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Autore: outofdream    15/03/2015    7 recensioni
Rivisitazione di "Twilight", di S. Meyer.
Dal 17 Capitolo:
Rimasi immobile in quel modo, rossa in viso, coi piedi scalzi e i capelli arruffati, lo sguardo fisso su di lui.
Non ero spaventata, ma non sapevo nemmeno cosa fosse giusto fare.
Le sue mani delicate sfiorarono i contorni rigidi della finestra e ne spostarono con leggerezza le ante, facendo entrare nella stanza un’aria pungente, fredda e morbida. Provò a sorridermi, ma sapevo che in quel momento la sua tristezza non conosceva confini e quando lo capii, non potei resistere: corsi verso di lui, gettandogli le braccia al collo e stringendolo a me.
Oh, Edward.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Twilight
Capitoli:
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                                                                                                                      Un giorno


«Ah».
Lo fissai per un lungo momento, quel suo sguardo accigliato e un po’ torvo, il modo in cui si strofinava meccanicamente la barba rada sull’estrema linea massiccia del mento – continuavo a ripetermi quel monosillabo uscito a forza da quelle labbra ruvide in testa come un mantra. «Ah», aveva detto e si era messo a riflettere. Tirai uno o due colpetti di tosse, come a voler spiegargli che non c’era davvero troppo da tirarla per le lunghe. «Sì, va bene», borbottò ritornando in sé, «Mi stavo solo domandando cosa ti avesse spinto a cambiare idea così.. Radicalmente. Non sei mai stata tipo da questo genere di cose. C’è qualche ragione particolare che ti ha fatto prendere questa decisione?».
Scrollai le spalle con aria noncurante sotto lo sguardo di Charlie, che mai mi era sembrato più affilato.
«Va bene, va bene», trattene una risata, «ma fatti delle foto per tua madre. Sai che impazzisce per queste cose». Sorrisi un po’ imbarazzata e me ne tornai in camera mia, ripensando ancora all’espressione esterrefatta di Charlie. Certo questo genere di decisioni potevano pure spiazzarlo, senza dubbio, ma mi domandavo se questo genere di reazioni sarebbero diventate una sorta di routine nei giorni avvenire.
Ancora dovevo comunicare la mia decisione a Angela, a Jess. A Edward.
Avvampai alla sola idea e nascosi in fretta il viso nel cuscino, provando a concentrarmi sul fatto che a breve Charlie si sarebbe infilato nel suo liso giubbotto di pelle, avrebbe inforcato gli occhiali da sole schizzati dalla pioggia e un po’ graffiati, avrebbe annunciato la sua partenza, una semplice visita al buon vecchio Billy Black, sbattuto la porta alle sue spalle e finalmente non avrei più dovuto pensare a quella breve conversazione, che ancora un po’ mi coglieva sul vivo. Tirai un sospiro di sollievo quando quella blanda rassicurazione che continuava a roteare in un loop infinito nel mio cervello finalmente si concretizzò e io potei gridare a pieni polmoni: «Ciao, papà! Divertiti con Billy!».
Mi buttai sul letto, continuando a stringermi sul viso il cuscino.
Volevo morire! Mi stavo già pentendo di quella decisione.
Non avevo nemmeno un vestito e.. Improvvisamente, le ante della finestra cigolarono e una voce, più simile a un flebile eco alle mie orecchie otturate dalla stoffa del cuscino, si fece spazio nel silenzio della stanza. «..lla?», mormorava con insistenza l’eco, «..ella?».
Sollevai appena il cuscino per andare incontro a quel suono. «Dimmi», borbottai un po’ imbronciata di fronte all’immagine piegata di Edward, di nuovo e ormai come sempre da quasi un mese, in bilico sul bordo della mia finestra. «Che stai facendo», mi lanciò un’occhiata stranita entrando con un balzo nella stanza.
«Rifletto sull’esistenza», dissi.
«Sembra noioso», rise lui arrampicandosi sul mio letto.
«Lo è».
«Allora non farlo. Andiamo a fare una girata», sorrise eliminando con le sue lunghe dita la barriera di stoffa e piume che difendeva il mio viso arrossato, di fronte al quale la sua espressione cambiò.
«Che hai?», mi venne vicino, «La febbre?».
«Mh, no», mormorai io, distogliendo lo sguardo.
«Sei paonazza».
Ancora?, pensai io, con un moto di imbarazzo che non servì a far altro che far affluire altro sangue alle mie gote. «Vuoi un bicchiere d’acqua?», tentò lui, ancora sopra di me, gli occhi ancorati ai miei.
«No me troppa fatica bere acqua no no», trattenni una risata di fronte al suo sguardo interrogativo, premendogli dolcemente il palmo caldo della mia mano contro il suo viso duro, gelido.
Sentirlo sorridere contro la mia pelle tesa mi fece un po’ venir voglia di piangere e ridere nello stesso momento. Edward si chinò su di me, spostando delicatamente la mia mano. Poggiò la sua fronte sulla mia, schiuse le labbra delicatamente e cominciò a cercare le mie labbra con la punta della sua lingua. Mi avvicinai a lui, stringendolo a me più forte mentre ci abbandonavamo a quel bacio sensuale, quasi fosse stata l’onda del più selvaggio dei mari.
Ogni tanto sentivo i nostri respiri allacciarsi, trovare un unico ritmo e mi sfuggiva un sorriso fra i baci, mentre la sua lingua tracciava un’umida linea dal punto più alto e nascosto del mio collo fino alle clavicole sporgenti. «Che ridi», sussurrava ogni tanto, senza dar l’impressione di voler smettere.
«Pensavo che i vampiri non avessero bisogno di respirare».
«Mh, qualcosa del genere», sorrise sornione, poggiando la fronte qualche centimetro al di sopra della mia scollatura a barca, «ma in alcune circostanze..».
Il modo in cui lasciò cadere la frase, in maniera così allusiva, per un attimo si trasformò in un brivido che mi corse su per tutta la schiena. Mi guardò intensamente, pronto per ricominciate, posare ancora una volta le sue labbra algide sulla mia carne di crema e indugiare con dolcezza sulle mie gote, la punta del naso, la superficie rovente delle mie labbra rosse e pulsanti quasi come fossero state annaffiate di vino. Premette di nuovo la punta della lingua sulla mia prima di alzarsi di scatto, facendomi quasi cadere da letto.
«Edward!», gridai al suo profilo teso, «Si può sapere che ti prende?».
«Sento puzza di cane», grugnì contraendo il viso in un’espressione di leggero disgusto.
Mi passai una mano sulla faccia, «Non ci posso credere».
«Non mi riferivo a te», alzò le spalle lui, come per rassicurarmi.
«Ma non mi dire», sbottai in tono sarcastico appoggiandomi sui gomiti. Restammo un attimo in silenzio, lui ancora cavalcioni sopra di me. «Dobbiamo restare a fissare il vuoto per ancora molto altro tempo?», ammiccai con ironia velata al suo corpo immerso nella più completa immobilità.
Lui si voltò verso di me, rivolgendomi uno di quei suoi soliti, imperdibili sorrisi e con un sospiro si abbassò su di me sussurrando un debole: «Ci vediamo».
Non feci nemmeno in tempo a dire: «Che vorrebbe dire?», che già era svanito, dissoltosi come una brezza finissima fra le mie braccia, senza nemmeno fare il più piccolo rumore. Rimasi ferma per qualche secondo, tempo necessario per poter rendermi conto del trillo del campanello: con uno sbuffo divertito mi precipitai giù dalle scale, credendo di aprire la porta e ritrovarmelo lì davanti, Edward con quel suo sorriso sghembo e il suo modo arrogante di prendermi in giro («Credevi che me ne fossi andato davvero, eh?»), ma trovai Jacob Balck, ritto nel suo metro e ottanta sul vialetto di cemento, a un passo dal mio viso agitato e dai miei capelli arruffati. «Ah,.. ciao», dissi.
«Ciao», rispose lui raggiante e «Aspettavi qualcuno?».
«Non lo so», risposi sovrappensiero.
«Non lo sai?».
«No, no, volevo dire.. No. Non aspettavo nessuno. Vuoi entrare?».
Lui accettò di buon grado. «Qual buon vento ti porta qui? Sapevi che mio padre è uscito con il tuo?», ghignai divertita. «Ah, sì», sorrise strofinandosi non senza un po’ di imbarazzo la parte bassa della nuca, «lo sapevo. E siccome passavo di qui..».
Alzai le spalle sorridendo, «Hai fatto bene. Vuoi qualcosa da bere? Mangiare? Abbiamo questa torta in frigo che è proprio extra», risi voltandomi verso la sua maglietta blu slavata e i suoi jeans un po’ strappati, decorati da gocce d’olio nero brillante, così simili ai suoi lucidi capelli lunghi.
«No, grazie, passerò per questa volta. Piuttosto, tu come stai?».
«Tutto ok. Tu?», chiesi mentre afferravo dalla dispensa un bicchiere.
«Più o meno. Ma la vita nella riserva è talmente noiosa, sai. Devo sempre aspettare che qualcuno sia lì lì per tirare le cuoia o che capiti un cataclisma, così posso farmi un viaggetto dall’altra parte del mondo..».
«Per portare qualche nonno o zio a farsi curare», scoppiai a ridere.
«Sì, preciso. Quindi a volte me ne vado un po’ a spasso», scrollò le spalle e appoggiandosi allo stipite della porta, le grandi mani in tasca, aggiunse: «Non credevo che ti avrei trovata in casa, è un bella giornata oggi».
«Sì, beh, sono un tipo pigro, che vuoi farci».
Lui rise, «Ho saputo che voi visi pallidi farete un ballo di fine anno, me lo confermi?».
«Affermativo», risposi in tono meccanico io.
«E ci andrai?».
Rimasi un attimo in silenzio, chinando appena lo sguardo sul bicchiere che tenevo in mano. «Ah, mh.. Penso di sì», borbottai poco convinta. Avrei voluto avere quel genere di conversazione con Edward, in tutta onestà. Jacob mi rivolse un sorriso folgorante, di quelli che non mi sarei mai aspettata potesse fare un ragazzino come lui, «Mi piacerebbe vederti con un vestito da sera».
«Non ce l’ho nemmeno, e il ballo è fra una settimana!», risi io, passandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Per la verità, non avevo nemmeno un cavaliere. Non avevo detto a nessuno che sarei andata, avevo sempre prontamente rifiutato ogni invito e dopo ciò che era successo, con Victoria e James né io né Edward ne avevamo più parlato. Sapeva che non ero tagliata per questo genere di cose, «Quale ballo?», aveva domandato con aria elusiva qualche tempo prima mentre camminavamo per i corridoi, quasi a volermi togliere ogni peso di dosso, o a rimarcare la sua indifferenza verso un evento simile.
Ma c’erano dettagli impossibili da nascondere, perfino per uno come lui: il modo in cui ascoltava rapito Rosalie e Emmett discutere dei rispettivi outfit per la grande serata, o le affettuose conversazioni di Alice e Jasper traboccanti di aspettative ingenue e innocenti. Il mio cuore andava in frantumi e si ricomponeva a una velocità tale da farmi mancare il fiato ogni volta che lo sorprendevo assorto nei suoi pensieri, perché per quanto impenetrabile potesse sembrare a volte, io riuscivo a capire in quali luoghi segreti il suo cuore si rifugiava. Volevo solo che fosse felice.
«Sei la solita», rise lui, piegandosi leggermente nella mia direzione.
«Con chi..», cominciò lui e poi si bloccò, con lo sguardo che mi superava e dritto come una lancia puntava verso la grande vetrata della finestra della piccola cucina.
«Jacob?», dissi io, poi seguendo la linea tracciata dai suoi occhi attenti mi voltai solo per trovare Edward al di là della vetrata con un sorriso da imbecille stampato in volto, mentre sventolava la mano e picchiettava sul vetro alternando il tamburellare allegro delle dita sul vetro con trillanti, «Ciao!». «Oh, ma santo Dio», sbottai io, andando a aprire la finestra, «ti apro la porta, andiamo. Che stai facendo?». Edward si appollaiò sulla cornice di legno, la schiena contro la solida anta di vetro. «Ciao», sorrise rivolto a Jacob.
Quello parve irrigidirsi non poco e si limitò a commentare la scena con un semplice: «Allora avete fatto pace tu e lui». «Sì, sì, è carino da parte tua interessarti», lo ammonì Edward con un gesto della mano.
«Ah, Edward lui è Jacob..», cercai di infilarmi nella conversazione, ma il mio tentativo non venne minimamente considerato, tanto che Jacob disse, «Sono una persona gentile, che posso farci».
Mi domandavo da cosa nascesse quell’ostilità improvvisa che pareva unicamente essersi rinnovata quel pomeriggio, ma nata già parecchio tempo fa.
«Praticamente un santo», sorrise Edward con una certa arroganza.
«Praticamente», ribatté Jacob.
«Senti ma è Bella che si occupa del tuo meraviglioso taglio di capelli? Ci pensa lei a tosarti? Sei qui per questo?». «No, credevo che fosse troppo impegnata a rifare il trucco a te», fece l’altro ammiccando al colorito più che spento di Edward.
«Bella è troppo impegnata in generale quando è con me», disse lasciando cadere la frase in maniera allusiva Edward. Jacob parve venir colto sul vivo, ma si rilassò immediatamente quando colpii Edward sulla testa con una rivista. «Adesso smettila», ordinai, puntando la rivista arrotolata contro di lui, «e non fare il maleducato». Edward mi sorrise e ben preso quelle sue labbra incurvate si trasformarono nella più adorabile delle smorfie, così simile in tutto a quella di un bambino vivace che mi ricordai con un improvviso sussulto il motivo della mia scelta. «Scusalo», dissi rivolta a Jacob, «è scemo poverino».
Provai a sorridergli ma l’altro ormai sembrava aver perso qualsiasi entusiasmo.
«Come ti pare», sbottò e poi, riprendendosi subito, con un moto di vergogna, «forse dovrei andare».
«Sì, sì, ti prego!», disse Edward riserbando a Jacob il più luminoso dei sorrisi. E per questo si beccò un’altra botta. «Puoi restare, adesso si calma», rivolsi un’occhiata torva al mio colpevole preferito, che se ne stava vicino a me tirando i lembi della mia camicetta. Proprio come un bambino, pensai esasperata.
«No, meglio tornare a casa».
«Nella capanne, si chiamano capanne», precisò Edward. Questa volta riuscì a spostarsi in tempo dalla traiettoria della rivista. «Se continui così mi cancella per sempre dalla lista degli amici», gli intimai, ma senza sortire grandi effetti, e rivolta verso Jacob: «Puoi tornare quando vuoi».
Lui sorrise e per un attimo mi sentii un po’ meglio di fronte la scomparsa di quell’espressione tanto offesa.
«Ti accompagno alla porta?».
Jacob annuì.
«Ciao! Ciao-o!», gridò Edward, che ormai si era impadronito completamente della cucina, «Mi raccomando scrivi! E se non puoi scrivere, i segnali di fumo vanno bene comunque».
Mi passai una mano sulla faccia, «Ha dei seri problemi».
«I dottori avranno perso le speranze», rise lui.
«Anche il tuo parrucchiere, Jacob!», gridò Edward dall’altra stanza.
«Sei sicura che uno così possa essere amico tuo?», mi sorrise, incrociando le braccia al petto, le mani infilate sotto le ascelle. «Che posso farci, sono una che si accontenta».
Ci fu un momento di silenzio, poi Jacob disse: «Stai attenta, va bene?».
Cercai di guardare al di là di quell’espressione preoccupata, di cosa si nascondesse dietro quelle parole e, forse, di quella sua visita casuale. «Come sempre», risposi strizzandogli l’occhio.
A lui quello parve bastare. Si allontanò salutandomi piano, ma il suo sguardo era distante.
Chiusi la porta dietro di me e tornai in cucina.
«Sei impossibile», sbottai, i pugni puntati suoi fianchi, «davvero impossibile, io non.. E si può sapere perché te ne sei andato?». «Puzza di cane, è un efficace repellente», sorrise, seduto sul tavolo di cucina.
«Ancora con questa storia?», soffocai una risata, «E visto che il suo odore è così intollerabile per te, perché sei tornato?». «Mi interessava partecipare alla conversazione».
«Ah, ecco! Quale parte in particolare ha colpito la tua immaginazione?», risi.
«Quella in cui parlavate del ballo di fine anno», sorrise nella cucina illuminata dalla fioca luce pomeridiana.
Rimasi un momento interdetta, «Ah, quella..».
«Vuoi davvero andarci?», chiese serio.
Annuii, tentando di nascondere le gote rosse fra le ciocche dei capelli: non ero preparata a questo genere di cose. Alzai lentamente gli occhi verso l’immagine di Edward che si stagliava in controluce nella mia cucina, senza sapere cosa aspettarmi. Lui mi guardava con un’aria divertita, un misto fra felicità e eccitazione.
Sapevo cosa stava per succedere.
«Edward, no», ebbi appena il tempo di dire, prima che lui mi prendesse di peso e mi portasse su in camera fra le risate generali.


«Non ci penso nemmeno. Proprio no. Non succederà mai nella vita del mondo, ciao. Addio. No. No. No-o».
«Bella, ti prego. Ma quanti anni hai? 86? Mia zia è più audace, per Dio. E è morta. No, per dire!».
«Allora, prima di tutto, no. Quanti colori ci sono sopra questo affare? E cos’è questo?», presi fra le mani l’enorme fiocco tutto strass e perline che penzolava dalla vita del manichino anoressico strizzato in un vestito ancor più striminzito. «Va bene che vogliamo fare le cose in grande, ma preferisco continuare a dare l’impressione di essere mentalmente presente».
Jess si passò una mano fra i capelli e mi lanciò un’occhiata torva, «Non li capisco i tuoi gusti, proprio no».
«Noto», mormorai guardandola negli occhi e dopo appena una manciata di secondi stavamo già ridendo.
«Ragazze, è inutile», mi lasciai cadere su un pouf violetto del negozio di vestiti in cui Jess mi aveva trascinato, «è stasera. Il ballo. È stasera, il ballo. Sta-se-ra. Non posso credere di non avere ancora un vestito! E di aver detto questa frase! Oh, santo Dio che mi sta succedendo?».
Angela e Jess si lanciarono un’occhiata interrogativa e poi si abbandonarono a una fragorosa risata.
«Mi sono sempre chiesta come dovesse essere una Bella sotto stress per questo genere di cose», sorrise Angela. «È un po’ come assistere all’aurora boreale», rise Jess, «una specie di miracolo».
Le rivolsi una linguaccia. «Piuttosto, cosa ti ha fato cambiare idea?», proseguì, mentre lanciava occhiate di cupidigia all’inventario color arcobaleno di vestiti che si apriva dinanzi a noi, alternando occhiate fugaci verso il mio viso affranto a frasi del tipo: «Come vorrei comprarmeli tutti» e, «Vorrei potermi vestire così tutti i giorni! Dio..». Feci spallucce, «Nulla in particolare. Sembrava una cosa divertente».
«Te l’ha chiesto Edward?», chiese innocentemente Angela.
«No, in realtà l’ho fatto io», sbottai.
«Lui non voleva venire? Siete più simili di quanto pensassi allora», sorrise Jess con quella sua solita cattiveria di passaggio, sempre più debole e rara. «Non è questo..», mi strinsi nelle spalle: chissà perché quella domanda mi veniva fatta più e più volte da persone con cui non avrei mai voluto condividere una simile verità, e l’unico a cui avrei potuto volentieri rispondere, non me l’aveva chiesto! Ah, l’ironia.
«Forse dovremmo provare in un altro negozio e basta», dissi distogliendo lo sguardo, cercando pure di cambiare argomento. «Questo è l’unico in zona, altrimenti dobbiamo andare a Port Angeles».
Al solo sentir pronunciare quel nome mi vennero i brividi.
«No, no, meglio di no», mormorai.
«Magari se prendi questo», propose Angela, tirando il lembo di un altro vestito, «e poi lo modifichi.. Non so». Mi passai una mano sulla faccia. Non poteva funzionare.
«Farei meglio a andare nuda», sbottai esasperata.
«A Edward certamente farebbe piacere», Jess scoppiò a ridere e Angela con lei.
«Divertente», sorrisi io.
«Già, piuttosto.. A che punto stiamo?», chiese con malizia Jess.
A che punto stavamo? Ripercorsi mentalmente i movimenti del corpo di Edward sotto il mio, steso sul mio letto, quel pomeriggio di qualche giorno fa, le sue mani che si infilavano sotto la stoffa sottile della mia maglietta, arrivando piano a toccare le estremità del mio reggiseno, il modo che aveva di poggiare le sue labbra tiepide sul mio mento, mordermi le orecchie. Se solo Charlie fosse rimasto più a lungo con Billy, noi.. Avvampai. «Mh, a nessuno», mormorai, ma Jessica ci mise poco a vedere oltre le mie parole e cominciò a tartassarmi con una raffica di domande, una più imbarazzante dell’altra, suscitando qualche risata nelle commesse poco lontane da noi. «Ok, Jess, lasciamo stare, di questo passo ti verrà anche in mente di chiedermi dei video porno», dissi. «Ah, perché, sarebbe possibile?».
Angela rise e io le lanciai un’occhiata torva, feci per dire qualcosa quando il mio cellulare squillò.
«Pronto?», feci io, allontanandomi un momento.
«Ah, Bella? Sono io»

«Alice».


Cattivo segno, cattivo segno.
Passai mentalmente in rassegna ogni cosa successa negli ultimi giorni, mesi, anni, diavolo, in tutta la mia intera esistenza, cercando di capire e trovare qualche macchiolina, qualche pecca. Qualcosa di andato terribilmente storto. Certo, Alice non aiutava la mia già precaria stabilità psicologica chiamandomi nel bel mezzo del giorno, limitandosi solamente a pronunciare criptiche frasi («Dovresti farmi un favore e venire a casa nostra. C’è qualcosa che devo dirti», ripetevo quelle parole, rivoltandole come un calzino per riuscire a tracciare la più piccola forma di incertezza, di inquietudine, di qualsiasi elemento che mi avrebbe potuto ricondurre a che cosa stesse succedendo e al motivo di una tale richiesta, mentre guidavo a una velocità folle per le strade di Forks, a bordo del mio Chevy). Era successo qualcosa? Qualcosa che coinvolgeva Edward? Charlie? Non riuscivo mai a rilassarmi quando Alice faceva la sua comparsa sul grande palcoscenico della mia vita. «E ci sarà pure un cazzo di motivo», dissi a denti stretti, stringendo il volante fra le mani. Ma al pensiero del rapido sorriso che mi aveva rivolto la mattina dopo la morte di James riuscii a rilassarmi, almeno un po’. Forse non era nulla di grave. E tuttavia non potei esimermi da entrare come una furia nel parcheggio di casa Cullen, sbattere la portiera con più forza di quanta ne avrei dovuto usare e precipitarmi sulla soglia dell’immensa magione. «Bella», Alice comparve in tutta la sua fiorente bellezza, un rivolo di gemme lucenti le cingeva il collo di gesso, dividendo la luce del giorno in mille piccole sfaccettatura color arcobaleno. La sua figura longilinea infilata in un modesto golfino di cashmere blu scuro e una camicetta bianca, jeans. I piedi erano nudi. Di fronte a quell’immagine, mi sarei forse dovuta vergognare per i miei capelli arruffati, per il fiatone e le gote rosse, il mio affanno, eppure c’era qualcosa nei suoi occhi, una certa malinconia che sembrava invidiare profondamente la mia umana condizione.
«È successo qualcosa? Qualcosa di grave, intendo», dissi.
Lei sorrise, «No, nulla di che».
«Ah», rimasi interdetta e lei mi fissò con aria interrogativa.
«Allora sono qui perché..?», mossi la mano in maniera allusiva, sperando che lei potesse chiarire la situazione. «Entra, vuoi?», si spostò leggermente per farmi passare.
«Vuoi qualcosa da bere?».
«No, grazie», il mio tono tradì forse l’impazienza che mi pungolava.
«Edward mi ha detto che andrete.. Bella? Vieni?», fece lei voltandosi verso di me, incoraggiandomi a seguirla al piano superiore, «Dicevo. Edward mi ha detto del ballo. So che non hai ancora trovato un vestito adatto». Tremai al solo pensiero del vestito che Jess voleva farmi comprare: era di una bruttezza angosciante. Mi domandai se non me l’avesse voluto proporre di proposito.
«Mh, diciamo che i miei sono.. Gusti difficili». “Difficili” era una grossa parola da usare nei confronti di quell’oscenità di vestito: qualcosa tipo “da persona normale” o “non raccapriccianti” sarebbe andato meglio. «Sì, lo immagino», sorrise Alice mentre salivamo le scale, lei di fronte a me.
«Non ti sei trovata bene con le tue amiche, quindi».
«Non è questo,.. È che ci sono pochi negozi a Forks. Ma è colpa mia: avrei dovuto pensarci prima, credo».
Lei non rispose e per un momento nessuna disse nulla, almeno finché non ci trovammo sulla soglia di quella che presto capii essere la stanza di Alice. Pareti di una leggera sfumatura di crema davano alla camera un aspetto morbido, rilassato; la finestra ampia le dava respiro; gli scaffali alle pareti, le foto di famiglia, un senso d’amore e delicatezza. Tende di un blu velato si gettavano verso terra come una cascata, incorniciando gli stipiti di legno della finestra, morbidi cuscini ornavano l’accogliente divano posto nel luogo estremo della stanza. Una moltitudine di punti brillanti pendevano sulle nostre teste, una pioggia incantata ferma nel tempo che non sarebbe mai caduta sui nostri volti. Alice si diresse sull’armadio, poggiò le mani diafane sulle maniglie di metallo intarsiato e poi mi rivolse un’occhiata tranquilla. «Puoi sederti», disse indicando il divano. «Mh», borbottai, «però che ci facciamo qui».
Lei strinse le piccole labbra in un’espressione indecifrabile.
«È ancora difficile fidarsi di me, eh», disse.
«No, no», mi affrettai a rispondere.
Lei mi rivolse un’occhiata.
«Ok, sì», ammisi, «ma il lato positivo è che mi fido più di te che di Rosalie, quindi..», provai a ridere, ma lei non disse nulla. «Scusa», parlò dandomi le spalle.
«Non volevamo fare le cose.. Che abbiamo fatto. Fidarsi è difficile».
«Lo capisco». Quella mia risposta la fece voltare.
Non c’era condiscendenza nelle mie parole, adesso la fissavo dritta negli occhi.
«Era così anche con Edward, prima. Non mi piace ammetterlo, ma ho imparato a usare il fucile proprio perché non mi fidavo di lui. E avevo paura. Eppure mi aveva salvato la vita, no? Uno pensa che questo possa bastare a confermare la bontà di una persona. E invece. Ma per voi era diverso. Io non avevo fatto niente per dimostrarvi che ero degna della vostra fiducia. Spero che adesso questo sia cambiato», provai a sorriderle. Lei fece lo stesso, «Sì».
Ci fu un altro silenzio.
«Vorrei provare», disse distogliendo lo sguardo, «a essere amiche».
Quella frase mi stupì profondamente. Era seria? «Per questo ti ho chiesto di venire qui, adesso che gli altri sono a caccia», quel tono così timido, vulnerabile – Dio, era seria!
«Ah, sì», ribattei con fare deciso, improvvisamente attenta a ogni minimo dettaglio.
Alice si avvicinò all’armadio, spalancò le ante, tirò fuori una scatola tonda, di un grigio elegante, con un grande fiocco a stringerne le due estremità.
«È per te», me lo porse con dolcezza.
«Non capisco, non è il mio compleanno». A quelle parole lei esplose in una risata argentina che riempì la stanza, poi disse, «Lo so. Dai, aprilo».
Sciolsi il fiocco madreperlato non senza una cera diffidenza e scoperchiai la scatola. Fasciato in una delicata cara velina color celeste pastello, si nascondeva un frammento di cielo stellato.
«Cos’è?», chiesi, ma più a me stessa che a lei.
«Andiamo, tiralo fuori», sorrise impaziente Alice, mordendosi la nocca dell’indice.
Feci come disse e fra le mie mani si srotolò come una lacrima un abito color del buio tempestato di sfavillanti e minuscoli punti luce. Mi alzai in piedi, esterrefatta, facendo cadere, senza rendermene conto, la scatola poggiata sulle mie ginocchia: il vestito arrivava a toccare perfino la punta delle mie scarpe, e dagli orli ondulati questo risaliva e si apriva come un bocciolo prezioso in un suntuoso scollo a cuore.
«No, ma..», riuscii solo a dire, «Sei seria?».
Alice rise di nuovo mentre io non facevo che ripetere le stesse parole, «Sì, sì, sono seria. È tuo», disse.
«Io non.. Ma quanto è costato? Io non ho nulla per te!».
La mia ingenuità la fece sciogliere in un’espressione di indescrivibile tenerezza.
«Non è necessario, infatti. Il ballo è stasera, e tu non hai nulla. Ho pensato che potesse essere un buon modo per farmi perdonare».
«Io e te dobbiamo litigare più spesso», parlai senza riflettere e lei di nuovo non poté trattenere le risa.
«Ci prepariamo insieme stasera, poi andiamo. Ho già avvisato tuo padre».
Ancora non potevo credere ai miei occhi. Alice mi stava già elencando le mille cose di cui occuparsi: «Una bella doccia», «I capelli», «Il trucco, il trucco!» e io me ne stavo lì, senza parole, senza riuscire nemmeno a capire cosa stesse succedendo.
Di fronte a tanta incredulità, quella si limitò a dire, «Tu hai fatto molto per noi. Molto più di quanto chiunque altro avrebbe mai fatto. E hai salvato Edward».
«E ci hai perdonato», sorrise mesta. «Sto solo cercando di ricambiare».
Quel pomeriggio scoprii in Alice una persona molto diversa da come me l’ero immaginata – parlava molto, era vivace, curiosa, forse addirittura più pettegola di Jess (credevo fosse impossibile), incredibilmente dotata quando si trattava di trucchi e acconciature. Era diversa dalla ragazza che se ne stava ritta nel bel mezzo del mio salotto ombroso con quell’espressione dura e minacciosa dipinta in volto e forse, pensai, anche quello doveva essere un’altra faccia del dolore.
Capii di avere molte più cose in comune con lei di quanto credessi: serie televisive, vestiti, libri, viaggi. La tensione fra noi si sciolse più in fretta del previsto e prima di quanto potessi accorgermene stavamo già ridendo e scherzando, lei con le mani infilate nei miei capelli e io con lo sguardo rivolto in alto, verso di lei.
«Te l’avranno già chiesto, quindi sta bene se lo faccio anche io», disse a un certo punto lei, «non sembri tipo da balli e vestiti da gala. E so che Edward non ti ha mai proposto nulla, proprio per questo motivo. Cosa ti ha fatto cambiare idea?». Inutile provare, la verità mi uscì dalle labbra senza che io nemmeno ci facessi caso. «A vote ho semplicemente l’impressione che Edward non abbia avuto l’occasione di vivere molte cose, per via di quello che è successo e poi della sua condizione. Ne parliamo, molto spesso. A me piace sapere di lui, ma è triste accorgersi del poco che ha realmente vissuto, nonostante abbia più di un secolo. Ho l’impressione, fra l’atro, che vi abbia invidiato per molto tempo. Te e Jasper, e Rosalie e Emmett. Voi sembrate sempre felici. Lo sembravate anche il primo giorno che vi vidi tuti insieme, a mensa. Lui non più di tanto. Era come se si arrovellasse sempre il cervello su qualcosa, convinto di non possedere questa o quell’altra caratteristica. Ma forse era solo un’impressione. Adesso quell’atteggiamento un po’ sofferente si è attenuato, mi piace pensare che dipenda da me, ma lo stesso, io non posso salvarlo. Non posso farlo diventare chi.. Cosa non è. Penso che quindi sia solo giusto che, quando ho la possibilità di calmare o diminuire un po’ della sofferenza che lui prova, di farlo. Tutti pensano che sia un grande sacrificio per me questo ballo, ma alla fine è poca cosa di fronte al modo in cui si sacrifica lui con me ogni giorno, solo per salvaguardare la mia vita e non diventare lui stesso il mio carnefice. Quello che ho fatto io è insignificante, ma l’ha reso felice. Non sarà poi questo dramma sopportare un po’ di fronzoli e festoni di cartapesta, di chiasso.. Si tratta solo di una sera. Lui rimarrà così per il resto dell’eternità». Stupefatta era la parola adeguata: mi ero lasciata andare così liberamente, che fu istantaneo capire, e in egual misura incredibile, che la persona con cui desideravo essere così sincera era proprio Alice.
Mi voltai verso di lei portando le mani alle labbra e lei mi rivolse un sorriso materno.
«Vorrei ancora poter piangere».
La sua risata somigliava di molto a uno strettissimo nodo di singhiozzi.
Forse anche lei aveva scoperto in me qualità che credeva impossibile mi potessero calzare e di fronte alla finestra colorata dal crepuscolo infiammato la conversazione venne ripresa, interrotta a intervalli più o meno regolari da qualche commento sui vestiti che ci eravamo messe, già impazienti per poter far girare svariate decine di teste verso di noi, quella sera. Poco dopo rincasò anche Rosalie, scortata da suo marito, Jasper e ovviamente Edward. Alice fu svelta a tirare nella stanza Rosalie e a intimare ai ragazzi, col suo tono più cupo e minaccioso, di stare ben alla larga dalla stanza.
Ovviamente chiunque avrebbe capito che mi trovavo là, visto che il mio Chevy campeggiava ancora nel vialetto dei Cullen. Edward provò a entrare più volte e si arrese soltanto quando Alice gli sbraitò di andarsene, o mi avrebbe mangiato -- «E addio al ballo!».
«Ma io ho già lo smoking!», sbottò lui dall’altra parte.
«Grazie della considerazione», risposi e lui rise.
Anche Rosalie, superata l’iniziale diffidenza, si cominciò a preparare. Ma lei non era granché eloquente e bendisposta come Alice. Probabilmente ancora non si fidava abbastanza.
Vederli insieme in quell’occasione era molto diverso dall’ultima volta: i visi non erano più duri e tesi, ma lasciati liberi di potersi muovere nelle ampie stanze di sentimenti naturali, così umani, così simili ai miei.
Potevo sentire i ragazzi al piano di sotto ridere e prendersi in giro, me li immaginavo alle prese con le camicie pulite, le giacche inamidate. Ogni tanto la risata gutturale di Emmett ci raggiungeva fino quasi a darci l’impressione di aver lasciato la porta della stanza completamente spalancata.
Pensai che non mi sarebbe dispiaciuto far parte della loro vita e sorridevo mentre tiravo indietro i corti capelli di Alice, scoprendo la bianca nuca e la punta della spina dorsale. Mi offrii di aiutare perfino Rosalie, non senza una certa tensione, ma lei rifiutò. «I capelli li lascio sciolti», disse passandosi quattro dita fra foltissime ciocche di biondi capelli. I suoi occhi attenti mi seguivano con cautela, ogni tanto, quasi volesse capirmi meglio, o capire meglio sua sorella e l’improvvisa disponibilità che dimostrava nei miei confronti.
«Guarda», disse lei stessa a un certo punto, avvicinandomi all’anta del suo altissimo armadio, che solo di poco non toccava il soffitto e porgendomi allo specchio ad essa attaccata, perché potessi rimirarmi.
Avvampai di fronte alla visione di me stessa: quel cielo stellato mi scendeva addosso come un rivolo d’acqua scuro e misterioso, punti di luce mi circondavano, incorniciavano la mia scolatura profonda, mettendo in risalto le clavicole sporgenti sotto la pelle tesa. I capelli erano raccolti in una coda lasciata cadere morbida, e ciocche brune si aprivano come petali di rosa intorno alle mie gote rosee.
Alice non era da meno; il suo corpo snello come un fuso infilato in un vestito color cipria con un ampio scollo sulla schiena e i capelli raccolti in un piccolo chignon basso. Le sorrisi, cercando di dissimulare la vaga agitazione che cominciava un po’ a pervadermi: «Grazie», mimai co movimento delle mie labbra e lei mi ammonì con un lieve gesto della mano.
«Direi che è ora, no?», fece poi, occhieggiando al finissimo polso cinto da un orologio. E poi bussando alla porta del bagno per avvertire Rosalie, «Rose, ci sei?».
«Sì», fece lei, uscendo dal bagno, i tacchi alti di un rosso scarlatto, un vestito nero con uno spacco vertiginoso che lasciava scoperta il fianco della coscia soda.
«Allora?», si avvicinò alla porta sotto lo sguardo sbigottito mio e di Alice, muovendo lentamente le labbra di un rosso pulsante, scandendo ogni lettera.
«Sì, andiamo», le sorrise Alice, che aprì la porta della stanza, cedendo il passo alla sorella, poi a me – ci dirigemmo in un’ordinata fila indiana verso la porta di casa, laddove, immersi in una nuvola di profumo e eccitazione, ci aspettavano Edward, Emmett e Jasper. No, decisamente non ero portata per quel genere di attenzione – tentai allora di concentrarmi esclusivamente su Edward ma fu ancora peggio: infilato nel suo smoking dal taglio perfetto, coi capelli pettinati all’indietro, gli occhi più affilati di un rasoio e quel suo sorriso sghembo. La mia mente viaggiava alla velocità della luce verso il letto di camera mia.
Lanciai un’occhiata a Jasper e a Emmett tendere le mani alle loro rispettive consorti e poi mi votai di nuovo verso di lui. «Ciao», mi disse, le mani infilate in tasca.
«Ciao», lo guardai io, un po’ rossa in viso.
Provò a dire qualcosa, ma non riuscì a far altro che a guardarsi le scarpe, inumidirsi leggermente le labbra con la lingua e passarsi una mano sulla nuca. «Riesco a sentire il tuo pene esploderti nelle mutande», sussurrò con aria drammatica Emmett e tutti scoppiarono a ridere.
«La prossima volta che andiamo a caccia ti uccido, te lo giuro», sibilò duro.
Emmett mi rivolse un sorriso a trentadue denti: «Vacci piano con lui stasera, deve ancora abituarsi».
Risi e lanciai un’occhiata a Edward, cogliendo con piacere il modo in cui i suoi occhi indugiavano sulla mia vita stretta, sulla scollatura ampia. «Farò del mio meglio», dissi.


«Vuoi già morire o pensi di poter sopravvivere?», Alice mi venne vicino, offrendomi un bicchiere stracolmo di punch. «Meh», sorrisi, «pensavo peggio. Forse sopravvivrò», strizzai gli occhi, cercando di individuare Edward fra la folla, notandolo mentre cerva di liberarsi da qualche ragazza troppo invadente.
Pensai che quella sua aria tenebrosa e da duro proprio non gli si addiceva, mentre ripercorrevo mentalmente gli attimi felici e tristi e il modo in cui aveva messo su quel suo adorabile broncio quando si era accorto dei ragazzi che mi guardavano fare la mia entrata in scena con indosso quello splendido abito.
Mi faceva venir voglia di abbracciarlo.
Quando mi venne più vicino, Alice ci lasciò soli.
«Ciao», ripetei io, sorridente.
Lui distolse lo sguardo, si scusò. Alzai le sopracciglia e posatogli una mano sull’avambraccio cercai di incrociare i suoi occhi. «Emmett ha ragione, non sono abituato», provò a sorridere.
«Sei molto bella», poggiò la sua fronte contro la mia, come sempre quando voleva sentirsi meno solo.
«Anche tu», ridacchiai, socchiudendo appena gli occhi.
«No, davvero», disse dopo un breve istante di silenzio, «sei davvero molto, molto, mo-olto bella. Molto. Molto bella. Davvero tanto». Scoppiai a ridere, non riuscendo nemmeno più a trattenermi.
«Non vedo l’ora di piacerti quel tanto che basta per convincere Carlisle ad adottarmi, diventare tua sorella e sposarti», ormai avevo le lacrime agli occhi.
«Madonna mi piscio sotto dalle risate», sbottò lui in tono sarcastico e questo mi fece solo ridere più forte.
Mi avvicinai per schioccargli un bacio sulla guancia, «Sono felice di averti conosciuto».
Lui mi guardò, nei suoi occhi un luccichio lontano.
«Credo che io e te ci divertiremo un sacco», sorrise, chinandosi su di me, posando le sue labbra sulle mie.
«Oh, sì. Credo anche io», dissi.



Nota dell’autrice: oh dio come ho fatto a finire? Ma? Sarà successo davvero? Sembrava l’impresa più impossibile degli ultimi vent’anni (visto anche che a volte aggiornavo eeeeehhhmm.. ah, sì. mai). Adesso che il primo capitolo della saga ha finalmente visto la fine (wow ancora stento a credere ai miei occhi), colgo l’occasione per ringraziare tutti quelli che hanno recensito, seguito o semplicemente letto questa mia rivisitazione (fa sempre piacere). E anche per sapere se volete che revisioni anche i successivi capitoli della saga. Fatemi sapere, mi raccomando!
E grazie ancora a tutti! (ノ◕ヮ◕)ノ*:・゚✧
  
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