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Autore: _A m a l i a_    13/03/2015    3 recensioni
Milano, Seconda guerra mondiale.
Una storia d'amore più forte del tempo. Più forte della guerra e delle proibizioni.
Clarissa è la giovane figlia di un sostenitore del partito fascista. Cesare è l'uomo di cui s'innamora. Un uomo che combatte la dittatura e mette a repentaglio la propria vita per salvare quella degli altri. Un eroe silenzioso.
La loro storia cammina di pari passo con la disperazione, con la morte e cresce nascosta dagli occhi indiscreti di chi non potrebbe accettarla.
***
Dal 13esimo capitolo:
«Prometti di gridarmi che mi ami e che il suono delle tue parole mi arrivi anche sopra gli spari e lo scoppio delle bombe. Prometti di custodire una parte della mia vita nella tua, così che saprò che non ti lascerai mai morire, per non uccidere anche me.»
Genere: Drammatico, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Guerre mondiali, Dopoguerra
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La storia di Cesare e Clarissa procederà lungo un excursus temporale che racchiude il periodo dal 1939 al 1946. Ogni capitolo sarà introdotto dalla data relativa all’evento descritto.
Buona lettura!
 



 
Come d’autunno le foglie
 

 

~ prima parte ~

 



Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie
(Soldati – Giuseppe Ungaretti)


 



1.

Milano.
Dicembre, 1945


Una giovane donna con una sbiadita sciarpa rossa intorno al collo e un cappello a cloche, vecchio regalo di tempi lontani, camminava spedita tra i corridoi del Tribunale. Il ticchettio delle scarpe seguiva ogni suo passo e attirava l’attenzione delle centinaia di persone in fila, da interminabili ore, fuori dall’ ufficio ‘Dispersi e Prigionieri di guerra’.

Come ogni giorno, da più di quattro mesi, si aggregava silenziosa alla fila e attendeva. Gli inservienti avevano imparato a riconoscerla, i giudici che le passano accanto non potevano evitare di deriderla e invitarla a spendere le sue giornate in attività più proficue, ma nulla di quello che le dicevano arrivava a toccarla. Rimaneva ritta per l’intera giornata, mentre la fila avanzava con inimmaginabile lentezza. E quando, verso sera, finalmente arrivava il suo turno, sapeva già cosa sarebbe accaduto..

Anche quella volta, si avvicinò allo sportello di una delle addette dell’ufficio, che sventolava un foglio di carta sulle guance rosse. Sbuffò quando la vide arrivare. «Signorina, pensa davvero che le cose siano cambiate rispetto ieri?»

«Mi lasci parlare con il giudice Fremagli, non ho sue notizie da due settimane.»

La segretaria scosse la testa e prese a limarsi le unghie con un tagliacarte. «Il giudice Fremagli è stato trasferito in un paesino del centro, per carenza di personale.»

«Ma come trasferito? Perché non sono stata avvisata? E’ lui che segue il caso di mio marito.»

«Signorina.» alzò gli occhi al cielo. «Nessuno si sta occupando del caso di suo marito perché, come le abbiamo già detto ieri e l’altro ieri e il giorno prima ancora, non esiste nessun caso che sia mai stato aperto nei riguardi di questa persona, di cui peraltro non sappiamo niente se non quello che lei ci racconta e le fotografie che si ostina a portarci.»

La giovane donna strinse tra le mani le piccole fotografie, in bianco e nero, che anche quel giorno aveva portato con se.

«Mi ascolti bene.» riprese la segretaria. «non perda tempo venendo in quest’ufficio perché di tal Cesare Poggi non avremo mai comunicazioni da riportare. Non risulta nella lista dei dispersi, né in quella degli attuali internati in campi di prigionia stranieri e sebbene vorrei che le cose cambiassero, quanto meno per non vederla più qui,» disse, squadrandola. «non cambieranno mai.»

«Ma l’altro giorno mi avete detto che non risultava nemmeno nella lista delle vittime. Questo vorrà pur dire qualcosa?»

«Vuol dire tutto e niente. Quelle liste riportano solo la metà degli effettivi decessi che ci vengono comunicati, dal momento che la maggior parte non può essere identificata. In ogni caso, l’ufficio ‘Vittime di guerra’ è quello accanto al nostro. Vada a tormentare loro, da brava.» si schiarì la voce. «Il prossimo!»

La giovane donna insistette imperterrita, fino alla stregua dell’imbarazzo. Mostrò di nuovo le fotografie, mentre le altre segretarie commentavano divertite l’aspetto dell’uomo ritratto, come fosse stato l’attore di uno dei loro fotoromanzi. Mostrò la carta d’identità di Cesare Poggi, la pagina dell’Albo degli insegnanti che riportava il suo nome da oltre quindici anni, la sua cravatta preferita che teneva sempre nella borsetta. Qualunque cosa che lo facesse apparire reale. Poi, solo quando capì che, una volta ancora, non ci sarebbe stato nulla da fare, se ne andò.

Uscì dal Tribunale e corse verso la sua corriera; se l’avesse persa non sarebbe riuscita a rincasare prima che l’ora del coprifuoco scattasse. Erano mesi che la guerra era finita, eppure se ne respirava ancora l’odore come se non fosse mai andata via. Si vedevano più uomini per le strade, l’orario del coprifuoco era stato prolungato e meno carri armati occupavano le piazze, ma rimaneva la paura, rimaneva il dolore e l’accecata speranza. Si credeva non sarebbero spariti mai.

Dell’antica villa che aveva visto sbocciare la sua vita, avanzava solo un angusto sottoscala. Era lì che Clarissa viveva, insieme a Gemma e suo marito. Li aveva incontrati poco dopo la fine della guerra, quando vagavano alla ricerca di un posto in cui poter crescere due bambini. Sarebbero stati stretti in quel sottoscala, Clarissa li aveva avvisati, eppure per loro fu come entrare nel Paradiso terrestre.

Quando la vide arrivare, Gemma capì senza bisogno di spiegazioni. Sfoggiò un enorme sorriso, per smorzare la tristezza di Clarissa. «Il migliore minestrone di tutti i tempi, non ci sono dubbi. Clarissa non ci crederai, ma è più buono di quello che viene servito ai reali inglesi. Siediti e dimmi se non ho ragione.»

Giorgio, il maggiore dei due bambini, allungò il piatto in direzione di Gemma. «Come fai a sapere cosa mangiano i reali inglesi?»

«Soprattutto come fai a sapere che è più buono il loro brodo del nostro, fatto di acqua e sedano.» commentò sarcastico il marito, raggiungendoli a tavola.

«O insomma, come siete indisponenti. Clarissa, mia cara, perché non bevi un po’ di vino rosso, sei così pallida.»

Clarissa si sforzò di sorridere. «Penso di esserlo sempre stata. Voi mangiate pure, io andrò a riposarmi un po’, ma ti prometto che assaggerò il tuo brodo non appena mi sentirò meglio. Scusatemi.»

Così dicendo, si chiuse in camera da letto. Una stanza che divideva con la figlia di Gemma, la piccola Maria, che riposava serena nella sua culla. Appariva così delicata che l’ accarezzò appena, per timore di farle del male e si stese sul letto.

Le bastò chiudere gli occhi per sprofondare in un lungo sonno.

 

 
  
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