cinque anni che ci trovavamo in questa guerra e benché ora fossimo riusciti a raggiungere l’Europa, la strada da percorrere per la vittoria era ancora molto lunga. Avevamo conquistato l’Altura 686 al prezzo di un morto e tre feriti tra i nostri e avevamo portato l’inferno su diciassette tedeschi ormai morti, un ferito gravemente da me e due prigionieri in evidente stato di shock…
Questa collina nemmeno serviva militarmente, l’avevamo dovuta conquistare solo perché qualche genio a capo del Battaglione voleva un Quartier Generale che avesse un bel panorama sulle campagne francesi; maledetta guerra…. 
   
 
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