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Autore: Rodelinda    16/12/2008    5 recensioni
Un adolescente alle prese con l'eterno conflitto tra umano e divino.
Seconda classificata al concorso Myth's POV, indetto da Writers Arena.
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Uomini e dei
Uomini e Dei

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« Com’è stato, per te? »
Ganimede mi osserva di sottecchi. È bello, Ganimede. Più di quanto non sarò mai; del resto lui ha ricevuto onori divini, mentre io…
« Come vuoi che sia stato? » risponde. Ogni volta che parla di lui, del signore degli dei, la sua voce ha un tono amaro. « Sono divinità, non si occupano dei sentimenti dei mortali. Mi ha rapito alla mia vita tranquilla, alla mia famiglia, e mi ha praticamente violentato. »
« Hai avuto un guiderdone del tuo amore, però. »
Ganimede ride. Ultimamente le sue guance sono sempre rosse; il suo ruolo di coppiere dell’Olimpo non gli impedisce di godersi altri piaceri più terreni, evidentemente. Ama il vino della Tracia, schietto, ancor più di quanto ami il signore Zeus. Soprattutto da quando questo scende tanto spesso a Tiro, per spiare sotto le sottane della principessa Europa, figlia di re Agenore.
« Amore? » ripete, in tono sarcastico. « Zeus non ama nessuno, a parte se stesso. La verità è che sono stato un folle. »
Mi osservo le falangi, trovandole improvvisamente molto interessanti.
« Credi che lo sia anche io? » domando.
Mi passa una mano tra i capelli.
« No, Ciparisso. Non lo sei: è che… sei umano. » afferma, in tono nostalgico.
« Capisco cosa intendi. »

È vero, lo capisco sul serio. Avessi dovuto sostenere questo dialogo sei mesi fa, probabilmente non ci sarei riuscito, ma l’amore ha fatto anche questo.
Quando Apollo, il dio, mi scelse, scendendo sulla terra travestito, rimasi sconvolto. Ero solo un ragazzino vergine, e l’Olimpo rimaneva quell’universo della mia infanzia misterioso e nascosto tra favole e leggende.
Non avrei mai immaginato di diventare anche io una leggenda, o che essa si sarebbe compenetrata con me fino a questo punto.
Sono bello… o almeno, così dicono. E Apollo adora la bellezza in tutto; la vede nelle siepi ben potate come nelle distese di neve che avvolgono le cime dei monti, la ascolta nel suono dei flauti e negli epitalami nuziali intonati dalle fanciulle. La gusta nel nettare e nell’ambrosia che il mio amico Ganimede mesce per le mense olimpiche, e nell’odorare il fumo che sale dalle are sacrificali.
Mi scelse per questo. Sono io che non ho avuto scelta.
Si può avere scelta quando Eros ti insegue, puntando ostinato le sue frecce verso di te?
Apollo mi ha rincorso, lusingando la mia acerba vanità, coprendomi di doni, di complimenti, dedicandomi se stesso (almeno in apparenza). E io cedetti.
Non potevo dire di no ad un dio; e, del resto, non avevo motivi per rifiutarlo.
Mi aveva abbagliato… nelle sembianze di Helios si era posato su di me, illuminandomi. E io permisi ad Eros di prendere la mira, con tutta calma, e di trafiggermi come fossi stato un cinghiale alla caccia.
Mi prese, mi ebbe ovunque: nelle terre di mio padre, nei prati, nelle mie stanze, sull’Olimpo.
Mi dedicava canti, suonava la lira per me, recitava poesie con la sua voce stupenda e ben modulata, i lunghi boccoli ramati sciolti sulle spalle candide dopo l’amplesso.
Conobbi ogni sorta di libidine, di piacere, di godimento: era come cadere nelle Isole dei Beati e riemergerne subito dopo, stretto dalle sue braccia senza età.
I giorni erano puro miele; ancora oggi lo sono, o almeno le notti, quando lo vedo spuntare all’orizzonte, di ritorno dal giro diurno sul carro del Sole.
Ma quando è fuori, e so che va da altri – dalla ninfa Dafne, oppure da quel ragazzo spartano, Giacinto -, il mio cuore è dilaniato dalla gelosia.
Il mio unico compagno, l’unico che mi possa capire, è Ganimede. Ma lui è diverso: è un dio.
Io sono solo un ragazzino umano, sciocco adolescente diciassettenne, che ha regalato il proprio amore e la propria fedeltà a qualcuno per cui è solo il trastullo di qualche ora notturna, finché non ha trovato qualcosa di più bello cui interessarsi.
La mia esistenza è interamente votata alle notti, al mio regno di lenzuola e di baci roventi, in cui imbastisco per questo dio – egoista e crudele come un uomo, ma di un egoismo e d’una crudeltà tanto perfette da essere possibili solo per una divinità – un banchetto di fragrante gioventù e umanità.
Lo faccio senz’altro interesse che una carezza sul mio capo ricciuto, dopo l’orgasmo, e magari qualche dono o un complimento distratto. Qualsiasi cosa, anche la più piccola, che mi confermi che ci sono solo io nel suo cuore millenario e senza morte.

La voce amara di Ganimede mi distrae ancora da queste mie penose riflessioni.
« Non commettere il mio stesso errore. » dice, mescolando dell’ambrosia in un grande cratere a figure rosse.
« Intendi che… non dovrei amarlo? » domando, scuotendo la testa. « Ormai è troppo tardi. »
Mi osserva con tristezza, ma anche con… invidia, forse?
« No. Intendo… non diventare come lui. Non diventare come me. » replica. « L’immortalità è la cosa più innaturale e assurda del cosmo. Se te la offrisse, rifiutala. »
« Perché? » non riesco a seguirlo. « Potrei stare con lui per l’eternità, per sempre giovane, e bello. E amarlo!, se mi desse la possibilità di diventare un… » pronuncio quella parola con timore reverenziale. « … un dio…per quale ragione dovrei dire di no? »
Ganimede mi prende il viso tra le mani. Nei suoi grandi occhi verdi leggo un rimpianto folle, e un desiderio appena velato.
« Lui ti è fedele? » chiede. Una domanda retorica che racchiude un’affermazione pesante come il mondo. E io capisco dove voglia andare a parare.

Lui non mi è fedele. Non posso più nascondermelo da quando torna da me, la notte, con addosso l’odore di altre braccia, con le labbra che sanno di altri baci. Non posso più nascondermelo perché lui stesso non si preoccupa di farlo.
Non si impensierisce all’idea di ferirmi, e che io possa provare gelosia, per lui è quasi uno spettacolo comico. La mia piccola vita gli si dispiega davanti come una commedia su un palcoscenico, in cui lui inserisce risate e applausi al momento giusto, ma sembra incapace di comprendere che sia una vita. Non una recita, ma una cosa seria.
Sto barattando il mio unico bene – me stesso – per un amore senza futuro. Del resto, posso promettergli che l’amerò per sempre, ma lui sa benissimo che per me il per sempre non può esistere.
All’inizio credevo alle sue parole; mi ripeteva continuamente che mi amava, che mi avrebbe onorato in eterno e che mi si donava tutto, anima e corpo. E io – per Zeus, com’ero ingenuo! – ero certo che fosse tutto vero.
Ora inizio a capire che n’era convinto anche lui: il problema era che utilizzavamo due pesi e due misure per valutare quell’amore. Io usavo il metro umano, lui quello divino.
E – lo comprendo solo ora, specchiandomi negli occhi bellissimi e tristi di Ganimede – essere dei significa godere di tutti i difetti degli uomini, moltiplicati all’eccesso, e di ben poche delle loro doti.
Apollo, il mio signore, corre su una strada che non avrà mai fine. Per una bieca e ironica coincidenza, porta il carro del Sole ogni giorno, e ogni giorno vede un tramonto di cui non apprezzerà mai il riposo.
Cerca il piacere, continuamente ed egoisticamente, in ogni cosa, rifuggendo la noia, cercando di non capire quanto desolato sia il suo destino apparentemente tanto aureo.
Forse è meglio che non comprenda mai a fondo cosa l’attende (o, meglio, cosa non l’attende).

Lui continuerà ad amarmi come un dio.
Io continuerò ad amarlo come un uomo.
E, alla fine dei giochi, anche se lui è immortale, onnipotente e bellissimo, senza vecchiaia e senza età, sarò io a poter dire di avere veramente vissuto; anche se avrò il cuore spezzato… e dovessi morire per questo.
Io avrò vissuto. Come un uomo e meglio di un dio.


   
 
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