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Autore: floflo    16/03/2015    3 recensioni
Ardevo dal desiderio di dimostrare al mondo - e a una persona in particolare - che si erano sbagliati, che non meritavo di bere al calice aspro della delusione e del fallimento.
Ero fermamente convinta che l'avrei spuntata io, anche se non potevo avere quello che desideravo, avrei ottenuto un altro tipo di soddisfazione. Credevo, mi illudevo che questo mi avrebbe risarcito: alla fine avrei stretto tra le mani la mia personale palma della vittoria.
Avrei vinto sì, avrei ottenuto la mia soddisfazione personale, anche se in un modo del tutto inaspettato, ma questo l’avrei scoperto soltanto alla fine.
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Questa storia ha partecipato al contest "Academy Emotions" indetto da Giuns e FairLady sul forum di efp.
Partecipa al contest "Pazzi\e\ie d'amore" indetto da Nirvana_4 sul forum di efp.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La rivale



Come negli incubi peggiori, alla fine, ciò che mi spaventava di più era successo realmente: mi ero assentata per due settimane – due piccolissime e insignificanti settimane per quella stupidissima vacanza in Grecia – ed era accaduto l’irreparabile.
Era successo proprio ciò che avevo paventato prima di partire, nel momento esatto in cui ero quasi sicura di essere riuscita a far capitolare definitivamente Marco ai miei piedi.
La mia lontananza doveva essergli pesata davvero tanto se, una manciata di giorni dopo, sedeva già di fianco a un’altra sorridente e beato, prodigo di occhiate languide e ardenti.
Conoscevo bene quegli sguardi…, una volta erano riservati a me.
Due sole settimane erano bastate a fargli dimenticare tutto, a fargli scordare che prima al suo fianco c’ero stata io: quel posto su quella sedia spettava a me di diritto!
Quella sgualdrina da quattro soldi!
Non la conoscevo nemmeno, era sbucata fuori dal nulla e si era permessa di insidiare ciò che mi apparteneva come se niente fosse…
- Si chiama Valentina. È al primo anno di ingegneria; Marco le sta dando qualche lezione di matematica. -
Qualcuno aveva pronunciato queste parole mentre io li osservavo parlare fitto-fitto seduti uno di fronte all’altra in quella caffetteria.
Capii immediatamente che stavano parlando di tutto, fuorché di matematica.
Valentina … Che razza di nome è “Valentina”? Solamente pronunciarlo mi faceva saltare i nervi… Quel suffisso “ina” la rendeva ancora più detestabile di quanto già non fosse in quella situazione.
Lei civettava spudoratamente, mentre lui sorrideva come un allocco.
Quel giorno non mi era sembrata nemmeno tanto bella – ma neppure tanto brutta –.
Di sicuro, non avevo nulla da invidiarle.
Se solo non fossi partita e fossi rimasta lì, a “marcare” il mio territorio, quell’insignificante matricola non avrebbe osato stargli tanto appiccicata!
Lo sapevano tutti che Marco era mio, cercavo di conquistarlo fin dai tempi delle superiori!
Era stato un corteggiamento lungo e laborioso il mio, durato anni… Amici fin dai tempi delle scuole medie, la nostra amicizia era, da sempre, sul punto di trasformarsi in “qualcosa di più”: sarei stata pronta a scommettere con chiunque che Marco aveva una sorta d’infatuazione per me da tempo immemorabile, un amore segreto che, per timidezza o paura di essere respinto, non confessava mai apertamente.
Lo consideravo il mio porto sicuro, il mio faro nella tempesta, era sempre presente, sempre rassicurante: mi lusingavano le sue costanti gentilezze, le consideravo una sorta di delicate avances, anche se, per gioco un po’ crudele, mi schermivo, a volte divertendomi anche a mortificarlo, a respingerlo, convinta com’ero che per lui sarei rimasta sempre l’unica e la sola e che mi avrebbe aspettato in eterno.
Io lo amavo, ed ero convinta che anche lui mi amasse, non poteva essere altrimenti.
Un giorno non troppo lontano avrei mollato gli ormeggi e lo avrei fatto felice, avrei smesso di giocare a fare la preziosa e gli avrei confessato quanto per me anche lui fosse speciale, allora saremmo stati veramente inseparabili, uniti per sempre.
Ero convinta fossimo due predestinati, nessuno avrebbe potuto divederci.
Al mio piano mancava solamente il tocco finale, il tanto sospirato lieto fine, quando lui e lei si mettono insieme e “vissero per sempre felici e contenti”.
Come aveva osato quella puttanella da strapazzo rovinare tutto da un giorno all’altro?
Non poteva finire così.
Dovevo intervenire: SUBITO.
Mi avvicinai con passo deciso e baldanzoso, palesando la mia presenza, diretta proprio al loro tavolo.
- Ciao Ele, sei tornata! -
Il fedifrago aveva pronunciato quella frase con malcelata sorpresa non appena gli fui davanti.
Avrei rovesciato il tavolino del bar e iniziato a gridare, invece, sfoderai il mio sorriso più gioviale.
- Ciao. Cosa si dice di bello da queste parti? -
- Niente di nuovo. Le solite cose… - farfugliò lui.
Un imbarazzante silenzio calò sopra di noi: era evidente che non si aspettava di incontrarmi proprio in quel frangente.
Ribollivo di rabbia.
Quanto avrebbe aspettato per presentarmi la sua nuova amichetta?
Lanciai un’occhiata di fuoco prima a lei, poi a lui, restando in attesa.
Ero curiosa di conoscere la scusa che avrebbe accampato per giustificare la presenza di quella sconosciuta tra di noi.
- Impartisco qualche lezione di matematica a Valentina: sai, deve sostenere un esame. - incespicò affrettandosi con le spiegazioni, nel disperato tentativo di rompere quel silenzio divenuto ormai assordante.
- Uhm… che genere di esame? -
- Analisi Due. - rispose candidamente, convinto di avere scansato il pericolo, poi, rivolgendosi a quell’intrusa schifosa, mi presentò ufficialmente - Lei è Elena, la migliore del nostro corso. -
- Oh! Allora sei tu la famosa Elena … - trillò sgranando enormi occhi celesti e atteggiandosi come un’oca quella Valentina.
- Beh, adesso, non esageriamo… - mi schermii lanciando, però, un’occhiata pungente a quella sciacquetta.
Ero delusa, amareggiata, ferita nel profondo ma, soprattutto, infuriata.
Dove avevo sbagliato?
Possibile che Marco si fosse dimenticato di me da un giorno all’altro? Possibile fosse stato tanto stupido da non rendersi conto di quanto io fossi speciale, migliore di quella smorfiosa?
Un groppo doloroso mi serrava la gola, le mie viscere erano in subbuglio.
- Veramente accetti lezioni di matematica da lui, Valentina? Hai un bel coraggio… Lo sai che quell’esame è stato costretto a sostenerlo due volte? E alla fine ha dovuto accontentarsi di un misero diciannove. Se sei d’accordo, posso darti una mano io… -.
Mentre pronunciavo quelle parole avevo già deciso la strategia: dovevo assolutamente capire che genere di persona fosse la mia rivale, poi non avrei avuto pietà: l’avrei fatta a pezzi con la più affilata delle asce, avrei infierito su di lei e poi avrei gettato i suoi inutili resti in pasto agli sciacalli.
Marco era un buono a nulla se non capiva la lampante differenza tra me e lei: quella sciocca ragazzetta era talmente insipida...
Dovevo dimostrare a quel voltagabbana che aveva sbagliato tutto: io ero la migliore, io ero unica, l’unica che lui potesse amare.
Non meritavo quel trattamento, non meritavo di bere quel calice aspro di delusione e fallimento.

***

Cominciai a frequentare Valentina assiduamente per attuare il mio piano.
Più la osservavo da vicino e più non capivo, o forse m’illudevo di non capire…
Ciò che il giorno del nostro primo incontro mi era sfuggito, ora si mostrava ai miei occhi in tutto il suo orripilante fulgore.
Lei era bella, bellissima e, come se non bastasse, ne era perfettamente consapevole.
Lunghi e folti capelli color miele, un viso da bambola di porcellana su cui risaltavano grandi occhi bovini ombreggiati da lunghe ciglia scure, labbra piene e rosate, dall’aspetto ancora infantile, che le conferivano un’aria sbarazzina e maliziosa al contempo.
Era alta, flessuosa, vita sottile, fianchi torniti e seni appuntiti…
Non che io fossi brutta, ma lei, evidentemente, aveva qualcosa che attirava i maschi come il miele le api.
Non contenta della sua avvenenza, Valentina non perdeva occasione per mettersi in mostra.
A volte, avevo la netta impressione che recitasse un teatrino di mossette, gridolini e risatine infantili solamente per attirare l’attenzione, farsi ammirare e mettermi in ombra…
E, mentre il mondo là fuori sembrava avere occhi solo per lei, io tentavo di trovarle un difetto, un qualsiasi difetto.
Tutto di lei mi dava i nervi, il modo in cui reggeva la penna tra le dita lunghe e affusolate, il suo bamboleggiare con la testa inclinata mentre leggeva, il suo pigiare i tasti del cellulare mettendo in mostra quelle unghie perennemente fresche di manicure.
Speravo che le spuntasse un bubbone purulento proprio al centro delle guance, anzi, uno a destra e uno a sinistra: desideravo che la lasciassero deturpata per sempre, con un cratere sul viso… Ma la sua pelle rimaneva sempre liscia, bianca e perfetta giorno dopo giorno.
La detestavo con tutta me stessa e, poiché la dea dell’acne rimaneva insensibile alle mie preghiere, immaginavo di deturpare io stessa quel visino di bambola, sfregiarla con qualsiasi cosa mi capitasse sotto mano: una matita, una lima per unghie, un’accetta...
Gioivo quando un colpo improvviso di vento le arruffava i capelli, quando si disegnava, inavvertitamente, con la biro un piccolo baffo vicino al labbro: una sbavatura sublime su quel viso perfetto.
Provavo un perverso appagamento nel maltrattarla durante le nostre lezioni di matematica: godevo quando la facevo sentire una specie di ritardata mentale, una scolaretta alle prime armi davanti al più esigente dei precettori.
Eppure Marco continuava ad adorarla, aveva occhi soltanto per lei, nonostante tutti i miei tentativi di farla apparire ridicola e inetta.
Poi, un giorno accadde la catastrofe finale…
Quella mattina, reggevo in una mano una tazza di cappuccino fumante, quando scorsi i due innamoratini in un angolo della caffetteria della facoltà, circondati da un gruppo di matricole amici di lei.
Flirtavano senza ritegno davanti a tutti, come se a loro non importasse niente di nessuno, di me e della mia presenza.
Mi affrettai a raggiungerli, ma proprio mentre ero in procinto di raggiungere il loro tavolo, captai un brandello di conversazione di uno degli amici di Valentina.
- Hai visto come si baciavano l’altra sera Valentina e Marco?-.
Non riuscii a sentire altro perché, nonostante fossi ancora perfettamente ritta sulle mie gambe, ebbi l’impressione di trovarmi improvvisamente schiacciata a terra, come se il cielo sopra di me fosse diventato di colpo troppo pesante e il pavimento si fosse inspiegabilmente avvicinato troppo al mio viso.
Il rumore di un bacio – vissuto, immaginato o solamente raccontato – non è forte come quello di un cannone, ma la sua eco dura molto più a lungo.
Fino a quel momento mi ero illusa che non fosse mai successo, che non potesse mai succedere…
Non riuscivo a pensare a loro due assieme in una situazione simile, non potevo: era troppo!
Ingollai un sorso di cappuccino bollente, nel tentativo di ricevere qualche conforto.
Mi scottai la lingua.
Il dolore di quella rivelazione devastante e il bruciore insopportabile del liquido bollente, che dalla mia bocca scendeva giù nell’esofago, mi fecero salire le lacrime agli occhi.
Un pensiero feroce e malvagio mi attraversò la mente con la rapidità di un fulmine: e se le rovesciassi addosso il cappuccino? Magari proprio su quei meravigliosi capelli biondi?
Sarebbe stato maledettamente divertente vederla tutta inzaccherata, assistere alla sua reazione scomposta: l’avrei resa ridicola davanti a tutti, soprattutto davanti a Marco.
Le passai a fianco, la mia mano tremava, il cuore sembrava dovesse uscirmi dal petto da un momento all’altro, tanto batteva all’impazzata.
Come avrebbe meritato quello scherzetto… Ma, se avessi attuato il mio piano malefico, le avrei dichiarato guerra apertamente e, probabilmente, avrei perso la stima di Marco per sempre.
La oltrepassai, con la tazza in mano, accennando un tiratissimo finto sorriso di saluto, mentre la sentivo squittire qualche parola.
Dirigendomi verso il tavolino più appartato della caffetteria, dove speravo di curare il mio dolore in solitudine, ebbi la visione di qualcosa che mi lasciò senza fiato: lo zainetto di Valentina giaceva in un angolo abbandonato.
La cerniera era aperta, dentro riuscivo a scorgere chiaramente i suoi libri e i suoi quaderni, ma la cosa che più mi colpì fu il suo telefono cellulare. Quel cellulare con cui lei riceveva le telefonate di Marco, con cui lei mandava in continuazione messaggini a lui, come se io non vedessi, non potessi immaginare, come se a me non importasse niente di loro, come se non esistessi…
Con estrema circospezione mi guardai attorno, sembrava nessuno facesse caso ai miei movimenti, tutti erano intenti a fare qualcos’altro, era come se, all’improvviso, mi fossi ritrovata sola dentro quel locale.
Mi chinai e lasciai scivolare, senza alcuna esitazione l’intero contenuto della mia tazza nella borsa di Valentina, sopra i suoi libri, sopra i suoi appunti, ma soprattutto sopra il suo telefonino.
Sì, l’unico modo per curare il mio dolore era farle del male, e poiché non potevo infierire su di lei fisicamente, avevo ferito il suo cellulare.
Quel gesto mi fece sentire talmente appagata che scordai tutte le mie frustrazioni.
Il giorno successivo, Valentina si presentò in facoltà con una borsa differente.
Ignoravo la sorte del suo telefonino, ma confidavo che per qualche giorno, non avrebbe ricevuto né le chiamate di Marco né i suoi messaggi…

***

Ormai era palese: Marco non mi amava, forse non mi aveva mai nemmeno amato.
Da quando c’era Valentina io, non esistevo più. Io ero solamente una “vecchia amica” e basta.
Non potevo nemmeno prendere in considerazione la possibilità che, forse, ero stata proprio io con il mio atteggiamento sdegnoso a spingere Marco tra le braccia di Valentina.
Era stato tutto inutile, eppure non riuscivo a rassegnarmi, non potevo.
Non avrei dimenticato, il mio cuore esigeva lo stesso un risarcimento per la mia profonda delusione.
Decisi allora che se Marco amava Valentina, tutti gli altri dovevano odiarla almeno quanto la odiavo io.
Avrei perseguito il mio nuovo obiettivo senza guardare in faccia a nessuno, senza avere pietà, i buoni sentimenti non mi appartenevano più, il perdono era lontano anni luce dalla mia mente.
Non potevo sopportare di vederla felice dopo avere usurpato ciò che sarebbe dovuto appartenermi: avrei fatto terra bruciata attorno a lei e si sarebbe ritrovata sola come un cane.
Deturpare la presunta perfezione di lei e soprattutto la felicità di quei due sarebbe divenuto il mio unico scopo.
Sarei riuscita a eliminare quel sorriso ebete dai loro volti: quel sorriso che rivelava il mio fallimento.
La mia frustrazione e il mio disprezzo per quei due erano pari al mio desiderio di ferirli fino a farli sanguinare: uno stupido e una sgualdrina, ecco con chi avevo a che fare!
Lì per lì non mi sembrò un’idea strampalata, del resto “in amore e in guerra ogni cosa è lecita”.
Non perdevo occasione per fare commenti caustici su Marco e Valentina, di renderli ridicoli agli occhi altrui, prenderli in giro.
Nonostante mi fossi guardata dallo sbandierare ai quattro venti tutta la mia sofferenza, rimasi piacevolmente sorpresa quando notai che le mie amiche avevano fatto quadrato attorno a me, come se volessero darmi man forte.
Probabilmente la mia delusione e la mia rabbia erano diventate tangibili e loro dovevano per forza avere intuito qualcosa, perché non mancavano di riferirmi, con dovizia di particolari, qualsiasi gaffe lui o lei commettessero.
E come gongolavano nel raccontarmi, senza lesinare le descrizioni, i – presunti – errori e difetti di quei due...
Era diventato un gioco al massacro.
Ero riuscita a coinvolgerle nel mio piano perverso, ma tutto questo mi procurava una gioia effimera.
Sapere che Valentina, in piscina, aveva mostrato con noncuranza di avere le smagliature, bastava a rallegrarmi solo per pochi istanti.
Marco non si sarebbe sbarazzato di lei per questo.
Io le smagliature non le avevo, eppure lui non mi aveva voluto, aveva preferito lei a me.
In breve tempo, il mio nuovo passatempo cominciò a non divertirmi più.
Cercare di trovare difetti a Valentina era inutile, gioire delle sue mancanze pure.
La gelosia mi stava corrodendo dentro e fuori, mi avvelenava giorno dopo giorno.
Il mio desiderio di rivalsa mi lasciava stremata, mi faceva tremare i polsi ogni volta che vedevo la sua bicicletta nella rastrelliera fuori dalla facoltà, se avessi avuto un coltello, avrei infierito su quei copertoni, li avrei squarciati con tutta la rabbia che tenevo dentro, come se fossero stati il corpo inerme della mia rivale.
Per quanto m’impegnassi nessuno l’avrebbe detestata quanto me: l’odio non ripagava la mia dolorosa delusione e neppure la vendetta.
A cosa era servito rovesciare un cappuccino nella borsa di Valentina? Marco l’aveva amata di meno per questo?
A cosa sarebbe servito tagliare i copertoni della sua bicicletta? Marco l’avrebbe riaccompagnata a casa con l’auto.
Cercavo disperatamente la rivincita su quell’ingiustizia, sul fatto che Marco avesse preferito lei a me.
Ma non sempre è concesso avere una rivincita e non sempre c’è giustizia.
Avevo quasi la percezione di fare più del male a me stessa che a Valentina, era come se nella foga di colpire lei, avessi finito con lo sferrare un colpo doloroso anche a me stessa.

 
***

Erano trascorsi già diversi mesi, quando ebbi una sorta di rivelazione.
Una mattina vidi Valentina attraversare l'atrio della facoltà solitaria, come illuminata da un immaginario faro teatrale, un raggio di sole divino: niente Marco, niente suoi compagni di corso attorno, sembrava di ottimo umore e in gran forma, in una parola radiosa, mentre io mi sentivo come un pugile suonato dopo un inutile e fallimentare incontro sul ring.
Per la prima volta la vidi forse per come realmente era.
Era bella, sicura di sé, felice e, soprattutto, amata.
Improvvisamente con una chiarezza adamantina avevo capito: era inutile opporsi all’ineluttabilità dei fatti, Marco aveva scelto lei.
Valentina aveva vinto.
Io non potevo farci niente.
Per tanto tempo avevo cercato di negare l’evidenza, mi ero opposta con tutta me stessa, avevo cercato di convincere anche gli altri che era tutto sbagliato, da rifare, ingiusto: non volevo credere di avere fallito, non potevo…
Pur di non ammettere la mia sconfitta, avevo riempito la mia vita di recriminazioni e progetti tignosi, di improbabili rimonte.
Avevo cercato di resistere aggrappata alla mia folle e assurda idea di essere l’unica per Marco, la migliore, la sola che potesse amare, e alla fine ero stata travolta dalla mia stessa assurda convinzione.
Stranamente, facendo questi ragionamenti mi sentii liberata, sgravata di un peso enorme: nel momento stesso in cui avevo ceduto all’evidenza, in cui avevo preso coscienza della mia sconfitta, mi ero sentita sollevata.
Alla luce di questa nuova scoperta, fu come vedere Valentina per la prima volta: inaspettatamente provai una sorta di indifferenza nei suoi confronti.
Era bella e probabilmente ignara del dolore che mi aveva inflitto portandomi via Marco.
Di lui, del resto, non mi importava più granché: la delusione per avermi negato il suo amore lo aveva trasformato in un inetto… Lo usavo come scusa, una sorta di pungiball con cui aizzavo il mio risentimento nei confronti di Valentina.
Ero stanca di vivere in quella guerra, una guerra che combattevo solo io, una guerra persa in partenza.
Provai una sorta di pentimento nei confronti di Valentina, per tutti i dispetti che le avevo fatto…
Solamente in quel momento mi rendevo conto di quanto il mio piano di conquista di Marco – e di rivalsa nei confronti di Valentina – fosse strampalato e allo stesso tempo inutile.
La raggiunsi e con una scusa qualsiasi attaccai bottone: per la prima volta non mi sentivo in dovere di sottometterla o di umiliarla e lei, dal canto suo, si era dimostrata cortese e affabile, tanto che, in breve tempo, ci trovammo impegnate in un’amichevole conversazione su argomenti frivoli.
Non avevo mai provato tanta tranquillità nel parlare con lei, era strano, in qualche modo, quasi piacevole.
Ebbi chiaramente l’impressione che anche fosse sorpresa del mio nuovo atteggiamento, sollevata, come se non attendesse altro da molto tempo.
Non dico che, un giorno, saremmo diventate amiche ma, forse, incrociandola in macchina non avrei più avuto l’impulso irrefrenabile di investirla.
Avevo firmato l’armistizio: la guerra era finita.
Ero pronta a voltare pagina.






 
   
 
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