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Autore: Nitrogen    08/03/2015    2 recensioni
Tornai a guardare la porta di fronte a me poggiando la testa alla mano e chiusi gli occhi: avevo la nausea e le vertigini, in aggiunta al bel quadretto c’era un mal di testa che si placava solo se smettevo di pensare. Non era facile sopportare tutti quei fastidi che avrebbero messo qualcun altro al tappeto e contemporaneamente risultare acida come se nulla mi causasse troppi problemi.
«Non sembra affatto spaventata.»
«Non ho motivo per esserlo.»
«Devo ricordarle che attualmente è detenuta in un ospedale psichiatrico?»

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Avvertenze: L'autrice di questa originale non è sana di mente, ragion per cui ha scritto una storia non adatta a stomaci deboli; violenza gratuita, linguaggio scurrile e sangue la fanno da padrone nella maggior parte dei capitoli. Siete stati avvisati.
Genere: Angst, Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo XI
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Mi svegliai di soprassalto, con addosso ancora la sensazione della pioggia a bagnarmi e il vento a soffiarmi nelle orecchie: non stavo bene, sudavo freddo, e le immagini di Jonathan che veniva trascinato di nuovo nell’ospedale mi passarono davanti prima che comprendessi di non essere più sul manto d'erba esterno all'edificio. 
Ero distesa sui sedili posteriori di un’automobile malridotta e piuttosto vecchia. Vedevo Jonathan al posto del passeggero, ancora gonfio in volto e con il sangue secco a sporcargli i capelli, eppure visibilmente più tranquillo; muoveva le labbra come se stesse parlando con il conducente che da quella visuale non vedevo, ma il mio cervello non era ancora abbastanza sveglio da capire le parole che udiva.
Tentai di mettermi a sedere senza alcun buon risultato, così restai distesa in attesa di avere almeno la forza per parlare. Portai istintivamente una mano sulla gamba ferita: non sentivo molto dolore, probabilmente perché ero ancora troppo intontita o per via delle medicazioni approssimative che avevo ricevuto mentre ero incosciente. Feci una smorfia costatando che le bende poste a coprire lo squarcio nel pantalone erano umide perché perdevo ancora sangue; non mi avevano estratto il proiettile e ricucito la ferita, mi avevano solo fasciato la gamba e forse dato qualcosa per lenire il dolore.
«Devo ammettere che per quanto io sia intelligente e tante altre cose, quelle guardie mi hanno dato davvero filo da torcere. A nessuna di loro andava l’idea che scappassimo, soprattutto che scappassi io… E le capisco, in questi anni hanno avuto tutte le ragioni di questo mondo per volermi male, ma nemmeno ‘sta volta il loro desiderio di vendetta è riuscito a tenermi a bada.»
«Mettendo un attimo da parte il tuo bisogno di pavoneggiarti, fatti dire che per essere uno a cui hanno appena ucciso la persona più simile a una sorella che aveva sembri star bene.»
Jonathan forzò un sorriso all’uomo al volante: «Mi è capitato così tante volte che ormai sono abituato a vedere qualcuno morirmi tra le braccia. Ibernare quello che provo non mi è più tanto difficile.»
«Di' quello che vuoi, ma se fosse morta la ragazzina qui dietro saresti uscito fuori di testa.»
«Mi sarebbe dispiaciuto, ma non sono legato a Herstal quanto lo ero a Candice.»
L’uomo rise di buon gusto, scuotendo la testa e facendo scontrare tra loro quelle che ipotizzavo fossero delle collane: «Chiamarla per cognome non ti aiuterà a rendere quello che dici più vero. Jonathan, siamo stati insieme in quell'ospedale abbastanza tempo da conoscerci come fossimo amici d’infanzia, e so perfettamente che non avresti mai salvato una persona qualsiasi. Cosa hai visto in lei?»
Jonathan restò in silenzio per diversi secondi, talmente tanti che credevo non avrebbe risposto. La domanda sembrava non piacergli per niente.
«Avresti dovuto vedere i suoi occhi mentre mi guardava attraverso lo spioncino della cella di isolamento. Era terrorizzata, era il suo primo giorno in quel posto, mi chiedeva aiuto. E io non ho saputo ignorare la sua tacita richiesta anche se è un comportamento inusuale per me. Poi sono venuto a conoscenza della sua storia: io so cosa vuol dire pagare per le colpe di qualcun'altro, è una sofferenza atroce... Non potevo farle vivere il mio stesso inferno.»
Avrei ascoltato volentieri quanto altro aveva da dire sul mio conto, ma la gamba iniziava a pulsare nuovamente, a farmi male come se mi avessero appena sparato. Sollevai lentamente la schiena, gemendo e attirando l'attenzione di Jonathan che si voltò a guardarmi. Gli sorrisi a fatica, aggrappandomi ai sedili anteriori per non crollare all’indietro; non stavo affatto bene.
«Non potevi dormire un altro po'? Stare svegli con una pallottola in una gamba non è molto piacevole.»
«Lo dici come se non mi avessero mai sparato prima.», sbuffai, «Com'è che sono finita in quest'auto? E tu come hai fatto a scappare dalle guardie? E poi, dov'è che saremmo diretti? Non conosco nemmeno quello che pare essere un tuo amico di vecchia data, potresti presentarmelo.»
«Herstal, ti prego, almeno per questa notte tieni a freno la tua curiosità.»
Il conducente rise, continuando a tenere gli occhi puntati sulla strada: «Ha una ferita da arma da fuoco nella coscia, lividi sparsi ovunque e riesce comunque a dire cose che non siano lamenti riferiti alle sue condizioni fisiche. Per essere solo una ragazzina ha una buona resistenza.»
«Tu non la conosci, quando si tratta di togliere qualche dubbio dalla testa riesce ad essere più attiva e fastidiosa del normale.»
«Semplicemente», replicai, «la permanenza in ospedale è servita a qualcosa.»
L'uomo mi squadrò tramite lo specchietto retrovisore: aveva lo stesso sguardo che si sarebbe comunemente affibiato a un criminale, duro e per niente piacevole; come se non bastasse, le svariate cicatrici che aveva non gli donavano un'aria molto raccomandabile. L'idea che quell'uomo fosse finito in un ospedale psichiatrico mi fece tornare la speranza che non rinchiudessero solo sani di mente in posti del genere.
«Zedd, controlla la medicazione di Nebraska. È probabile sia il caso di cambiarla.»
«Puoi usare il mio vero nome quando c'è lei, lo conosce.»
«Muoviti
Jonathan obbedì nell'immediato: scavalcò il sedile e si sistemò su quelli posteriori, iniziando a srotolare le bende. Ne mise di pulite con molta cura, facendo attenzione a non provocarmi più dolore di quanto fosse necessario.
«Non è proprio in buono stato», riferì contiuando a sistemare le bende, «ma per qualche altra ora non ci dovrebbero essere problemi. Comunque se dormissi sarebbe meglio: oltre a questa hai altre ferite, e non è il caso tu ti sforzi troppo.»
«Ho dormito abbastanza.», replicai, «L'unica cosa di cui ho bisogno è qualche risposta e magari un antidolorifico. Non ne avete?»
«Sto seriamente pensando che forse era meglio lasciarti agonizzante a terra.» Si sistemò meglio sul sediolino al fine di starsene più comodo e mi regalò uno sguardo accigliato. «Non ti starò a spiegare i trucchi del mestiere su come scappare da delle guardie che vorrebbero mangiarti vivo per quante gliene hai fatte passare, ma sappi che ho ricevuto qualche aiuto dai piani alti.»
«Mayer?»
«Può darsi... Ma la cosa importante è che ti ho trovata incosciente a un passo dal morire per congelamento. E anche che lui, Ross, era pronto a portarci lontano da quel posto.»
Guardai di nuovo l'uomo al volante cercando, con fatica, di non far trasparire la mia curiosità su cosa avesse fatto di tanto orribile per finire in un ospedale psichiatrico. Inutile dire che Jonathan sapeva perfettamente quel che pensavo.
«Hai presente quelle belle rapine alle banche che fanno vedere nei film? Ecco, Ross ne ha fatta più di una e ha ucciso un paio di poliziotti. Come sia riuscito a farsi dare l'infermità mentale è tutt'ora un mistero, ma di sicuro meriterebbe un Oscar per aver retto il gioco per tre mesi interi.»
«È stato così poco tempo in ospedale?»
«Diciamo che non amo particolarmente essere sottomesso. E un modo per evadere si trova sempre, se si riflette a dovere.»
Sospirai. Non ero in grado di dire – e non lo so tutt'ora – chi era il più svitato dei due, ero consapevole solo di essere in una situazione che sapeva dell'assurdo. Ero scappata da un'ospedale dopo aver subito mesi di torture, avevo un proiettile nella gamba ed ero diretta chissà dove con un ladro e un sociopatico. E per essere tanto calma in una situazione simile non dovevo essere sana di mente nemmeno io.
«E... Dov'è che siamo diretti?»
«A casa di un'amica.» 
«Un'altra conosciuta in ospedale?»
«Herstal, non conosco solo squilibrati o criminali.»
«Non l'avrei mai detto.»
«Cerchi rogne o cosa?»
«Piantatela!», urlò Ross prima che Jonathan iniziasse a sbranarmi viva, «Stiamo andando nella casa di campagna di una dottoressa dell'ospedale che si è gentilmente offerta di aiutarvi. Qual è il suo nome completo, Zedd?»
«Jezabel Anya Lee.»
«Ecco, la dottoressa Jezabel Anya Lee. Adesso che ne dici di startene buona senza rompere, ragazzina?»
Non risposi. Spostai l'attenzione verso il retro dell'automobile e restai in silenzio a guardare la strada statale che stavamo percorrendo inondata dalla pioggia. Ero stanca, affamata e arrabbiata, con in testa l'unica domanda a cui non riuscivo ancora a rispondere: perché ha scelto proprio me? 
Quella persona, l'incubo di tutti i mesi persi in quell'ospedale – oltre al buon e caro Hijikata – era da qualche parte sotto il mio stesso cielo a ridere della mia situazione, mentre io accumulavo condanne sulla mia fedina penale e prendevo tutti i proietti che meritava lui.
Chiusi gli occhi, esausta, e soprattutto stanca di essere ignorata da Jonathan che come me fissava il nulla fuori dal finestrino.
Rivedevo quell'essere dietro le mie palpebre, con i suoi capelli biondo cenere e il perenne sorriso di chi sapeva già come sarebbe finita tutta questa storia.
«Dormi.», biascicò Jonathan, «Pensare non fa altro che mandarti ancora di più fuori di testa.»
Avrei voluto dargli torto solo per il gusto di farlo, ma sapevo perfettamente che aveva ragione.
«Sta' zitto e lasciami in pace.»
Per una serie interminabbile di minuti non accadde nulla; poi le nostre mani si sfiorarono e aprii gli occhi di colpo. Continuava a tenere lo sguardo fermo sulla strada accigliato come prima, ma le nostre mani erano intrecciate e non perché fossi stata io a farlo. Un modo semplice e banale per tentare di rassicurarmi, forse per farmi sperare che in un modo o nell'altro tutto sarebbe andato bene e che avremmo superato anche questa.
Mi scrutò con la coda dell'occhio, muovendo impercettibilmente le labbra e portando la mano libera a tracciare una linea orrizontale sul collo: Non dire niente o ti ammazzo.
Sorrisi nascondendo la faccia nel sediolino. Mi sarebbe piaciuto rispondergli, ma evitai di farlo per non metterlo ancora più in imbarazzo di quanto già non fosse. Quella stretta di mano non serviva solo a me, ma a tenere lontano per un po' i demoni che stavano silenziosamente divorando dall'interno anche lui.



La piccola casa di campagna della dottoressa Lee era come isolata dal resto del mondo: non si sentiva niente e non si vedeva nessuno, quasi sembrava che nemmeno gli animali amassero stare da quelle parti. L'unica cosa che pareva animare quello spettaco era il vento gelido che scuoteva gli alberi, rimasuglio del temporale appena passato. Era tutto troppo buio per i miei gusti.
«Herstal, se riesci ad uscire da sola dall'auto prometto che ti porto in braccio fino a un letto.»
«Grazie per l'offerta, ma mi basta tu mi permetta di poggiarmi a te per raggiungere la casa.»
Scivolai fuori dal veicolo e avvolsi il braccio attorno al collo di Jonathan, zoppicando a fatica sino all'ingresso prima di cadere a terra e trascinare lui con me. Fare le scale non era così semplice come credevo.
«Nessuno ti avrebbe dato della femminuccia se avessi accettato la proposta di Jonathan.», mi prese in giro Ross.
«Aiutami e smettila di importunarmi.»
Ma anziché limitarsi a mettermi in piedi, Ross mi prese in braccio e varcammo la soglia aperta da Jonathan con un mazzo di chiavi datogli poco prima dall'uomo. Non mi faceva affatto piacere stare tra le braccia di uno sconosciuto simile, però ero consapevole che in quel momento non sarei mai riuscita a fare più di qualche passo da sola, così decisi di non fare altre storie.
Entrammo nell'abitazione, ritrovandoci in un piccolo corridoio completamente privo di ornamenti. Ross svoltò verso l'unica porta sulla destra, come se sapesse esattamente che lì avrebbe trovato il salotto e la cucina.
«Anya, ovunque tu sia vieni subito in salotto! Anya? Cazzo, Anya!»
«Non ti ho dato le mie chiavi per entrare quando– Che ci fai qui con loro due?!»
La dottoressa Lee, coperta appena da una vestaglia lilla, si bloccò sullo stipite della porta come sconcertata: evitai di chiederlo ai due uomini perché era fin troppo ovvio che in realtà la dottoressa non sapesse nulla della nostra visita.
Ross mi lasciò scivolare sul divano, sul quale Jonathan si era già sistemato da un pezzo.
«Ascoltami, Anya...»
«No, ascoltami tu, Ross! Sei un criminale e hai le chiavi di casa mia, sai quanto rischio ogni volta che vieni qui? E adesso fai anche evadere due pazienti dal mio ospedale? Cosa ti ha fatto credere di poterli portare qui?»
«Hijikata voleva ammazzarli. Mayer ha detto che–»
«Ah, quel disgraziato! Sempre pronto a mettermi in mezzo a questi casini!», urlò passandosi le mani tra i capelli, «Vorrei tanto sapere cosa ho fatto di male per meritarmi tutto questo.»
Jonathan, rimasto buono a fissare il soffitto, iniziò a sfasciare le bende che coprivano la mia gamba: «Possiamo rimandare i litigi a più tardi? Abbiamo un proiettile in una coscia.»
«Oh, vi prego. Io sono uno psichiatra, non un chirurgo o qualsiasi altra cosa vi serva!»
«Mi basta tu mi faccia vedere tutti i medicinali che hai... anche quelli presi tramite false ricette mediche e quelli che hai rubato dall'ospedale.»
La dottoressa Lee scosse la testa, biascicò qualche imprecazione e ci fece cenno di seguirla altrove. Ma la sola idea di dovermi alzare nuovamente mi faceva impazzire, e supplicai i due di non farmi muovere da quel divano.
«Ross, cerca antidolorifici, antinfiammatori, qualcosa che funga da sedativo... So che Anya ne fa uso.»
«Non trattarmi da idiota, conosco casa sua più della mia. E so cosa serve in questi casi.»
«Perdonami, non ti facevo tanto intelligente.»
L'uomo ignorò le parole di Jonathan e sparì al piano di sopra; l'altro restò seduto al mio fianco con uno strano sorriso stampato sul volto. Un sorriso fastidioso, dannatamente fastidioso.
«Smettila, pazzo. Mi da sui nervi quella faccia.»
«Nervosa?»
«Mi vuoi togliere il proiettile e non sei un medico. Come dovrei sentirmi?»
«Ah, ma sarà Ross a farlo. Credimi, non sarebbe la prima volta...»
«Peggio ancora. Non mi fido di lui.»
Si voltò a guardarmi ridendo: «Bugiarda. Tu ti fidi di me e dunque anche di lui, perché è una persona che stimo.»
«Addirittura lo stimi? Che può aver fatto di buono nella sua vita un ladro del genere?»
«Sei ancora troppo legata al concetto largamente condiviso dalla massa per comprendere che in realtà una brava persona non dipende solo da quanti crimini ha o meno commesso. Sarebbe il caso tu cambiassi il modo di vedere le cose, perché non sei più una persona qualsiasi con la fedina penale pulita... Adesso sei un’assassina. Hai o meno ucciso qualcuno poco importa, lo sei e basta, soprattutto dopo aver reagito alla tua condanna in ospedale con l'evasione.»
«Ma io non ho commesso quell’omicidio!»
«Ma a nessuno importa quello che dici tu. Rassegnati: sei un criminale come me, come Ross, come tanti altri prima di noi. E lo resteresti comunque anche se magicamente si fossero convinti del contrario: se per loro tu fossi davvero innocente, vorrebbe dire che qualcun altro di non identificato è colpevole.» Si fece più vicino, puntando i suoi occhi nei miei come a volermi intimidire. «Dimmi, Herstal, dormiresti sonni tranquilli sapendo che un folle omicida è dietro le sbarre tenuto a bada da psicofarmaci e guardie armate, o sapendolo fuori da qualche parte, probabilmente intenzionato a ripetere l’opera? Le persone comuni non vogliono la verità ad ogni costo, le persone comuni vogliono solo vivere tranquille gli anni a loro disposizione, senza preoccuparsi che un potenziale mostro giri per la loro città ad uccidere loro simili.»
«Inoltre Hijikata non mi avrebbe mai fatto uscire, nemmeno se avesse avuto il mondo contro.»
«Ti sbagli. Da quell’ospedale prima o poi ci saresti uscita, invece, ma non viva.»
Storsi le labbra in un segno di disappunto: immaginare la propria morte non è una cosa simpatica, soprattutto se tutti i modi che ti passano per la testa sono estremamente lenti e dolorosi.
«E tu Jonathan? Se qualcuno avesse creduto che eri innocente per l’omicidio di tua sorella ti avrebbero lasciato andare?»
«Io, a differenza tua, non ho mai avuto nessuno disposto a credermi. Joshua, Anya, Kline, Crystal, Candie, gli altri pazienti… Eccetto Hijikata, nessuno ha mai dato credito alle mie parole, nessuno ha mai dubitato nemmeno per un istante che fossi colpevole. Nemmeno tu.»
«Io ammetto di considerarti fuori di testa, ma non penso tu abbia ucciso tua sorella.»
«Stai mentendo come al solito.»
«Nemmeno Joshua pensava tu l’avessi uccisa.»
«Piantala, Herstal.»
«Nemmeno noi, se ci tieni a saperlo.», disse la dottoressa Lee tornando nel salotto con Ross, «Che tu abbia qualche disturbo mentale è assodato e penso tu ne sia consapevole… Però ti conosco fin troppo bene: in uno scatto d’ira potresti uccidere davvero qualcuno, ma non lei.»
La dottoressa Lee e Jonathan si scambiarono qualche altra battuta, però io non ascoltai: ero impegnata a osservare Ross stendere un vecchio lenzuolo sul tavolo e a preparare tutto il necessario per rimuovere il proiettile dalla gamba; iniziavo a sentire l’adrenalina girarmi in corpo.
«Okay, se voi due avete finito di discutere direi di spostare la ragazzina sul tavolo.» I tre mi guardarono; rimasi in silenzio cercando il coraggio per dire che ero pronta. Non uscì niente dalle mie labbra. «Te la stai facendo sotto, Nebraska?»
«Giuro che se sbagli qualcosa─»
«Herstal, dacci un taglio.»
Jonathan mi sollevò di peso, visibilmente stanco e annoiato dalle mie parole, e mi stese sul tavolo sistemato a dovere. Controllò di nuovo che non mancasse nulla e, dopo aver fatto qualche raccomandazione sottovoce, si avvicinò al mio lobo sinistro, sussurrando: «Herstal, non permetterei mai a Ross di fare una cosa simile se non fossi sicuro che ne è davvero in grado.»
Deglutii, sorrisi nervosamente allungando una mano al viso di Jonathan per portarlo ancora più vicino. 
«Venderei l’anima al Diavolo pur di non fidarmi di te, adesso.»



Molto meno di un’ora dopo, ero stesa su un letto, quasi allo stremo delle forze: rimuovere quel proiettile non fu la cosa più piacevole che mi fosse capitata, ma il semplice fatto di esserci già passata una volta mi permise se non altro di essere meno nervosa durante l'operazione e di rendere la vita facile a Ross. Aveva fatto un buon lavoro, e riempirmi di farmaci mi aiutò a non soffrire più di quanto non potessi sopportare. 
La camera degli ospiti in cui mi avevano sistemata era vuota, poco vissuta e senza alcun tipo di ornamento, proprio come il resto dell'abitazione. Eppure era stata tirata a lucido nel modo migliore possibile da qualcuno che, probabilmente, non era mai stato abituato a farlo; Jonathan si era inoltre premurato di cambiare le lenzuola prima di portarmi in stanza, infatti profumavano ancora di pulito e di lavanda, un odore che io amavo alla follia. Non sapevo se quella fosse una semplice coincidenza o gli avessi parlato del profumo che mia madre metteva ovunque, ma quando lui entrò in stanza non osai chiederglielo: preferivo che tra noi regnasse il silenzio perché ogni volta che uno dei due apriva la bocca,  l'altro si metteva d'impegno per fargli saltare i nervi. 
Si sedette sul bordo del letto dopo aver chiuso a chiave la porta, non mostrando nient’altro che la sua solita espressione di indifferenza ed apatia che con fatica riusciva a staccare dal suo volto. L'unica cosa appena percettibile era il nervosismo intuibile solo dalla sua abitudine di affossare le dita nel tessuto dei pantaloni: voleva dire o fare qualcosa, ma non era certo fosse  il momento adatto.
«Jonathan, parla. Sei insopportabile quando fai così.»
«Ti piace la camera? È un po’ spoglia ma –»
«Va bene così, mi ricorda casa mia anche se con meno cianfrusaglie… E poi non ho mai avuto una stanza così grande, è bello.»
Sorrise appena, iniziando ad accarezzarmi i capelli. «Ne avrai una ancora più grande.»
«E dove?»
«Di certo non qui negli USA. Più restiamo fermi, più probabilità ci sono che ci trovino. Dobbiamo andare via il prima possibile.»
«Non sei costretto ad aiutarmi ancora, e nemmeno a scappare con me.»
«Cos'altro potrei mai fare? I miei genitori sono morti e i tuoi ignorano totalmente la tua esistenza, mi sorella è stata uccisa e lo stesso è toccato a Candice e ai Collins. Condividiamo a grandi linee un destino simile, tanto vale farci compagnia.»
Non aveva detto nulla di particolare, eppure preferii non replicare. I nostri discorsi in ospedale, eccetto rari casi, si limitavano a chiacchierate generiche che evitavano con cura qualsiasi cosa si riferisse al nostro passato o a cose che potessero, in qualche modo, riportare alla mente aneddoti spiacevoli; lui sapeva qualcosa di me anche se non ero stata io a dirglielo, al contrario io non sapevo nulla di lui che non riguardasse sua sorella. Avevamo lasciato che fossero le parole non dette a sovrastare sui nostri discorsi, praticamente non potevo definirlo nient’altro che un semplice conoscente, eppure con quelle poche frasi aveva reso chiara la sua intenzione di non lasciarmi perdere e semplificarsi così l’esistenza.
Jonathan spostò lentamente la mano dai miei capelli alla guancia, arrivando a sfiorarmi le labbra. Era così duro in volto, eppure le sue dita passavano sulla mia pelle con una delicatezza che offuscava la logica dei miei pensieri – o forse erano i farmaci. Mi stavo rilassando troppo e, anche se non volevo che ciò accadesse, non trovai la forza per chiedergli di smettere.
«Sarà difficile andare via, molte persone sapranno presto chi sono. Non ci riusciremo.», dissi riacquistando per qualche secondo la lucidità.
«Con le giuste conoscenze è possibile fare un bel po’ di cose.»
«Di chi stai parlando?»
«Non fare domande, non sono problemi di cui devi occuparti. Al momento limitati a riposare, sei ancora molto debole.»
«Conosci gente della criminalità organizzata? Quella seria, intendo, non semplici ladri come Ross.»
«Non mi spiego come tu riesca a trovare sempre la forza per sprecare ossigeno inutilmente.»
«Se non mi darai delle risposte c’è il rischio io continui all’infinito.»
«Sei insopportabile.»
«Perché non vuoi rispondermi?»
«Non sono obbligato a farlo.»
«Ma sarebbe carino tu lo facessi.»
«Nebraska, dormi.»
Sentirgli usare il mio nome anziché il cognome mi fece irrigidire sotto le sue carezze. Suonava così… strano detto da lui che quasi sembrava non fosse sicuro di potermi chiamare in tal modo; fu come se in quell’istante avessimo fatto un passo avanti nel nostro rapporto, e avessimo completamente smesso di essere due pazienti chiusi in uno stesso ospedale psichiatrico.
E mentre io pensavo queste cose, Jonathan si chinò fino a sfiorare la pelle del mio viso con i suoi capelli scuri. Fu un bacio leggero, casto, che poteva a stento essere definito tale per la poca pressione che aveva esercitato sulle mie labbra; eppure era talmente carico di affetto che per quanto mi sforzassi di ignorare quel suo gesto, sperai non si allontanasse da me, o almeno non troppo in fretta.
Avvolsi le braccia attorno al suo collo, lo strinsi a me con quel po’ di forza che avevo e lasciai che le sue labbra si impadronissero delle mie, che scendessero fino al collo e mi facessero sentire di nuovo amata e voluta dopo tempo.
Ma poi mi morse e io tornai nel mondo reale, quello dove io ero una fuggiasca, lui un presunto assassino e un altro criminale era ancora a piede libero. Mi allontanai di scatto, spostandomi verso la metà di letto rimasta vuota fino a quel momento, in silenzio, con i ricordi che riaffioravano di colpo e mi mandavano in tilt.
«Mi aspettavo una reazione simile.», disse di punto in bianco, sorridendo. Io continuavo a non dir nulla poiché non sapevo cosa pensare, cosa credere, cosa volere, e i ricordi mi impedivano di formulare periodi di senso compiuto da poter condividere. «Non ho fatto questo perché ti amo, probabilmente non ho mai provato nessun sentimento di affetto che superasse l'amore fraterno, e sono certo tu ne sia consapevole. Volevo solo testare una cosa, ed hai reagito come immaginavo.» Si alzò, girando intorno al letto per venire nella mia direzione. «Tu e quell'uomo avete –»
«No, ti sbagli. Non è mai successo.»
«Allora con Christopher? Ma onestamente propendo di più per la prima ipotesi, sono certo tu abbia sempre visto il figlio dei Collins solo come un buono e caro amico di infanzia a cui rivelare qualche segreto di poco conto. Perché per quelli più importanti c'era Lui, quell'essere che ti ha amato così tanto da addossarti parte delle sue colpe.»
«Non sai quel che dici.», sibilai appiattendomi contro la testata del letto.
«Invece lo so bene, Nebraska. L'hai visto davanti ai tuoi occhi mentre ti baciavo, no?»
«Ti ho detto che non è così.»
«Forse l'hai visto ogni volta che qualcuno ti stringeva o accarezzava i capelli, in ogni stupida e banale dimostrazione d'affetto. Volevo sperare ti fossi liberata di quel parassita che ti ha divorato il cervello per tutto questo tempo, sia prima che durante la peranenza in ospedale, ma evidentemente permetterti di fare quel che più desideri in un Paese dove nessuno ti conosce non basterà a spezzare l’ultima catena che ti lega a quella persona.»
Diedi un pugno alla testata del letto, ormai al limite della pazienza: «Cazzo, lasciami in pace! Tu non sai chi è lui, non sai quanto può essere subdolo quell'uomo e come riesce sempre ad ottenere ciò che vuole!»
Jonathan sorrise. Mostrò gli inicisivi con una macabra ombra di puro divertimento, come se avessi appena detto qualcosa di poco sensato.
Si avvicinò al letto, spostandosi sul materasso fino a distare dal mio volto soli pochi centimetri; istintivamente mi sarei scostata, ma in ospedale mi aveva ripetuto sino alla nausea che in casi simili era meglio reggere lo sguardo e sembrare privi di alcun timore, dunque rimasi impassibile cercando di scorgere in anticipo eventuali sue azioni dalle dubbie intenzioni.
Scostò le coperte e infilò una mano nella tasca del mio pantaloncino – reso tale da un paio di forbici che poco prima cercavano di farsi largo verso la ferita da arma da fuoco.
Afferrò l'oggetto che avevo dimenticato al suo interno e me lo chiuse tra le dita, lasciandomi un leggero e rapido bacio sulle labbra come a volermi prendere in giro.
«Ne riparleremo poi, Nebraska, quando forse capirai che io so molte più cose di te.»
Jonathan andò via, ignorando i miei vani tentativi di richiamare la sua attenzione.
Sarei dovuta restare a riposo, cercare di recuperare le forze perdute dormendo il più possibile, ma il pezzo della Regina Bianca che stringevo tra le dita impediva al mio cervello di starsene tranquillo. Sapevo che aprendolo avrei potuto scoprire qualcosa di impensabile o che non mi sarebbe piaciuto, eppure quando vidi cosa c'era su quel piccolo foglio arrotolato al suo interno quasi mi mancò un colpo. Rimasi impietrita, con la carta logora e consumata tra le mani e gli occhi sgranati per lo stupore.
Su di essa erano state segnate con una grafia poco chiara e insolitamente irregolare solo due brevi parole.
Un nome.
Quel nome.



 




──Note dell'autore──
Che fossi in ritardo con l'aggiornamento era prevedibile; che non mi scusassi per questo ritardo altrettanto. È che, come alcuni già sanno, non amo scrivere perché devo farlo, e non avrei mai pubblicato un capitolo che non mi convinceva del tutto: terminata la prima bozza, l'ho cestinata e ho deciso di non pensarci più per un po'; poi, ho riscritto tutto, e questo che avete appena letto è il risulato finale.
Come sempre, spero sia stato di vostro gradimento.
Ah, vi chiedo scusa: alcuni di voi si saranno illusi per quel bacio e me ne dispiaccio, ma sappiamo tutti che non sarebbe mai potuto scoppiare l'amore tra i due, no? Non è quel genere di storia.


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