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Autore: Lou Asakura    12/12/2008    15 recensioni
<< Non c’è sangue >>
Sarebbe forse meglio, se ce ne fosse?
Sarebbe forse più semplice, se lui fosse ritornato coperto di sangue, privo di vita?
Forse, in quel caso, l’avrei accettato. Me ne sarei fatta una ragione.
<< la speranza finirà per uccidermi. >>
***
Istintivamente l’abbracciai, tentando di alleviare lo spesso strato di malinconia che ricopriva entrambi i nostri cuori: spezzati, distrutti, frantumati, ciò che bramavamo non era altro che un briciolo d’amore… lo stesso che, impossibile, irrealizzabile, ci aveva lentamente annientati.
Nel caso di Renji, l’amore per me. Nel mio caso quell’amore bruciante, assoluto, verso il ragazzo dalla chioma arancione che, ignaro, perpetuava nel suo interminabile sonno.
~ Ichiruki, of course!
Vincitrice del contest Ichiruki indetto dal Death & Strawberry forum.
Genere: Romantico, Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Kuchiki Rukia, Kurosaki Ichigo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Comatose

Comatose

Call me, wake me, embrace me.

 

 

 

<< Non c’è sangue >>

Sarebbe forse meglio, se ce ne fosse?

Sarebbe forse più semplice, se lui fosse ritornato coperto di sangue, privo di vita?

Forse, in quel caso, l’avrei accettato. Me ne sarei fatta una ragione.

 

<< la speranza finirà per uccidermi. >>

***

 

Negli oscuri meandri di quel periodo cosi terribilmente buio, ricordavo con estrema chiarezza, una chiarezza quasi impressionante, quei giorni lontani in cui [se possibile, e se mai l’avesse avuto] la mia vita ancora pareva possedere un senso. Erano giorni felici, quelli; giorni che passavano senza lasciare traccia dietro di se, quasi scivolavano via, accompagnati da quella lieve sensazione di benessere e felicità che pareva sollevarti qualche centimetro più in alto del suolo e trascinarti via, con se, fino al cielo. Erano giorni in cui [lo sapevo, avrei dovuto saperlo che non sarebbe durato] quasi mi sembrava di rivivere il periodo passato in compagnia di Kaien-dono.

Tutto mi appariva limpido, sereno, privo d’incertezze o imperfezioni; si rideva, si stava in compagnia degli amici, ci si divertiva. Ogni tanto, quasi come un ombra gettata all’improvviso ad oscurare quel piccolo universo perfetto, arrivava l’ordine di una missione. Si trattava perlopiù di hollow, giri di ronda sulla terra, o, in qualche rara ed isolata occasione, un Menos. 

Ed ecco che si partiva, si stava via qualche giorno, e poi si ritornava. [si ritornava. sempre.] Senza neppure salutarsi o dirsi addio, perdonare qualche piccolo litigio, o dirsi quanto bene ci si voleva.

Tanto si ritornava. Sempre.

Questo era ciò in cui credevamo.

 

« Vai di già, Ichigo?. »

Lui, udita la mia voce, si voltò esibendo un lieve sorrisetto seccato. «Prima vado, prima torno

Involontariamente sorrisi anch’io. [era cosi facile sorridere, a quei tempi. Non doleva cosi tanto la mascella, nel tenere forzatamente le labbra inarcate. Non ti si stringeva cosi tanto il cuore, nel fingere che tutto andasse bene].

Quel giorno indossavo come sempre la mia divisa da shinigami ed in mano stringevo l’elsa di Sode no Shirayuki, il cui nastro risaltava candido sulla stoffa scura dell’hakama. Speravo che i tagli evidenti provocatomi durante l’allenamento non si notassero eccessivamente, ma, ovviamente, a lui non sfuggiva nulla; quasi come se, fino a quell’istante, non avesse fatto altro che osservarmi.

Mi sorrise, ma fu quasi un ghigno. « Ti alleni ancora?. »

« Ovviamente. Perché me lo chiedi?. »

Mi squadrò per un attimo, soffermandosi sui graffi evidenti sui palmi delle mani. « Nulla. Stavo solo pensando che non dureresti un secondo, contro di me ». Con naturalezza fece roteare leggermente l’avambraccio destro all’indietro, come per saggiarne la sensibilità, poi portò rapidamente la mano a stringere l’elsa di Zangetsu. Una tale velocità, probabilmente, sarebbe bastata a segnalarmi l’esattezza delle sue parole, eppure –com’era ovvio- lo contraddissi.

Irritata mi sporsi verso di lui. Lo tirai per il bavero della veste, costringendolo a chinarsi alla mia altezza. « Voglio proprio vedere, moccioso. Sfidiamoci qui, adesso! ».

Fece per tirare fuori la spada dal fodero ma, come colto da un’ urgenza improvvisa, rinunciò. « Devo andare. » Cavolo. Da quando era cosi ligio al dovere?. Prima che io potessi protestare e senza neppure rivolgermi uno sguardo si allontanò, Zangetsu in spalla, in direzione del portale.

« E quando… »

« Quando sarò tornato. Allenati e poi, al mio ritorno, combatteremo » si voltò, sul suo viso c’era di nuovo quella specie di ghigno caratteristico. « diciamo che … è una promessa».

E io non potei far altro che restare a guardare, mentre mi salutava agitando il braccio e scompariva rapido attraverso il senkai.

 

 

 

« Buon giorno a te, Hanatarou. »

« Oh, b-buongiorno a lei, Rukia-san! ».

Ennesimo dannatissimo giorno, ennesimo saluto vuoto. Ennesima domanda pronunciata con voce smorzata, come ogni giorno, ennesima risposta sempre, maledettissimamente uguale.

« Come sta? »

Attimo di esitazione. Sospiro [vuoto.] «Come ieri. Mi dispiace, Rukia-san. »

« Non scusarti, Hanatarou. Tu stai facendo il possibile. »

« C-certo. » Tornò alla propria occupazione, ma non era concentrato quanto prima; mi rivolgeva un occhiata furtiva, di tanto in tanto, come se mi controllasse.

Stavolta fui io a sospirare. « Avanti, cosa c’è? ».

Saltò su, imbarazzato, dopodichè chinò il capo e prese a fissarsi le mani. « Nulla, Rukia-san. Mi domandavo solo… lei sta bene?. »

Stavo bene?. Ci meditai un attimo, ma decisi che non fosse il caso di inquietarlo.

« Certo, Hanatarou. Sto benissmo ».

Suppure fosse palese il suo scetticismo alle mie parole, Yamada annuì e si piegò sul corpo addormentato che aveva di fronte, circondandolo poi con una cupola di kidou; io mossi qualche passo incerto verso di lui e per un po’ –attimi che mi parvero eterni- rimasi ad osservare in silenzio quella persona, i suoi occhi serrati ormai da troppo tempo.

Scrutai con attenzione il suo viso [lo stesso che in quel giorno tanto lontano da sembrare appartenuto ad una vita precedente mi aveva mostrato quel suo ghigno familiare] rischiarato ora dalla luce verdastra del Kidou, disteso in un espressione neutra, quasi come fosse sprofondato in un sonno profondo e sereno.

Eppure lui non stava dormendo; avevo avuto fin troppo, dannatissimo tempo per comprendere ed accettare questa semplice verità.

« Ehm, R-Rukia-san, io avrei finito. »

Mi accorsi di essermi incantata solo quando la vocetta tremante di Hanatarou mi riportò bruscamente alla realtà. Esausto si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore, dopodichè, alzati gli occhi verso di me, restò a fissarmi in attesa di una risposta; fu in quel momento che, nel vederlo cosi affaticato, capì: lui, a modo suo, ce la stava mettendo tutta; perchè proprio come me desiderava che tornasse.

« Perfetto, Hanatarou. » mi sforzai di rivolgergli un sorriso che non apparisse vuoto. « Grazie per tutto ciò che fai ». A quelle parole il suo viso si illuminò e le gote pallide si tinsero di rosso, riuscendo a strapparmi l’ombra di un sorriso; era assurdamente facile renderlo felice.

Mi sforzai di ricordare quale fosse il sapore della felicità. Dolce? Fresco, effervescente?. Io l’avevo mai provato? Ero convinta di si, ma non riuscii a capire quando. Anni prima? Secoli prima?

O forse, in una vita precedente di cui conservavo solo ricordi sbiaditi?

Persa nel turbinio di quei pensieri, riuscì a percepire vagamente la presenza di Hanatarou alle mie spalle; se ne stava aggrappato allo stipite della porta, incerto, meditando se parlarmi o no.

« R-Rukia-san…, » la sua voce tremante mi giunse in un sussurro. Strinse di più le mani sul legno, ispirò a fondo per farsi coraggio.

« Lei sta davvero bene, Rukia-san? ».

Per un attimo rimasi immobile, il mio sguardo puntato nel suo. Improvvisamente mi guardava con occhi severi, insoliti, quasi accusatori.

Un sospiro. « Certo, Hanatarou, tranquillo. Va tutto bene ». Rincuorato, la sua maschera dura si sciolse in un sorriso luminoso: mi rivolse un piccolo inchino, per poi scivolare rapido fuori dalla stanza.

Va tutto bene.

Quando fui sicura che se ne fosse andato, che non potesse assolutamente sentirmi, portai entrambe le mani alla bocca nel tentativo di non vomitare; quante volte, ormai, l’avevo ripetuto? Va tutto bene. Va tutto bene.

Quelle parole, da sole, parevano riuscire in qualche modo a rassicurare le persone. Come se un va tutto bene avesse potuto cambiare le cose.

Come se lui avesse potuto svegliarsi, semplicemente con un “Va tutto bene”.

Lo ricordavo, oh, eccome se lo ricordavo… quando erano gli altri a dirlo a me, va tutto bene. Ricordavo la notte di pioggia appartenuta ad una vita precedente, ricordavo la voce soffocata di Kaien-dono, in punto di morte, sussurrare “Va tutto bene, Kuchiki”. Ricordavo Renji, durante la battaglia invernale, rassicurarmi sulle sue ferite da cui sgorgavano fiotti di sangue vermiglio. “Va tutto bene, Rukia, tranquilla”. Ricordavo come Ichigo, prima di andare in battaglia, mi avesse sorriso in quel modo che amavo, annunciando solenne “Andrà tutto bene”.

Eppure

Kaien-dono era morto, Renji non si era ancora del tutto ripreso da quelle ferite, e Ichigo… soffocai un altro conato di vomito.

Ichigo era vivo, dopotutto. Era questo ad importare, no? Che non fosse morto. Quando muori è tutto finito, se sei vivo, invece, puoi ancora…

Involontariamente, strinsi i pugni tanto da conficcarmi le unghie nella pelle. Lui sarebbe tornato, me l’aveva promesso. Mi aveva promesso che avremmo combattuto… e Ichigo Kurosaki manteneva sempre le sue promesse. Senza accorgermene, ripensando alla sue parole le labbra mi si piegarono in un sorriso: impercettibile, certo, ma era pur sempre un inizio.

Dovevo crederci.

Sospirai una, più volte, dopodichè mi avvicinai al suo letto e, come ogni giorno, presi posto sul minuscolo sgabello sistemato alla sua destra. Controllai la mia espressione tentando di soffocare ogni traccia di amarezza e, con la mascella che doleva per lo sforzo, gli rivolsi un sorriso.

« Ciao, Ichigo. Come ti senti oggi?. Hanatarou sta lavorando davvero tanto per te, sai, credo che dovremmo ringraziarlo. E… ah, già ». Mi sforzai di apparire entusiasta. « Ieri Inoue mi ha detto di salutarti da parte sua. Sai, è molto impegnata, ma mi ha promesso di passare da te, un giorno… quindi non pensare che i tuoi amici ti abbiano dimenticato, eh.! ». Moderai il tono della voce, sperando ardentemente che non mi tradisse. Che lui non capisse che non era quello, il motivo per cui Inoue non era mai passata; [che non capisse che lei non era forte quanto me e che proprio non ci riusciva, a vederlo cosi.]

« Sai… mi sto allenando tantissimo in questi mesi. Ricordi la promessa che mi facesti prima di andare? Ecco, sono intenzionata a vincere. Perciò, caro Kurosaki, farai meglio ad allenarti anche tu, quando sarai tornato, » risi. « o ho paura che non dureresti un secondo, contro di me !». La mia voce rimbombò come il tonfo di un sassolino gettato nel silenzio. Fu strano, assurdamente strano, vederlo restare immobile a quelle parole. Una parte minuscola di me aveva sperato ingenuamente che avrebbe reagito, che mi avrebbe strillato “Ah, si? Sfidiamoci subito, allora!”.

A quel punto, cominciai a temere seriamente che il mio cuore non avrebbe retto all’ennesima delusione. Che avrebbe finito per frantumarsi, prima o poi, temevo che avrei urlato, che sarei impazzita.

Eppure lui sarebbe tornato, avrebbe mantenuto la promessa, avremmo combattuto lanciandoci insulti scherzosi come accadeva un tempo, e…

E io sarei morta, se questo non fosse accaduto presto.

Sarebbe stata la speranza, ad uccidermi?.

O forse sarebbe stato il passare dei mesi che, lenti e inesorabili, si ammassavano sulle mie spalle deboli?.

Quanto tempo avrei resistito ancora, prima di cedere?.

Forse qualche mese, forse un anno. O forse qualche istante.

« E’ gia ora di andare, » sospirai, sollevandomi dallo sgabello. Mi avvicinai, cauta, gli sfiorai la guancia con la punta delle dita; un gesto che solo qualche mese prima mi sarebbe parso impensabile, ma che in quella situazione mi appariva stranamente necessario, come fosse un unico modo per stabilire un contatto, per dirgli “Io sono qui”, imprimergli il mio calore fin dentro le ossa e sperare che lo percepisse.

Con dolcezza seguì il contorno del suo viso fino alla fronte, immersi le dita fra i capelli e mi meravigliai di quanto fossero ancora morbidi e lisci dopo tanti mesi. Avevano proprio un buon profumo: un odore familiare che ogni giorno, quando ancora abitavo nel suo armadio, ispiravo a pieni polmoni pensando che, se il concetto di vicinanza avesse avuto un profumo, sarebbe stato certamente quello.

Con prudenza avvicinai di più il viso per udire il suono lieve e rassicurante dei suoi respiri che, seppur lenti, erano prova evidente che il suo cuore battesse ancora.  

A quel punto, cosi vicina a lui, mi pareva impossibile trattenere il groppo che mi stringeva la gola, perciò evitai di meravigliarmi quando la voce mi uscii vagamente strozzata e scossa dal pianto.

« Quanto torni? ». Fu quasi un sussurro. « non sai quanto mi manchi, Ichigo…per favore. Torna presto. »

Avrei mai smesso di sperare?. La risposta mi giunse immediata, ma con una chiarezza impressionante.

No, mai.

 

 

« Renji! ».

Urlando e sbracciando per farmi notare, corsi incontro al mio migliore amico che se ne stava placidamente seduto sotto l’ombra refrigerante di un grosso albero.

« Uff, finalmente, » sbuffai, quando lo raggiunsi, piegata sulle ginocchia per riprendere fiato. « Eri qui, allora. Ho chiesto al Capitano Unohana, mi ha detto che avevi ricevuto il permesso di uscire un po’… ».

« Era pure ora, sai. Sono ferito, mica invalido! ». Rise, e io con lui.

« Quando ti dimetteranno? ».

La sua espressione si fece scocciata. « Boh. Dicono di volermi  impedire di fare qualcosa di pericoloso prima di essere completamente guarito. In tempi di pace, mi chiedo, cosa diamine potrebbe accadermi! ».

Sussultai, e lui se ne accorse. Abbassò il capo, amareggiato, i ciuffi rossi gli adombrarono gli occhi.

« scusa, » sussurrò « Scusa davvero, Rukia. Sono stato un idiota ».

Sospirai. Un sospiro rassegnato, amaro. « Fa niente. Cerca solo di star bene, almeno tu ». Mi pentii immediatamente del tono accusatorio con cui lo dissi. Quando alzai gli occhi per scusarmi, lo trovai che mi fissava. Lo sguardo mesto, come mai l’avevo visto prima d’ora; pareva davvero un cane bastonato.

« lui…, » biascicò, confusamente. « Ichigo come sta? ».

Mi voltai. Non volevo che vedesse i miei occhi diventare lucidi.

« come sempre, » riuscii a dire, soffocando il groppo che mi stringeva la gola.

Alle mie spalle sentii un gemito soffocato, che capii essere la voce di Renji. « Quant’è? ». Era poco più di un sussurro, ma riuscii a percepire tutto il dolore intriso in esso.

« Sei mesi ».

E questo era tutto.

Rimanemmo in silenzio, come tentando di assimilare un tempo cosi lungo che non credevamo di avere realmente vissuto.

I giorni, i mesi, si susseguivano tutti cosi dannatamente uguali… come facevamo a distinguerli, prima che la nostra vita finisse?.

[Perché era finita. Stavamo forse vivendo, in quel momento?.]

Incapaci di dire altro perdurammo in quel silenzio colmo di dolore; io istintivamente mi aggrappai a lui con tutte le mie forze, artigliando la stoffa kimono come a trattenerlo. [non mi ci volle molto per capire quanto desiderassi aver fatto lo stesso con Ichigo, quel giorno, avergli impedito di andare]. Dopotutto, era tutta…

« E’ tutta colpa mia. » sussurrò Renji, quasi in sincrono coi miei pensieri.

Per un attimo rimasi interdetta, tentando di capire a cosa si riferisse, poi sbuffai, irritata. « per favore, non ricominciare con la storia “se fossi andato insieme a lui”. Ti prego, Renji. Eri ferito: non potevi. Punto. »

Annuì, senza dire altro. Si sbagliava, Dio, se si sbagliava… era mia, unicamente mia, la colpa. C’ero io li. Io avrei dovuto corrergli incontro, dirgli “non voglio che tu vada”, costringerlo a restare… però infondo, chi avrebbe potuto prevedere un finale del genere?.

Scossi il capo. Non era una giustificazione.

[Dopotutto, anche Kaien-dono…]. Restai impietrita, nel ricordare come quella notte lontana anche lui se ne fosse andato, cosi, senza che io riuscissi a fermarlo. Aveva resistito, nonostante la spada piantata in petto e il sangue che gli riempiva i polmoni, solamente per dirmi “Mi dispiace, Kuchiki. Grazie. Ti lascio il mio cuore”.

Soffocai a stento un altro conato di vomito. Mi costrinsi a pensare ad altro, almeno per non allarmare Renji… non mi avrebbe aiutata scoppiare a piangere all’improvviso.

« Come vanno le ferite?, » domandai, improvvisamente in colpa per non averglielo ancora chiesto, presa com’ero dai miei problemi.

La sua espressione si addolcì –probabilmente aveva intuito che stessi per cadere in pezzi-. « Meglio, molto meglio. Mi danno solo un po’ di noia quando sto sdraiato. »

« Sono…» contai mentalmente. « almeno otto, nove mesi che sei in convalescenza. Era anche ora che guarissi. »

« Già, ma ricordi anche tu com’ero ridotto dopo la guerra, no? E’ gia un miracolo che abbia ancora due braccia e due gambe. »

Fui presa da un impeto di panico, nel ricordare l’altro periodo buio della mia vita; quei giorni infernali che seguirono alla fine della guerra, colmi di panico per la sorte di coloro che amavo.

« Temevo che saresti morto, » sussurrai, col cuore in gola. « le tue condizioni erano disperate. »

“Per fortuna,” mi dissi “c’era Ichigo”. Ricordavo alla perfezione come lui fosse stato la mia spalla su cui piangere, il mio bastone di conforto, durante quei giorni bui. E ricordai perché adesso fosse mio dovere assisterlo con tutte le mie energie, non lasciarlo solo un attimo, badare a lui come lui aveva badato a me.

Se anche Ichigo non si fosse mai svegliato, io… avrei continuato ad andare da lui, giorno dopo giorno, fino alla mia morte.

Glielo dovevo.

« Vado, » sussurrai, alzandomi di scatto. « chiamami, se mai avessi bisogno di un po’ di compagnia. »

Lui sospirò, sarcastico. « Lo stesso vale per te, scricciolo. »

 

 

Trascorsi il mese successivo impiegando tutte le mie energie nell’assistere Ichigo.

Non lo lasciavo solo neppure un attimo… trascurai addirittura gli allenamenti. La sede della quarta brigata era –in un certo senso- divenuta casa mia; tutti si erano abituati, ormai, a vedermi entrare ed uscire con naturalezza e a qualunque ora del giorno.

Per alcuni versi fu un mese molto tranquillo, stare accanto ad Ichigo mi rilassava; probabilmente, non sarei riuscita ad allontanarmi da lui per più di qualche ora. Volevo proteggerlo… e soprattutto volevo esserci, quando avrebbe aperto gli occhi.

[Perché li avrebbe aperti. Ne ero certa.]

Il giorno del suo compleanno, il quindici di quel Luglio terribilmente torrido, gli portai una foto della sua famiglia.

« Me l’hanno data loro, è per te. » sussurrai. « non preoccuparti, non ho detto assolutamente nulla sulle tue condizioni. Solo raccontato, come sempre, che sei molto impegnato, anche se non credo che se la berranno ancora a lungo. »

Sistemai con cura la foto sul comodino, appoggiata alla lampada in modo che stesse in piedi.

« Buon compleanno, Ichigo. Vorrei tanto che tu fossi qui, per festeggiare insieme ». Presi la sua mano grande e fredda fra le mie, tentando inutilmente di riscaldarla. [La giornata era torrida, eppure]. Poco più tardi gli cantai “Buon Compleanno”, a bassa voce, come fosse una ninna-nanna.

Che stupida, pensai, cantargli una ninna-nanna quando desideravo che si svegliasse.

Comunque, fu più o meno cosi che io e Ichigo trascorremmo il suo diciassettesimo compleanno.

 

Ogni tanto, capitava che qualcuno venisse a farci visita: Renji, il tenente Kusajishi, Ikkaku, Ishida, una volta addirittura Inoue e, ovviamente, Hanatarou, che non mancava di tentare [inutilmente, ma preferivo non dirglielo] di “curare” Ichigo. [esisteva una cura?.]

Un cambiamento alla mia routine ormai collaudata avvenne quando il Capitano Ukitake comparve nella minuscola stanzetta che ormai mi era familiare.

Era sorridente, come sempre, con quell’aria un po’ mesta che lo contrassegnava. “Si sieda, prego” gli avevo suggerito, porgendogli una sedia. Chiacchierammo del più e del meno per un po’, fingendo quasi che il ragazzo addormentato alle nostre spalle non si trovasse all’interno della stanza.

Poi, alll’improvviso, il Capitano Ukitake rivolse lo sguardo su di lui.

« E, dimmi… come sta Ichigo-kun? ».

Un sospiro, la mia solita reazione a quella domanda. « Come sempre, Ukitake-taicho. »

« Mi dispiace, » sussurrò lui, piano.

« anche a me, » risposi di riflesso.

Rimanemmo per qualche attimo in un silenzio imbarazzato; il Capitano Ukitake si tormentava le mani in grembo, lanciandomi ogni tanto occhiate furtive… lo stesso comportamento di Hanatarou qualche mese prima, perciò capii. 

« Deve dirmi qualcosa, Capitano? ».

Lui distolse lo sguardo per un attimo, in tensione, poi annuì piano. Quando lo riportò su di me, i sui occhi non erano più quelli di un Capitano delle tredici Gotei: erano quelli di un padre.

« Kuchiki… ascolta. Vedo che ti stai dando davvero molto da fare per Ichigo-kun, e ne sono felice. Però, vedi… ». Restai in attesa. Però?. Il Capitano, ansioso, fece qualche respiro. « però, Kuchiki, credo che dovresti distrarti. Non ti fa bene… prendertela cosi a cuore. Sei… come ossessionata, Kuchiki ». Quasi non prestai attenzione al resto della frase. I miei occhi si erano offuscati, all’improvviso; lo fissavo in volto, senza davvero capire. Voleva… voleva che mi allontanassi da Ichigo?.

« Vedi, Kuchiki, in questo periodo stai trascurando parecchio i tuoi doveri alla brigata. Per carità, » si affrettò a giustificarsi. « non è mica questo il problema. E’ solo che… mi preoccupi, Kuchiki. Forse, tornando a lavorare, riusciresti a … distrarti un ». Pronunciò le ultime parole in un soffio, quasi volesse togliersi al più presto quel peso dal cuore. Mi fissò, preoccupato, mentre mi dedicavo ad analizzare ciò che aveva detto, trovarvi un senso. Mi stava chiedendo di… abbandonare Ichigo, -al solo pensiero sentii la testa girare pericolosamente-, lasciarlo solo?

« Andiamo a parlarne fuori, » suggerii. « Non voglio che… non voglio che lui senta. » Ukitake-taicho mi guardò come fossi matta, ed in effetti lo ero. Ero impazzita, decisamente.

A passi strascicati ci dirigemmo fuori dalla stanza; mi chiusi la porta alle spalle, con delicatezza, lanciando un ultima occhiata all’interno. Il Capitano mi guardava preoccupato.

« Kuchiki…, » cominciò, ma lo interruppi.

« Ukitake-taicho, mi dispiace, non posso lasciare Ichigo da solo. Vede, si sentirebbe triste, e poi… ». Sorrisi; un sorriso inquietante, associato alla mia espressione. « e poi, non vorrei che lui si svegliasse quando io non ci sono ».

A quelle parole il viso del Capitano si corrugò, facendolo apparire più anziano di quanto non fosse. Nel suo sguardo –improvvisamente vuoto- vidi la morte.

« Kuchiki, tu…, » sussurrò, la voce piatta, grigia. « tu speri ancora che lui si svegli? ». Lo disse con voce sofferente, la stessa che avrebbe usato se mi avesse detto “stai morendo”. In quel momento non capii la sua sofferenza. Non capii che per lui, che mi considerava come una figlia, doveva essere davvero troppo vedermi in quello stato, rincorrere un fantasma, assistere un morto –ricacciai indietro quella parola-. Ichigo era vivo.

Rimasi immobile, a fissare il vuoto, finchè la voce di Ukitake-taicho non mi scosse. Stava parlando… mi sforzai di ascoltare.

« Kuchiki, devi provare a staccare. Allenati, vieni alla brigata, partecipa a qualche missione di routine… qualsiasi cosa, ma falla, per favore! Non restare qui a morire insieme a lui. Ichigo-kun non… avrebbe voluto ». Quelle parole, in qualche modo, mi smossero.

Le rivisitai una per una, con attenzione. Morire insieme a lui. Non so come, ma nella mia follia mi parve una bella prospettiva… tranne un solo, essenziale particolare. Lui non era morto. Non ancora, almeno.

« Kuchiki… ».

Scossi il capo, decisa. « No, Capitano. Lui è vivo. E si sveglierà, anche se non so quando… ». Alzai gli occhi, incontrando quelli di Ukitake-taicho. Erano lucidi.

« Per favore, Rukia, » sussurrò. Rimasi sorpresa: prima d’ora non mi aveva mai chiamata per nome. « per favore. La speranza finirà per ucciderti ».

Quelle parole, probabilmente, sono l’ultima cosa che ascoltai con razionalità. Ricordo poi che cominciai a piangere… e ricordo di come mi stupii di riuscire di nuovo a farlo; fino a quel momento, per quanto la mia voce fosse rotta dai singhiozzi, per quanto il groppo in gola fosse ingombrante… non era mai scesa neppure una lacrima. Ricordo Ukitake-taicho, nel tentativo di calmarmi, ricordo che cominciai a urlare…

« Kuchiki, che hai? Per favore, calmati! ». La voce preoccupata del Capitano mi arrivava smorzata, offuscata, cosi come ogni altra cosa che stesse accadendo attorno a me. Mi ero rannicchiata su me stessa, la testa premuta sulle ginocchia, strette a loro volta dalle mie piccole braccia.

« Non posso, non posso… », biascicai, mentre le lacrime mi entravano in bocca. Sentire il loro sapore salato sulla lingua, dopo tanti mesi, fu quasi un sollievo. « non posso lasciarlo, non posso », continuavo a ripetere. « l’ho già lasciato andare una volta… se lo lasciassi di nuovo, io… ». Sollevai gli occhi, lucidi e gonfi di lacrime, i miei sussurri si trasformarono in urla. « Anche Kaien-dono… ho lasciato andare anche lui! Non l’ho fermato! E’ colpa mia… se solo io l’avessi… Non posso, io… Non posso lasciare morire anche Ichigo! ». Lo sguardo di Ukitake, improvvisamente, si fece compassionevole. Forse accadde perché nominai Kaien-dono… o forse, riuscii in qualche modo a fargli comprendere le mie ragioni.  A poco a poco le mie urla rotte dai singhiozzi si calmarono, e caddi in una sorta di incoscienza. Riuscii ad avvertire la stretta di due braccia forti e un profumo familiare invadermi le narici. « Ci penso io, la lasci a me » annunciò una voce roca, conosciuta, che immediatamente mi fece sentire al sicuro.

E, beandomi di quella serenità improvvisa, crollai in un sonno profondo.

 

 

Ripresi conoscenza… non so dire esattamente quante ore dopo. Non ricordavo nulla della mia scenata, ne di ciò che avessi detto, o fatto: conservavo l’immagine della morte nello sguardo di Ukitake-taicho, la sensazione delle braccia forti che mi stringevano, lo strusciare della stoffa calda del kimono sulla pelle… istintivamente, sbarrai gli occhi. Inizialmente mi apparvero solo mille sagome sfocate... misi a fuoco, con fatica. Sentivo gli occhi arrossati e appiccicosi, le guance in fiamme, la gola secca. Quando l’ambiente che mi circondava fu apparso –era un qualunque ambulatorio della quarta brigata- mi sforzai di ricordare cosa fosse accaduto. Il Capitano Ukitake era venuto a trovarmi, mi aveva consigliato di lasciare per un po’ Ichi

« Ichigo! », urlai, colta da un’urgenza improvvisa. Dov’era?. Si era forse svegliato, mente io dormivo?. 

Qualcosa si mosse dietro di me, facendomi sobbalzare. Mi voltai, ansiosa, e… tutto mi si sciolse dentro. D’istinto, mi gettai fra le braccia dello shinigami che mi stava di fronte, tentando di trattenere le lacrime che minacciavano di fuoriuscire.

« Renji, » singhiozzai, premendo il viso contro il suo petto. « che cosa… dovrei fare, ora?… ». Mi concentrai sul suo respiro calmo e regolare, sul battito costante del suo cuore, tentando in qualche di calmarmi. Lui rimase in silenzio, ad accarezzarmi la schiena come fossi una bambina piccola, sussurrandomi ogni tanto di stare calma; fu cosi che feci.

Presi a respirare più lentamente, scossa dai singhiozzi, le mani strette attorno al petto di Renji. Lui continuava a sussurrarmi  qualcosa come “E’ tutto a posto”, “piangi, ti fa bene”, ogni volta che percepiva il mio respiro farsi irregolare.

Bastava il suono roco e familiare della sua voce a calmarmi. In quel momento istintivamente pensai ad Ichigo, sforzai il cervello nel tentativo di ripescare il suo volto, i momenti in cui mi parlava, dal pozzo dei miei ricordi… che immensa tristezza, rendermi conto di aver dimenticato il suono della sua voce.

Ci provai ancora, ma fu del tutto inutile: Il suo volto, l’espressione accigliata e i capelli arancioni mi comparivano davanti, vividi come non mai… ma era un’ immagine prova di rumori; la sua bocca, sorridente, articolava le sillabe del mio nome senza però emettere alcun suono.

Fui presa da una tristezza enorme, un dolore più grande e più sordo di quello che avevo provato nel corso degli ultimi mesi; probabilmente, se non ci fosse stato Renji a tenermi insieme, sarei caduta in pezzi.

« Renji? » sussurrai, ma temetti di non aver emesso alcun suono.

« dimmi ». Sospirai di sollievo. Come avrei fatto senza di lui?.

« forse il Capitano ha ragione, sai. » la mia voce era atona, sfiancata dal lungo pianto. « devo prendermi una pausa. Sto impazzendo ».

Lo sentii sbuffare, ma non capii se di sollievo o rassegnazione. « Fa come credi ».

« tu cosa mi consiglieresti? ».

Alzai lo sguardo verso di lui. Sorrise, un ombra di malinconia che inizialmente non capii gli attraversò il viso. « E’ …l’affetto » sussurrò, piano. Nonostante chinasse il capo, notai il lieve luccichio nei suoi occhi. « anche se te ne vai, ciò che conta davvero è il tuo affetto per lui ».

Come avrei potuto dargli torto?

Istintivamente l’abbracciai, tentando di alleviare lo spesso strato di malinconia che ricopriva entrambi i nostri cuori: spezzati, distrutti, frantumati, ciò che bramavamo non era altro che un briciolo d’amore… lo stesso che, impossibile, irrealizzabile, ci aveva lentamente annientati.

Nel caso di Renji, l’amore per me. Nel mio caso quell’amore bruciante, assoluto, verso il ragazzo dalla chioma arancione che, ignaro, perpetuava nel suo interminabile sonno.

 

 

 

« La vita continua, » mi rassicurò Ukitake-taicho, la mattina prima che partissi in missione, mentre mi congedavo da lui e dai miei pochi amici rimasti. « Fatti coraggio, Kuchiki. Anche questa passerà, vedrai ».

Gli sussurrai un rapido “grazie”, prima di dirigermi verso Renji. Se ne stava un po’ in disparte, gli occhi bassi e le braccia incrociate al petto. Mi schiarì la gola.  « Renji, » mormorai. Sollevò lo sguardo su di me, inquieto, mentre stringevo le nocche fino a farle divenire bianche. Raccolsi tutto il fiato che avevo –abituata a sussurrare com’ero, temevo di aver dimenticato come parlare in tono normale. « Renji, » ripetei nuovamente il suo nome, gli occhi lucidi e le mie mani a stringere le sue, quasi lo implorai.  « Non lascerai che lui rimanga solo, vero? ». Era l’unica cosa a preoccuparmi. « gli sarai vicino, vero? ». Lo fissai negli occhi, implorante, pregando che capisse. Lo vidi sospirare. Sul suo viso prima inespressivo spuntò un ghignetto irritante, di quelli che mi rivolgeva da bambino, mentre con una mano mi scombinò i capelli già disordinati a causa del vento.

« conta su di me ».

Cosi, oppressa dal senso di colpa che non smetteva di usare il mio cuore come un punching-ball, mi diressi verso la direzione indicatomi.

“Un lavoro da nulla”, aveva affermato il Capitano Ukitake, per tranquillizzarmi. “Un hollow avvistato nei pressi del Rukongai Ovest, distretto trentesimo. Ti ci mando solo per distrarti, è un lavoretto da studenti dell’accademia”.

Facile, quindi. Sarei tornata in fretta, prima che Ichigo si svegliasse, prim’ancora di accorgersi della mia assenza; credendo fermamente in ciò, accelerai il passo.

 

 

 

Ricevetti la notizia quattro giorni dopo, al mio ritorno.

Ero entusiasta per il successo della missione, ma anche impaziente… terribilmente impaziente di far ritorno nella minuscola stanzetta che da sette mesi era la mia casa, impaziente di sedermi nuovamente accanto ad Ichigo e rivedere il suo viso, parlargli, sfiorargli  piano i capelli prima di andarmene ed inebriarmi del suo profumo familiare; ero ansiosa di tornare alla normalità- quella normalità fasulla fatta di sorrisi tirati, singhiozzi soffocati nella notte e frasi costruite-, ma pur sempre la quotidianità della mia vita.

La desideravo, e stavo correndo a riprendermela.

Mi diressi svelta, quasi volai verso la sede della quarta brigata, sforzandomi di non travolgere gli ignari shinigami incrociati lungo il tragitto e domandandomi, intanto, se il Capitano mi avrebbe perdonata per quel piccolo ritardo nel consegnare il rapporto della missione; c’era qualcosa che avrei dovuto assolutamente fare, prima.

Quando l’edificio ormai familiare spuntò all’orizzonte affrettai ancor più il passo, impaziente come non mai, l’eccitazione del ritorno –seppur dopo una cosi breve separazione- perfettamente percepibile dalla mia espressione e dai miei gesti.

Fu allora… che lo vidi.

Se ne stava un po’ in disparte, gli occhi bassi e le braccia incrociate al petto… esattamente come l’avevo lasciato. Quando poi, avvicinatami di più, riuscii a scorgere il suo volto… rimasi paralizzata. Non era come l’avevo lasciato. Non sorrideva più. I suoi lineamenti in soli quattro giorni si erano come induriti: gli occhi arrossati [come se avesse…pianto?], le labbra strette e piegate verso il basso, i pugni serrati… e la morte nello sguardo.

Non attese che lo raggiunsi; mi corse incontro, per poi gettarsi ai miei piedi senza neppure guardami in volto.

« Renji, che… »

« mi …dispiace » singhiozzò lui, facendomi sobbalzare. Perché si scusava? Non ne compresi il motivo. « mi…dispiace immensamente…io non immaginavo che… ». Lo interruppi.

« Renji,» sussurrai. Rimase immobile. « Renji? Che hai? ». Non si mosse; continuava a mormorare frasi sconnesse, accasciato al suolo. Persi la pazienza. « Renji » ordinai, e sollevai il suo viso.

Mi guadò, e… sbarrai gli occhi, incredula. Piangeva.

« Rukia, mi dispiace… io, lui… ».

Come in un lampo improvviso, uno spiraglio di razionalità, capii.

« No… » sussurrai, sconvolta.

« Rukia, lui…Ichigo è …peggiorato. Non sanno se ce la far…- ».

« NO! ». Renji sobbalzò al mio grido disperato. Sentii le gambe cedere, vidi il suolo avvicinarsi pericolosamente; mi abbandonai sul pavimento lucido e rimasi immobile, mentre tutto moriva attorno a me. Quando il sole sbucò da dietro una nuvola e prese a picchiare insensibile, squarciando il cielo di quel torrido Agosto, quasi non me ne accorsi.

Stavo forse morendo? Ne fui grata, scongiurai anzi di morire il più presto possibile; mi parve l’unica soluzione possibile per sfuggire al dolore. Renji, a qualche metro da me, piangeva silenziosamente, anche se non capii se lo facesse per me, per Ichigo o semplicemente per se stesso.

Sentivo la testa girarmi vorticosamente. [O era il mondo intero, ad aver cominciato a girare?]. “La vita continua”, aveva detto Ukitake-taicho. Continua, pensai, ma non per me. Non per Ichigo.

« Scusa, » sussurrava intanto Renji, come fosse una nenia. Mi accorsi solo in quell’istante che non aveva smesso un attimo di ripeterlo. Come se… come se fosse davvero lui il responsabile.

Socchiusi le palpebre. La morte era sopraggiunta troppo in fretta, cogliendomi proprio quando credevo che tutto sarebbe tornato a posto. « E’… colpa mia » gemetti, soffocando le lacrime nella mia voce. « non tua. Non avrei dovuto… ». Strinsi gli occhi e conficcai le unghie nei palmi, ripensando a quanto fossero state stupide ed insensate le mie azioni. « non avrei …dovuto…andare via…! ». La mia voce salì di tono nell’ultima parte della frase, quasi urlai.  Accanto a me, percepii Renji irrigidirsi. Smise di mormorare, i suoi occhi divennero vitrei per qualche secondo… poi, un lampo di consapevolezza. Si sollevò, fulmineo, in un istante fu accanto a me e, afferratomi le spalle, prese a scrollarmi con forza.

« ahia » mormorai, nonostante il dolore fisico non fosse nulla a confronto della sofferenza che provavo. « Renji, che- »

« Ho capito, Rukia!, » strillò. Vidi qualcosa, una scintilla di vita nei suoi occhi, che mi costrinse ad uscire dall’annebbiamento e prestargli attenzione. « Vieni con me, » ordinò, e in un attimo mi prese fra le braccia cominciando a correre verso l’edificio della quarta brigata.

Il vento freddo provocato dalla velocità mi si infranse sul viso, restituendomi un minimo di lucidità. « Renji, che.cavolo.succede! », sbottai. I miei nervi erano al limite.

« Rukia, ho capito » rispose lui, esaltato, e non potei ignorare il tono speranzoso della sua voce. « Ho capito perché sta male. Perché tu non c’eri. Capisci? Sta semplicemente tentando di dirci che vuole te! ».

Sbattei gli occhi una, più volte, tentando di far penetrare quella verità in tutte le cellule del mio corpo. Ichigo voleva me? Ripensai ad una conversazione col Capitano Unohana, avvenuta tanti mesi fa da parere lontana secoli interi. “Quando un individuo si trova in stato di coma,” aveva detto. “ha bisogno di qualcuno che gli stia vicino, che gli parli. Se dovesse sentirsi abbandonato potrebbe…”

« peggiorare, » mormorai, incredula. Renji aveva ragione.

« Possiamo salvarlo! » urlò lui, entusiasta e speranzoso come me, aumentando ancor più il ritmo della corsa. E in quel momento, intuendo quanto la sua preoccupazione per la sorte di Ichigo fosse sincera, sentii uno strano calore avvolgermi il petto. Somigliava a… gioia soffocata? Una sensazione quasi dimenticata, che mi riportò ad un mucchio di mesi prima, alla nostra piccola Arcadia privata.

E allora capii che per riaverla dovevo lottare. La desideravo, a tutti i costi, ed allo stesso modo rivolevo indietro Ichigo: e litigare con lui, combattere, prenderci a pugni, allenarci insieme nel do-jo della mia brigata, uscire fuori di nascosto, durante la notte, per poi ritrovarci entrambi a contemplare le stelle dalla cima di un tetto.

« Ci siamo, » annunciò Renji, una nota ansiosa nella voce. Non gli diedi torto: improvvisamente, sentii lo stomaco attorcigliarsi in pose scomode ed il cuore battere pericolosamente. Tentai di non farci caso.

Renji mi mise giù, senza badare alla delicatezza, ed immediatamente schizzai verso la stanza ormai familiare. Spalancai la porta, e lo vidi. Sdraiato esattamente al centro della stanza, migliaia di tubicini trasparenti attaccati ad ogni centimetro del corpo, Hanatarou che si prodigava inutilmente di calmarlo. Il luogotenente Kotestu armeggiava con un grosso macchinario, sul cui monitor non potei fare a meno di notare i movimenti irregolari e spezzati della linea a zig-zag. E poi, guardai lui: quasi scoppiai a piangere, quando vidi che muoveva le dita. Stringeva l’aria, le riapriva, le richiudeva nuovamente a pugno.

« Si sta svegliando? » sussurrai, trattenendo l’eccitazione che trapelava dalla mia voce.

Alle mie spalle, qualcuno sospirò. Mi voltai. « Capitano Unohana? ».

La guardai, e immediatamente capii che qualcosa non andava. Non era felice. Anzi, pareva addirittura preoccupata. « qualcosa…non…va? ». Sillabai, muta.

Lei mi guardò, l’espressione insieme angosciata e addolorata. « Mi dispiace, Kuchiki-dono… stiamo facendo tutto il possibile, ma le condizioni di Ichigo Kurosaki sono tragiche… potrebbe lasciarci ».

Non la lasciai finire di parlare. Con uno scatto repentino raggiunsi la sorta di barella sulla quale riposava Ichigo; sentii gli occhi annebbiarsi di lacrime. « Ascolta bene…tu », singhiozzai, aggrappata a lui. « hai promesso, capito? Promesso! Ichigo Kurosaki mantiene le promesse fatte, sempre! Se muori sei un bugiardo, uno… uno …stolto! ». Aveva senso continuare? Stavo urlando contro un morto?. La linea a zig-zag sul monitor si afflosciò, presto non sarebbe stata altro che una riga dritta. Era finita. 

Alle mie spalle sentii qualcuno, sicuramente Renji, esplodere in un grido di dolore e scappare fuori, sbattendo rumorosamente la porta.

Io ancora non riuscivo a muovermi… ne ad arrendermi. Lui era uno che lottava fino alla fine, lo sapevo.

« per favore, » gli sussurrai all’orecchio. Una delle mie lacrime andò a bagnargli la guancia. « ti imploro, Ichigo. Se non vuoi farlo per me, fallo almeno per la tua famiglia… loro hanno bisogno di te, tutti ne hanno bisogno qui, senza di te noi… io… ». Infilai la mia mano minuscola fra le sue dita, che smisero di stringere il vuoto e si chiusero attorno al mio palmo.  

« Incredibile, » mormorò il Luogotenente Kotetsu, gli occhi sbarrati dinanzi al monitor. Lo guardai anch’io … e capii tutto. La linea non si era appiattita, stava solo riprendendo la sua forma originale, quella che indicava un cervello sveglio. Era finita, certo, ma nel senso opposto.  

« Com’è possibile, Capitano Unohana?. »

« Non lo so, Isane. Probabilmente, il forte shock ha smosso il suo cervello… ».

Continuarono a bisbigliare, ma io non le ascoltavo più. Ero concentrata sulla stretta ferrea della mano di Ichigo, sulle sue palpebre che si strizzavano, come volessero aprirsi da un momento all’altro. « puoi farcela, » lo incitai. Stavolta, la gioia nella mia voce era più che evidente. « Coraggio, ci sei quasi ».

Ci provò ancora. Strinse le palpebre, le allentò di nuovo e riuscii a sollevarle, anche se di poco. Ci provò altre due, tre volte, finché non fu capace di scoprire le due fessure degli occhi. Erano proprio come li ricordavo… caldi, castani e bellissimi.

Mi chiesi se riuscisse a vedermi. Mormorai il suo nome, fra le lacrime, mentre un sorriso inconsapevole mi piegava le labbra. Gli accarezzai i capelli, com’ero abituata a fare, senza smettere di pronunciare il suo nome.

« Ichigo, Ichigo, Ichigo, Ichigo, Ichigo ». Ero incredula, temevo quasi che sparisse, che dovessi svegliarmi da un istante all’altro e tornare alla cruda realtà… invece lui era li. E, soprattutto, era vivo.

« Fai passare, presto » annunciò il Capitano Unohana, spingendomi via. Che dolore, abbandonarlo di nuovo. Avevo bisogno di un overdose del suo viso, un overdose di lui. Come potevano essere tanto crudeli da portarmelo via un'altra volta, ora che l’avevo finalmente ritrovato?.

Mi resi presto conto che lui dovesse pensarla allo stesso modo. Quando Capitano e luogotenente spinsero via la barella, Ichigo non lasciò la mia mano; credevo fosse incosciente, che non mi riconoscesse, eppure spostò il viso verso di me e vidi i suoi occhi, non più annebbiati, colmi di consapevolezza.

Mosse le labbra, non riuscendo però ad emettere alcun suono. Si intestardì, come aveva fatto con gli occhi, provò più volte fino ad emettere un gemito soffocato: lo capii dal suo sguardo e dal movimento delle labbra, che stava chiamando il mio nome.

Riprovò, ostinato. « u…ki…a ». Avrei voluto dirgli di non sforzarsi, ma non riuscivo a muovere un muscolo. La sua voce… come avevo fatto a dimenticarla?.

« Ru…kia », mormorò, con fatica. Strinsi di più la sua mano. « st…stai…qui ». In quel momento, sentii una gioia tanto grande da farmi esplodere il cuore; come se per tutta la vita non avessi atteso altro che quelle parole, come se io stessa esistessi per quello. Per Ichigo  Kurosaki e nessun altro.

Mi guardai attorno… tutto brillava: Unohana e Kotetsu bisbigliavano animatamente fra loro, entusiaste. Hanatarou, quasi svenuto per la gioia, se ne stava seduto sul pavimento a ciondolare. Renji… ero sicura che fosse felice anche lui.

« Rukia ». Mi stupii che la voce di Ichigo fosse già cosi ferma; incredibile quanto imparasse in fretta.

Sorrideva, orgoglioso dei risultati ottenuti, mormorava per attirare la mia attenzione.

« Dimmi, » sussurrai.

Si fece scuro in volto. « vedi che n…non sono un bugiardo? ». Biascicò, con fatica. Mi venne da ridere, fra le lacrime.

« lo so, lo so, stupido. Ora riposati ».

Annuì e chiuse gli occhi.  « lo s…sai che io man… ».

« mantieni sempre le promesse. Ora lo so. Ichigo… grazie».

 

 

 

Epilogo.

La vita continua

 

« Yo, Renji! ». Spuntai alle spalle del mio miglior amico, seduto sotto l’ombra di un albero. [lo stesso dell’altra volta. Ma era tutto diverso, ora]. « Che fai di bello? ».

« Mi riposavo, prima che tu arrivassi. Ora sto cercando di capire perché tu debba sempre rompermi le scatole. »

Misi il broncio. « antipatico,» sbuffai.

Rise, mi premette la sua manona sulla testa. « non te la prendere, dai. Ti chiederei dove tu stessi correndo, ma… come dire, è fin troppo facile intuirlo ».

Ridemmo entrambi. « Allora vado, Ren ».

Mugugnò, seccato. « Non chiamarmi cosi ».

« Reeen! », cantilenai, maliziosa, trattenendomi a stento dallo scoppiare a ridere.

« Ma te ne vai o no, rompiscatole? », mi urlò lui.

« Okey, capo ». Gli scoccai un bacio sulla guancia e, lasciatolo basito e imbambolato, ripresi la mia corsa.

La vita continua.

Schizzai attraverso i corridoi della quarta brigata, travolgendo il povero Hanatarou che quasi rovesciò il vassoio che portava. Gli urlai un “gomen nasai” dietro le spalle, senza fermarmi, finché non raggiunsi la solita stanza.

Mi affacciai all’interno, sorridente.« Ohayo! ».

« Oss, Rukia. » Ichigo mi salutò senza neppure guardarmi, impegnato in una serie di flessioni e piegamenti che ne mettevano in risalto i muscoli scolpiti; il petto ancora ricoperto di bende, i muscoli delle braccia tesi e ben visibili.

Con mia sorpresa mi ero accorta solo da un mese a quella parte di quanto fosse bello. Il suo viso, i suoi capelli bizzarri, il suo corpo allenato… amavo tutto di lui.

“Per non parlare degli occhi, e della sua voce, e di quel sorriso… Dio, quanto lo amo”. Mi costrinsi a non pensarci ed evitare cosi sguardi languidi che non mi si addicevano.

« Allora, come andiamo oggi? ».

« Meglio di ieri, grazie. La forza fisica mi sta tornando ».

Scoppiai a ridere. « ti è gia tornata, vedo. »

Rise anche lui e si sollevò a sedere; quando i suoi occhi accesi incontrarono i miei dovetti usare tutto il mio autocontrollo per stringere i pugni e trattenere l’ondata di emozioni che il suo viso mi provocava. Il modo in cui mi guardava… era come una scintilla.

« Non è tornata per niente, » sbuffò, seccato.  « Sono molto più debole di quanto non fossi prima ».

Evitai di pensare a quanto la sua voce somigliasse a una carezza.

Mi sedetti accanto al letto, com’era mia abitudine. « Perché tanta fretta? Sei sveglio da appena un mese. »

« Lo so,ma… ». Incatenò il suo sguardo al mio; provai a distogliere gli occhi, sapendo che sarei arrossita, ma fu tutto inutile. Non ci riuscivo. O forse non volevo? Quando si avvicinò di qualche centimetro, pensai che il mio cuore sarebbe esploso.

« ma…? », scandii, tanto vicina a lui da aver perso ogni bagliore di razionalità. Il suo profumo nelle narici mi faceva girare la testa.

Si avvicinò di più; era consapevole dell’effetto che mi faceva?

Respirò contro la mia pelle. « c’è …una promessa che devo assolutamente mantenere ».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Author’ Corner;;

Finitaaaaaaaaaaaaaaaa! Non ci credo ò____ò. Ecco, sono talmente dissanguata da non riuscire neppure a scrivere per bene questo angolo autore >______<”.

Innanzitutto non ho riletto la fanfic, perciò segnalatemi eventuali errori. Poi, riguardo la time-line… ehm, è qualche mese dopo la fine della guerra con Aizen.

L’ispirazione mi è venuta da Comatose degli Skillet, da me sempre associata all’Ichiruki per qualche misterioso motivo XD.

Inoltre ho appena finito di leggere The Host di Stephenie Meyer, e… mi è piaciuto cosi tanto da provare, almeno nell’ultima parte, a scrivere utilizzando quello stile XD.  Lo so, non ci sono riuscita ;____;

Ora, i ringraziamenti:

Ringrazio B, che ha accettato di farmi da Beta e mi ha costretta a scrivere quando la voglia di farlo era andata a farsi benedire. Ringrazio Yue e Tak, che mi hanno aiutata via msn e incitata a continuare. Ringrazio Giuli, che ha detto di essere impaziente di leggere XD. Ringrazio tutte le altre blackberries, le ringrazio per tutto: per gli scleri, per aver Ichirukieggiato insieme, per avermi fatto ridere e continuare a farlo X3.

Ringrazio Ichigo e Rukia di esistere, ringrazio Tite Kubo per averli creati, ringrazio Fade to black, la cosa più Ichiruki che io abbia mai visto *______*.

E ringrazio la nuova beat collection dedicata a Ichigo e Rukia, il cui pensiero mi da la forza XD.

 

Detto ciò, questa fanfic partecipa al contest di fanfiction Ichiruki indetto dal mio forum, il death and strawberry.

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