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Autore: Oblakom    10/03/2015    3 recensioni
L'ultima Medaglia, la vittoria finale contro la Lega... e lo specchio delle illusioni puerili si frantuma contro la dura realtà del mondo.
Quando le tue gesta 'eroiche' assumono l'amaro retrogusto dei sensi di colpa, e voltandoti vedi alle tue spalle coloro che hai schiacciato nella foga di diventare il migliore, allora è il momento di strapparsi di dosso per sempre l'infanzia ed iniziare a guardare il mondo con un occhio più maturo e disilluso, di trovare la forza di rinchiudere in un cofanetto tutti i sogni e le illusioni.
...Anche con l'aiuto di un nemico sconfitto.
- «Tu sai cos’è una vittoria?».
[Ispirato alla trama di Pokémon Rosso Fuoco / Verde Foglia]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Giovanni
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Anime, Videogioco
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Otto più una Medaglie.



«Radicalbero!».
«Cloyster, Geloraggio!».
Collisione.
La palestra venne squassata come se fosse stata percorsa da un terremoto quando i due potenti attacchi, scagliati dai lati diametralmente opposti dell’arena, cozzarono l’uno contro l’altro.
Capopalestra e sfidante sollevarono d’istinto le braccia per farsi da schermo contro l’onda d’urto che si espandeva, vestiti e capelli si agitavano come nel mezzo di una burrasca.
Per un lungo, terribile istante non accadde nulla ed entrambi si protesero in avanti, i muscoli tesi, verso quella cortina di polvere marrone che oscurava loro la vista. Poi, sparato come da un cannone, un enorme, terribile mostro dal corpo azzurro emerse dalla nube, il suo volo incontrollato incalzato dai colpi continui di due enormi radici che lo seguivano come fruste.
Con un sibilo di sorpresa, il Capopalestra si gettò di lato, a terra, mentre il suo pokémon fendeva lo spazio che lui aveva occupato solo un attimo prima ed atterrava con uno schianto tremendo sul suolo della Palestra.
L’uomo ringhiò e si alzò di scatto, facendo leva con le braccia. «Cloyster…» sibilò, muovendo un passo in direzione dell’enorme conchiglia. Il suo guscio, spaccato e piegato in più punti, stillava goccioline di sangue verdognolo.
Con un gesto brusco lo richiamò nella Poké Ball. Nessun ringraziamento, nessuna parola di conforto.
Stringendo i denti per la collera si voltò nuovamente verso il ring. Su di esso, gli ultimi fili di fumo si stavano ormai diradando, e riusciva a vedere le due figure che lo occupavano: una, enorme e possente, un mostro implacabile, ansimava pesantemente fra le fauci zannute; l’altra, umana, lo fissava con la vaga ombra di una incomprensibile sorpresa negli occhi marroni.

Avevo vinto.
La prima Palestra che avevo visto, l’ultima che avevo conquistato.
E, guardando Venusaur in piedi davanti a me, provavo una strana, incomprensibile malinconia.

Uno sguardo carico di collera. Un sibilo.
«La Medaglia è lì».

Non lo feci. Non mi mossi. Non la presi.
Non so tutt’ora il perché, ma in quel momento mi si torsero le viscere.

L’allenatrice mosse un passo in avanti, piano, ed allungò una mano come per sfiorare con la punta delle dita la manica della giacca scura del Capopalestra, che già le aveva voltato le spalle per andarsene.
«Aspetta…».
L’uomo si fermò bruscamente, senza voltarsi.
Silenzio.
«Cosa vuoi?».
Si morse l’interno della guancia, ammutolita.
Non sapeva cosa dirgli. Cosa si può dire ad un uomo senza cuore?
«Stai bene, Giovanni?» le sfuggì.
L’uomo si voltò di scatto, ma non gridò, non se ne andò. Rimase lì, immobile, a fissarla con il suo sguardo di collera cieca.
«Cosa farai adesso?» gli chiese piano, poco più di un sussurro. Perché volesse saperlo, non lo capiva neanche lei.
L’uomo chiuse gli occhi. Sorrise. Un sorriso amaro, pieno di ironia e rassegnazione.
«Me ne andrò. I miei… i sogni del Team Rocket sono andati in fumo» si corresse, rapido e disinvolto. Ma, sotto l’accusa e la durezza del suo tono, lei poté giurare che per un attimo gli fosse tremata la voce. «Ho perso di nuovo, sconfitto ancora una volta da una ragazzina. Non potrò più presentarmi ai miei sottoposti. No, d’ora in poi mi dedicherò solo all’allevamento dei miei pokémon» concluse.
Si ritrovò a fissare il pavimento, di nuovo a corto di parole. Accanto a lei, l’ombra del suo fedele Venusaur le ricordava di non essere sola.

Non può essere una ragazzina a sgominare una banda criminale.
No, quello è un compito da adulti.

«Mi dispiace». Glielo disse in un mormorio.

«Non fare la sciocca» mi avevano detto. «Sei stata grande!».
Ma io ero solo una ragazzina.
Una ragazzina che, stupidamente, si sentiva in colpa.

Giovanni non rispose per un lungo istante, tanto lungo da farle dubitare che avesse sentito.
Lei spostò nervosamente il peso da un piede all’altro. Cos’era quel magone che le attanagliava il petto? Perché, perché nonostante tutto non riusciva ancora a liberarsi di quell’opprimente senso di colpa?
Strinse i pugni lungo ai fianchi e Venusaur se ne accorse.
«Saar» il pokémon le sfiorò piano il braccio con il naso, preoccupato.
Lei lo ricambiò posandogli la mano sulla fronte coriacea. Stirò le labbra in debole sorriso carico di tristezza.
Venusaur non poteva aiutarla.
Erano cresciuti insieme. Giorno dopo giorno, avevano attraversato foresta dopo foresta, esplorato città dopo città. Ma fra la bambina che era partita dieci anni prima dalla città di Biancavilla con un Pokédex nello zaino ed un Bulbasaur accanto sé e l’allenatrice che presto avrebbe sfidato la Lega la differenza era immensa. La fedele, coraggiosa, forte presenza del suo Starter per la prima volta non bastava. Da creatura complessa quale era l’homo sapiens, domande filosofiche, etiche e morali venivano richiamate quasi di natura a rincorrersi e ad accavallarsi nella sua mente; ed erano domande cui solo un altro membro della sua specie poteva trovare risposta.

“È eroe chi schiaccia gli altri nel suo cammino verso la giustizia?
…E se domani cambiassero le leggi e decidessero che ad essere nel torto sono io?”
Non lo sapevo, ma quel pensiero non mi abbandonava.

Fu un suono strano quello che sfuggì a Giovanni, a metà fra uno sbuffo ed una risata. Lentamente, l’uomo scosse la testa.
Un sussurro udibilissimo: «Sei proprio stupida».
Suo malgrado, lei sorrise. Per qualche ragione, ci sono casi in cui un insulto è meglio di un abbraccio.
«Dici?» inarcò un sopracciglio. Nonostante le labbra incurvate, i suoi occhi luccicavano di tristezza. «Oh, beh… adesso si capisce, come ho fatto a vincere».
Voleva che Giovanni si voltasse, che per una volta la guardasse con una luce negli occhi diversa dal fastidio o dall’odio, così, sperava, anche il macigno che portava nel petto si sarebbe un po’ alleggerito. Non di molto, giusto quel che bastava a lasciarla respirare.
Lui si voltò. «Prego?».
«Beh, magari non è roba della tua generazione, ma nei manga, di solito, sono proprio i ragazzini scemi gli… quelli che vincono sempre. Fra una botta di culo e l’altra».

Stavo per dire ‘sono proprio i ragazzini scemi gli eroi’.
Non ci ero riuscita.
Nella mia gola, quella parola si era bloccata come una enorme, disgustosa matassa di capelli umidi e aggrovigliati.

Lo sguardo attonito di Giovanni durò solo un istante, poi l’uomo rise. Dapprima piano, le spalle scosse da singulti silenziosi; poi sempre più forte, sguaiatamente, ma senza la minima traccia di divertimento.
«Giovanni…?».
Lui scosse la testa e lentamente si calmò. «Quella non è una vittoria, è una casualità».
Batté le palpebre. Eh?
«Tu sai cos’è una vittoria?» le chiese all’improvviso. Aveva un tono diverso, quasi dolce.
Esitò mentre con gli occhi cercava aiuto nello sguardo di Venusaur. «Una vittoria è…» si interruppe, le sopracciglia appena corrugate. «Beh, dipende dalle circostanze» disse infine. «Vinci quando superi le difficoltà che ti si parano davanti, quando sei in perfetta armonia con i tuoi pokémon, quando-».

Puoi provare ad aggrapparti fino a farti sanguinare le mani, ma presto o tardi scoprirai quanto sia inutile: dagli specchi prima o poi si cade.


°

Il suo nome svettava su uno striscione in cima al Laboratorio Pokémon di Biancavilla; sotto di esso: La Campionessa.
Caratteri verdi come il suo Starter.
Quando si appoggiò alla sua spalla, il grosso pokémon emise un borbottio.
Affianco a lui, su un alto tavolino, svettavano otto più una Medaglie luccicanti.
«Ci avresti mai creduto?» gli chiese in un sussurrò. «Ci siamo arrivati».
Il grosso, massiccio Venusaur sbuffò dalle narici; un soffio d’aria tiepido e fresco come la primavera.
Erano riunite lì, attorno a loro, in quell’afoso giorno d’estate, molte, molte persone, tante che stentava a credere che fossero davvero tutte lì solo per lei. Eppure, in quella marea di persone, i suoi occhi cercavano solo i volti mancanti.
Il suo rivale, a cui aveva distrutto i sogni con le sue stesse mani.
Bruno il Superquattro, il cui Machamp avrebbe portato in eterno le cicatrici delle Foglielama di Venusaur.
E… Giovanni.

Avevo vinto?
Credevo di saperlo, ma speravo di sbagliarmi.
Forse, dopotutto, sarebbe stato meglio non avere una risposta.

Sussultò allo squillo che provenne dalla sua tasca, riemergendo dai suoi non-sogni.
«Pronto?» una stretta nel petto, all’altezza del cuore. «Giovanni…!».
Tutto d’un tratto, scoprì le tremava la mano.

«Sei davvero una brava allenatrice»,
mi avevano detto, quando le Frustate del mio piccolo Bulbasaur avevano dimostrato di poter tenere a bada l’enorme Onix di Brock.

«Congratulazioni».
Ma dalla voce dell’uomo, parve più una condoglianza che un complimento.

«È davvero l’allenatrice più potente di Kanto»,
sussurravano ora, gli occhi sgranati sulle riprese del Radicalbero del mio enorme Venusaur che strangolava a mezz’aria il terrorizzato Charizard del Campione.

Non riuscì a dire ‘grazie’, prima che la telefonata si chiudesse.

«Quando le avrò conquistate tutte le metterò proprio al centro, e in alto, così tutti le potranno vedere!» aveva vagheggiato la me stessa di dieci anni.

«…E ora?» chiese invece a Venusaur ed al vento.

Mi stupii, perché non ebbi bisogno di cercare una risposta a quella domanda.
Ora sarei andata avanti, e basta.
Johto mi attendeva.

…Ma prima era il caso di cercare un cofanetto in cui nascondere tutte quelle Medaglie.



  
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