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Autore: Rixbob    05/03/2015    2 recensioni
Tutti amiamo sognare. Tutti speriamo che i nostri sogni diventino realtà. Ma quando i sogni si trasformano in incubi, anche sognare diventa pericoloso. Questo Susanna lo sa bene, lo ha imparato a sue spese molto presto.
Il sogno di sua madre era diventato presto un incubo, e aveva condizionato per sempre la vita di sua figlia. Per questo Susanna non sogna, non sogna perché sognare è inutile e stupido, non sogna perché la vita non è fatta di sogni, ma di solide realtà.
Vive la sua vita giorno per giorno, senza mai voltarsi indietro, ma quando incontra un misterioso ragazzo su di una nave, tutte le sue certezze vacillano. E se poi, sognare non fosse tanto male?
E se poi, per un curioso scherzo del destino, non potesse fare a meno dei sogni?
E se, tra sogni e realtà, una semplice ragazza si trovasse ad affrontare la più grande avventura della storia?
E se poi quella stessa ragazza si trovasse tra due fazioni rivali, senza sapere da che parte schierarsi?
E se poi ci aggiungiamo amici un po' particolari, amori, delusioni e leggende dimenticate?
Genere: Avventura, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Crono, Dei Minori, Ethan Nakamura, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Prologo

 

Era una gelida serata invernale, la notte di Natale. Piccoli fiocchi di neve scivolavano lenti nell'aria, come in una danza bellissima e aggraziata, e si poggiavano sul freddo marciapiede ormai bianco.

Silenziosi, lievi, come una ballerina, incantavano i bambini affacciati alle finestre con il naso all’insù, aspettando Babbo Natale, poi scomparivano e lasciavano nei cuori della gente solo la sensazione, bellissima e spettrale, di aver vissuto un tuffo nell'assoluto.

Le luci accese a festa rallegravano quell'atmosfera già di suo stupenda, ma c'era un cuore che non riuscivano a rallegrare. Una figura avanzava lenta nella strada innevata, silenziosa come la neve che si poggiava sul suo berretto e sul fagotto che aveva stretto al petto. Guardava i suoi piedi e camminava il più possibile vicino alle case, come se non volesse intaccare la perfezione della neve.  Era una ragazzina. Poteva avere non più di sedici anni. Era bellissima.

Una macchia nera nel bianco, nulla di più, i bambini alle finestre l'avrebbero fissata per meno d un secondo, giudicandola subito non degna di nota, infondo i fiocchi di neve erano molto più belli. Gli adulti l'avrebbero squadrata con sospetto, ma non l'avrebbero trovata uno spettacolo strano; di sicuro era una ragazza uscita presto dal locale più vicino, magari per incontrarsi con qualcuno, o era semplicemente una ragazza imprudente e incredibilmente stupida ad andare in giro da sola di notte. Eppure a nessuno sarebbe sembrata una cattiva ragazza, non barcollava come un'ubriaca, stranamente, considerando l'ora e il giorno, ne' era vestita in modo particolarmente succinto, cosa che, considerando le mode di quel periodo, era ancora più strana. Solo il giorno prima per quella strada erano passate decine di ragazze con minigonne o shorts che non appena si curvavano in avanti lasciavano in bella vista buona parte delle natiche e con cappotti che neanche gli eschimesi si azzardavano a indossare durante l'inverno artico; un genere di abbigliamento che la maggior parte delle ragazze avrebbe trovato solo leggermente esagerato o, al contrario, perfettamente normale, ma che tra gli adulti di quel quartiere era inaccettabile.

La ragazza invece indossava un normalissimo cappotto chiuso quasi fino al mento con il cappuccio, dal quale uscivano ciocche disordinate di ricci capelli rosso fuoco e dei pantaloni lunghi, il fagotto che stringeva al petto coperto da strati e strati di coperte.

La gente avrebbe detto questo guardando la ragazza dai loro balconi innevati, al caldo delle loro case. Ma la gente non lo diceva, anzi, non appena la vedeva si girava dall'altra parte, chiudeva le imposte e tornava in casa, facendo cadere la neve  sporca dai davanzali, dimentica della ragazza in strada.

Tutto questo alla ragazza non importava, guardava quell'ammasso di coperte come se fosse tutto ciò che aveva al mondo. Arrivata all'angolo della strada, si fermò, riluttante, e guardò amorevolmente il fagotto. Era una bambina, una bellissima bambina, con la pelle chiara come la luna.

Bella come un sogno pensò prima che una lacrima solitaria bagnasse la neve. La piccola era tranquilla, guardava la ragazza con gioia, come solo i bambini piccoli sanno fare, gli occhietti azzurri spalancati e felici, come se non potesse credere in nessun modo che le avrebbe fatto del male.

Quanto si sbagliava.

Quella bambina non avrebbe mai avuto un Natale come quello degli altri, se mai ne avesse avuto un altro. Quella bambina non avrebbe mai vissuto come una bambina normale. Ma poteva ancora tornare indietro, poteva ancora tornare a casa con la piccola tra le braccia e dimenticare quella serata maledetta. Ma poi...

Per alcuni minuti la ragazza e la bambina si guardarono intensamente, l'una triste e combattuta, l'altra felice e fiduciosa, muovendo le piccole manine.

La ragazza cominciò a cantare una ninna nanna. Non riuscendo a sopportare quello sguardo fiducioso, e piano piano, gli occhi della piccola si chiusero con un ultimo vagito.

Un'altra lacrima lenta cominciò a scenderle lungo il viso, la asciugò con mano tremante, era l'ultima volta che vedeva la piccola, non voleva che fosse quello il suo ultimo ricordo di lei. Ma a quella lacrima ne seguì un'altra e poi un'altra ancora, fino a quando si ritrovò preda di singhiozzi e con il viso zuppo di lacrime, una cadde sulla guancia color latte della bambina, ma lei non sembrò farci caso e continuò a dormire -Riposa in pace, piccola mia- disse tra le lacrime, girando la testa per non dover vedere ancora quel faccino addormentato, così in pace. Poi appoggiò la bambina contro un muro, le mise addosso un'altra coperta, e si addentrò nuovamente per la strada solitaria e innevata.

Ma la neve aveva già perso tutto il suo fascino.

All'inizio della strada un giovane guardava la scena. Aveva una semplice t-shirt nera e dei pantaloncini al ginocchio, ma né tra i sui capelli né tra i suoi vestiti c'erano fiocchi di neve, e non sembrava neanche sentire freddo, come se l'inverno gli scivolasse addosso. La ragazza gli si avvicinò e lo abbracciò forte, come se lo conoscesse da sempre.

-Hai fatto la cosa giusta, amore mio... - disse il ragazzo accarezzandole i capelli

-Ma allora perché mi sento così sporca?- rispose, piangendo

-Perché sei sua madre, e non puoi fare a meno di amarla... -

-Che razza di madre sono, se ho abbandonato mia figlia?-

-Sarebbe morta comunque, quando sarebbe stata più grande... le hai solo evitato torture ben peggiori. Purtroppo, per quelle come lei non c'è futuro-.

-Avrei dovuto comunque tenerla come... forse l'avrei nascosta, ci sarei riuscita se mi fossi impegnata a fondo! Avrebbe avuto una vita normale-

-No, amore. Lei non avrà mai una vita normale, lei non è come gli altri ragazzi, lei è unica. Trovano sempre i ragazzi quando li cercano, probabilmente anche a scuola, uno dei suoi insegnanti sarebbe stato così, poi una potente come lei... non avrebbe avuto futuro, Lis-.

-Lo so, lo so- disse la ragazza staccandosi dal suo petto e guardandolo fisso negli occhi, quegli straordinari occhi grigi -Ma così l'ho condannata!-

-No, qualcuno la troverà e sarà salva- parlava dolcemente, ma qualcosa nella sua voce lasciava intuire che cercasse di convincere anche se stesso.

-Ma non conoscerà mai sua madre! Crederà sempre che non l'abbia voluta, che fosse disgustata da ciò che è... non saprà mai la verità-.

-Spero con tutto il cuore che non la scopra mai, ma una cosa ti prometto: lei sognerà sempre sua madre... e saprà che donna meravigliosa era... -

La ragazza lasciò andare di nuovo le lacrime che fino ad allora aveva trattenuto, esplosero sul suo viso come una tempesta. Il ragazzo le cinse le spalle con fare protettivo e, insieme, si allontanarono; lasciando una bambina addormentata all'angolo di una strada fredda.

 

La neve aveva smesso di cadere da un pezzo e il cielo tendeva già a quell'azzurro che compare pochi minuti prima dell'alba quando Lucia Torrisi, una donna sulla cinquantina, uscì in strada armata di sacco della spazzatura e guanti per buttare le lattine e le bottiglie d birra davanti casa sua, con un movimento stizzito del capo cancellò la consapevolezza che quelli fossero i suoi unici regali di Natale.

Era arrivata alla quinta bottiglia di birra al limone quando mormorò qualcosa che la maggior parte della gente della sua città non avrebbe capito, non perché l'avesse detto con un tono particolarmente basso, ma più che altro per la lingua, qualcosa che sembrava italiano o spagnolo, decisamente incomprensibile per gli abitanti di Davenport, nell'Iowa.

Si era trasferita negli USA dall’Italia meridionale trent'anni prima, e da allora si trasferiva quasi ogni due anni, aveva girato quasi tutti gli Stati e si trovava in Iowa da diciotto mesi, era giunto il tempo di trasferirsi di nuovo, e non era mai stata più contenta. Odiava il clima dell'Iowa, troppo freddo per una donna cresciuta tra il mare e il caldo siciliani.

Si sarebbe trasferita in qualche posto caldo, tipo la California o la Florida, c'era già stata in passato e aveva ancora qualche amica in quelle zone.

Era impegnata in questi pensieri quando, sull'altro marciapiede, sentì un suono. Si avvicinò incuriosita e, mano a mano, riusciva a distinguere sempre meglio il rumore.

Era un pianto, un pianto molto lieve, ma pur sempre un pianto. Nonostante fosse lieve, riusciva a sentire la disperazione in esso.

Corse fino al punto da cui proveniva, con un terribile presentimento. Presentimento che si avverò.

Ai suoi piedi c'era un neonato avvolto in moltissime copertine, alcune bagnate dalla neve di quella notte, piangeva sommessamente e disperatamente, come se non avesse neanche più le forze per quel semplice gesto.

Lo prese in braccio e lo strinse al petto cercando di passargli un po' di calore, la sua pelle era congelata.

Non aveva senso. Conosceva gli abitanti di quella casa e non avevano bambini, né stavano aspettando ospiti per la sera di Natale, anzi, erano proprio fuori città, glielo aveva detto la signora appena due giorni prima mentre parlavano dei loro progetti natalizi. L'aveva addirittura invitata ad andare a stare con lei da alcuni amici a Le Claire quando aveva saputo che non avrebbe festeggiato il Natale.

Ma allora, di chi era quel bambino?

Probabilmente era stato abbandonato, concluse con tristezza correndo verso casa e mettendo il piccolo, o la piccola, al caldo vicino al camino.

Continuò a guardare il piccolo mentre piano piano riprendeva colore. Quanto era stato là fuori al freddo? Quattro, cinque ore? O forse di più? Non era un medico, ma capiva che era stata fortunata a trovarlo ancora vivo.

E adesso cosa doveva fare con lui? Di certo lei non era la persona adatta a crescere un figlio, nonostante avesse un buon lavoro che le permettesse di vivere agiatamente non aveva le competenze né il tempo per farlo.

Di sicuro non lo avrebbe abbandonato, e non si fidava degli orfanotrofi dell'Iowa. Avrebbe potuto chiamare un'assistente sociale, solo che poi lo avrebbe messo in uno di quegli orfanotrofi che tanto disprezzava. Forse aveva ancora un'amica a Washington che faceva l'assistente sociale, sapeva come trattava lei i bambini e si fidava di lei. Sì, l'avrebbe portato da lei.

Ma prima doveva capire se fosse maschio o femmina, una cosa alla fin fine del tutto inutile, ma suo padre glielo diceva sempre che era cuttigghiara, che in siciliano indicava una persona molto pettegola e curiosa.

Era una bambina, e senza tutte quelle copertine e fagotti vari, era pure molto carina.

Sembrava essersi ripresa del tutto dal tempo passato sul marciapiede. Lucia guardò fuori dalla finestra, era mattino inoltrato.

Era talmente persa nei suoi pensieri che non si era accorta di avere fame e ora anche la piccola cominciava a essere affamata e a piangere, un pianto totalmente diverso da quello di prima fortunatamente.

Appoggiò la bimba sul letto e cominciò a sistemarsi per uscire, ma alla fine non se la sentì di lasciarla in casa e la portò con sé, coperta da alcune di quelle lenzuola con cui l'aveva trovata, che aveva asciugato mentre rifletteva su cosa fare della bambina.

Non poteva portarla in macchina, non aveva dove metterla, così andò a piedi fino al supermercato più vicino, ricordandosi troppo tardi che era chiuso per le vacanze.

Si ricordò allora di una sua collega che era diventata da poco più di sei mesi mamma, lei era una di quelle persone estroverse e piene di amici, che danno fiducia a tutti e poi vanno a sparlare e spettegolare su tutti e tutto con cani e porci. L'esatto contrario di Lucia, che nonostante il suo essere pettegola aveva sempre una certa riservatezza in tutto quello che faceva.

Non le andava di stare a contatto con quella donna troppo a lungo, ma la bambina piangeva e lei non sapeva come aiutarla, così prese il telefono e pregò la sua collega di darle una mano. Lei si disse contentissima e promise che tra mezzora sarebbe stata alla sua porta.

Quando, un'ora e mezzo dopo, suonò il campanello, Lucia si era già pentita di aver raccolto quella bambina che non faceva che piangere e le stava fracassando i timpani.

Dopo che la bambina si fu calmata e il suo ingresso fu pieno di scatoli di pannolini e latte in polvere, Lucia era pronta a sbarazzarsi di quell'esserino rumoroso.

Era per questo motivo che si era sempre rifiutata di diventare mamma.

Passò una settimana prima che la sua amica mandasse qualcuno a prendere la bambina, che la donna aveva preso a chiamare Susanna in onore di una sua vecchia amica delle elementari che diceva di voler avere almeno cinque figli, e fu senza dubbio la settimana peggiore della sua vita.

Ogni notte veniva svegliata due o tre volte perché Susanna piangeva e se non si alzava, quella urlava ancora più forte. L'aveva sistemata in un vecchio passeggino fornitole sempre dalla sua collega, quella stessa collega che si presentava quasi ogni giorno a casa sua per “vedere il suo angioletto”.

Quando finalmente l'uomo mandato dalla sua amica arrivò e si portò via Susanna, Lucia sentì che, nonostante tutto, quel piccolo esserino le sarebbe mancato. 

   
 
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