Angolo me
Salve, diversamente da come faccio di solito, questa volta commento all'inizio della storia e non alla fine.
Ritengo, infatti, che questa mini-long abbia bisogno di una mia introduzione. Non temete, sarò breve.
Si tratta, come ho già detto, di una storia composta di soli tre capitoli, uno per ogni "alieno". Metto la parole tra virgolette perché lo scopo della FF è di farli apparire il più possibile umani e di far sembrare gli umani alieni, insomma, di cambiare punto di vista.
Oltre ai nostre tre protagonisti troveremo altri personaggi, due a dire il vero, inventati da me che formano un minimo di trama e intreccio a quella che, sotto certo aspetti avrebbe potuto essere una raccolta di one-shot.
Arret è il nome che io ho sempre dato al pianeta alieno.
Spero che la storia sia di vostro gradimento, e che mi farete sapere cosa ne pensate, in bene e in male.
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Ghish – Arret
Il
sacco da box marrone sbiadito oscilla pesante e impotente davanti a
lui. La catena che lo sostiene cigola ad ogni movimento.
In
certi punti il rivestimento si è sgualcito e si intravede
l'interno,
come viscere di un anime sventrato.
Non
è un valido avversario, perché ad ogni colpo
l'unica reazione è
uno spostamento minimo che avrà come conseguenza un ritorno.
Però è
un amico discreto, incassa i colpi assorbendone la forza e la
rabbia.
Continua
a colpirlo senza sosta. Ignorando la stanchezza, il battito
martellante nelle orecchie, i muscoli che bruciano esausti, le ossa
sempre più pesanti.
Fuori,
in superficie, il giorno sta finendo. Il grigio accecante della neve
costante si sta trasformando nel verde ghiaccio della notte.
La
temperatura scende rapidamente, anche quando sembra impossibile e fa
già così freddo che ci si chiede per quale
assurdo miracolo o
condanna nessuno muore di freddo. Anche quando ci si rintana
chilometri e chilometri sottoterra, nel ventre del pianeta, dove
dovrebbe fare caldo. Ma il nucleo è sterile è
roccioso, non ribolle
di lava calda e viva.
Quella
è fantascienza.
Si
ferma un momento. Si guarda intorno. Le tubature che percorrono il
soffitto e che dovrebbero trasportare acqua calda stanno gelando come
ogni sera. Deve essere anche più tardi di quanto credesse.
Il
suo respiro si condensa in nuvole opache davanti al viso, l'aria
dentro i polmoni è pungente, li graffia ad ogni respiro.
Non
deve fermarsi.
Un
pugno.
Sotto
i guanti spessi e imbottiti la pelle delle nocche si spacca.
Un
pugno.
Saltella
sul posto per tenere sveglie le gambe e i piedi. Gli strati di
tessuto termico non bastano mai. Dovrebbe tornare casa prima che
sigillino gli appartamenti per poter risparmiare calore ed
energia.
Ma
non si muove dal piccolo e deserto scantinato invece.
Un
pugno troppo debole. Sfiora appena il sacco.
Oggi
Arret, il pianeta gelido dal cuore di pietra.
Un
pugno ben assestato. L'impatto gli percorre il braccio. La catena
cigola.
Poi
lo spazio, vuoto e vastissimo.
Il
sacco torna indietro.
Domani
la Terra.
Il
pianeta dal pulsante cuore di lava, pronto a riaccoglierli. Un
pianeta il cui stesso nome esprime vita e fertilità.
Un
pugno mancino. Le dita urlano insensibili, il polso trema, la spalla
regge appena.
La
Terra.
Continua
a colpire il sacco con il braccio sinistro, che sa essere
più
debole.
Sì,
se ne andranno di qui.
Questo
pianeta non li ha mai voluti, è morto e deve essere
dimenticato.
I
millenni di stentata sopravvivenza sono finiti.
Il
sacco torna indietro e lo colpisce in pieno. Sussulta.
La
catena sibila in modo agghiacciante. La luce azzurrina appesa sopra
la sua testa sfarfalla. Si spegne.
Riaccenditi.
Riaccenditi.
Un
bagliore grigiastro, meno intenso di prima. Le pareti marce e
impregnate di acqua sembrano ancora più fragili.
Che
crollino.
Qualche
mese ancora e non ci sarà più nessuno qui a
congelare. A morire di
freddo ogni notte, di fame ogni giorno, di stanchezza ogni
momento.
Dei
passi.
Vengono
dall'unico corridoio che porta allo scantinato e si avvicinano.
È
stupefacente quante cose si possano capire solo dai passi.
Sono
brevi e veloci. Leggeri nonostante gli stivali. Una donna. Una
ragazza.
Smette
di colpire il sacco da box e abbassa i pugni.
Fissa
la porta finché non si apre.
Ne
entra una ragazza minuta, praticamente una bambina. Ha i capelli
giallo limone tagliati corti e gli occhi dorati. Gli strati di
imbottitura e tessuto termico non riescono a farla sembrare grossa,
per quanto è magra.
«Sheila!»
esclama «Che ci fai qui?» suona più duro
di quanto vorrebbe, ma è
solo preoccupato.
Il
sorriso della bambina si spegne, ferito.
«Sono
solo... venuta a salutarti.»
spiega «Dicono che te ne vai e forse non ti rivedo
più.»
Ghish
si addolcisce. Sorride e si avvicina. Le accarezza la testa.
«Non
è vero che non mi rivedrai più.» dice
accovacciandosi, in modo da
aver gli occhi alla stessa altezza dei suoi «Starò
via per un po',
ma poi tornerò. E vi porterò tutti via di qui,
andremo a vivere in
un posto migliore, molto più bello. Te lo
prometto.»
La
bambina sembra dubbiosa.
«Forza,»
la sprona «non dovevi scappare di nuovo dall'orfanotrofio,
finirai
nei guai.»
«Ma
dovevo salutarti!» protesta «E poi non è
giusto. Gli orfani sono
quelli che non hanno più nessuno. Io ho te.» gli
prende comunque la
mano e comincia a camminare, tornando sui proprio passi «Tu
sei
stato adottato, dovevo venire con te!»
«Lo
so Sheila, ma solo noi sappiamo che siamo fratelli, e non possiamo
dimostrarlo.»
«Ma
potresti dirlo alla tua nuova madre, hai detto che è buona.
Capirebbe.»
«Victoria
non è mia madre e non sarà nemmeno la
tua.» sono ormai alla fine
del corridoio. Ghish si china di nuovo. «Ascoltami. Sto
partendo e
starò via per un po', non so di preciso quanto. Quando
tornerò ce
ne andremo di qui. Non solo io e te, ma tutti quanti e tutti insieme.
Cominceremo una nuova vita. Tra pochi anni sarò maggiorenne,
con
tutto il tempo che ci vorrà, voleranno. E ti
prenderò io con me. Te
lo prometto.»
Sheila
lo fissa a lungo. Si fida di lui, ma stenta a credere a ciò
che
dice. Forse considera queste promesse come le previsioni sempre
troppo in grande che si fanno ai bambini per farli contenti.
«Non
ti dimenticherai di me, vero?»
«No!
Certo che no.»
Sheila
abbassa lo sguardo. Poi lo abbraccia stretto, anche se un pò
goffamente. Ghish le accarezza di nuovo la testa.
All'improvviso
si chiede se le cose sarebbero andate diversamente senza sua sorella.
Senza qualcuno a cui tenere, qualcuno per cui costruire un mondo
migliore, sarebbe così spronato a lottare e andare avanti?
Avrebbe
accettato una missione del genere, solitaria e impossibile quanto
banale, se non avesse avuto una simile motivazione?
Probabilmente
avrebbe mandato tutti al diavolo e starebbe facendo a pugni con un
sacco da box solo per disperazione invece che con determinazione.
«Mi
stavo chiedendo» fa Sheila riprendendo a camminare e rompendo
il
silenzio gelido «cosa farai se troverai degli
alieni?»
Ghish
la guarda. Sa davvero parecchio sulla sua missione, da dove ha avuto
tutte queste informazioni.
«Avrò
con me una colonia intera di parassiti, creerò dei chimeri e
sistemerò la situazione.»
«Ma
questo solo se vorranno combattere.» obbietta sua sorella
«Cosa
farai se invece saranno pacifici? Infondo è normale se
vorranno
difendersi.»
«Beh,
se saranno davvero così carini, planerò su di
loro gentilmente,
darò loro un cordiale bacio sulla guancia e li
avvertirò
educatamente che sto per mandarli al diavolo.»
Sheila
scoppia a ridere e il suono argenteo risuana tra le pareti fragili
come una melodia rara e misteriosa, quasi straniera.
Ghish
rimane ad ascoltarla rapito.
Quando
Sheila smette di ridere rabbrividisce visibilmente.
«Stai
già morendo di freddo.» la rimprovera.
«Anche
tu.»
«Io
sono a pochi passi da casa mia, è l'orfanotrofio
ad essere lontano, ora ci toccherà una bella strigliata per
il
ritardo. E perché sei scappata.»
«No.»
annuncia invece Sheila sfoderando un sorriso furbo «Ho
imparato a
teletrasportarmi.»
Ghish
la fissa a bocca aperta. Sua sorella è cresciuta
così tanto in
questo poco tempo?
«Però
a loro non l'ho detto, così credono di no.»
sorride vedendo che il
fratello maggiore rimane in silenzio «Ora sono io che
accompagno a
casa te.»
Ghish
non ribatte.
La
casa della sua madre adottiva si trova un livello sopra lo
scantinato, uno dei centinaia sepolti sottoterra, nelle spaccature
del pianeta.
Si
fermano davanti alla porta. Controlla l'orario. Ancora dieci minuti
alla sigillatura degli appartamenti.
«Capolinea.»
commenta, più rivolto a se stesso che alla sorella.
Sheila
gli lascia la mano. Lui vorrebbe riafferrargliela subito, ma
è già
troppo tardi.
«Non
voglio tornare all'orfanotrofio.»
Ghish
sospira. «Devi, non vorrai cacciarci entrambi nei guai,
vero?»
Sheila
scuote la testa.
«Allora
fai la brava e tornaci.»
«Uffa.
Tu non fai mai quello che ti si dice, però vuoi sempre che
gli altri
facciano quello che dici tu, vero?»
«Certo.»
risponde lui senza pensarci due volte.
Sheila
incrocia le braccia al petto. «Ve bene!» sbotta
«Però non è
giusto.»
«No
che non è giusto.» Ghish sbuffa spazientito e si
china di nuovo. Si
costringe a fare dei respiri profondi per calmarsi. Sospira.
«Ti
prometto che tornerò a prenderti.» ripete
«Puoi promettermi una
cosa anche tu?»
Sheila
annuisce diligente.
Ghish
sorride amaramente «Non crescere troppo in fretta,
sorellina.»
Sheila
continua a fissarlo, senza capire. Poi, lentamente, si smaterializza,
in silenzio, e con la grazia un po' goffa dei bambini.
In
pochi secondi è sparita.
Ghish
tiene gli occhi chiusi per qualche istante, poi si rialza in piedi e
entra nell'appartamento giusto qualche minuto prima che le porte si
sigillino.
Tutte
le luci sono spente. Fortunatamente, stanno tutti dormendo.
Aspetta
qualche istante che i propri occhi si adattino al buio, poi cammina
in punta di piedi verso la camera che divide con i suoi fratelli
adottivi.
«Buonanotte
Ghish.» mormora una voce nell'ombra.
Sobbalza
e sbatte rumorosamente contro un tavolino.
Aguzza
le vista finché non individua una figura seduta
elegantemente sul
minuscolo divano addossato alla parete.
Victoria.
La sua madre adottiva.
Lei
ha qualcosa di speciale, ne è sicuro. È come se
non appartenesse
davvero a questo mondo, o almeno a questo periodo. Lei è una
delle
poche persone che qui, per motivi inspiegabili, è felice.
Una
principessa sepolta sottoterra che non ha perso nemmeno un grammo del
proprio fascino.
Il
ciondolo che porta al collo si illumina rischiarando il suo volto
senza età. Potrebbe avere cinquant'anni come venti.
Ha
dei meravigliosi occhi blu e lunghissimi capelli azzurri raccolti in
una treccia. Tiene le gambe elegantemente accavallate e le mani
giunte in grembo.
Gli
sta sorridendo. È contenta di vederlo, non arrabbiata che
abbia
fatto tardi.
«Victoria.»
la saluta.
«Pai
e Tart stanno dormendo, vedi di non svegliarli.»
Ghish
sbuffa. Non ci proverà nemmeno a non svegliarli.
Victoria
sorride, come se stesse rivivendo un bel ricordo.
Ghish
la manda mentalmente al diavolo e apre la porta della
stanza.
«Ghish?»
«Sì?»
«Quando...
quando sarai sulla Terra... non dimenticarti qual'è il tuo
obiettivo.»
«Wow,
che consiglio illuminante.»
«Dico
sul serio. Non sai a cosa stai andando incontro, non lo sa nessuno.
Potresti trovare la morte, così come l'amore.»
«La
morte e l'amore? Non sono un personaggio dei tuoi libri e non ci
tengo ad esserlo. Vado a preparare la nostra nuova casa, non a
spassarmela.»
Victoria
sospira, seria.
Ghish
fa per entrare.
«Ghish?»
«Che
c'è?» sbotta a voce alta.
«Mi
dispiace per tua sorella, ma non avevo le prove che foste fratelli e
non mi hanno permesso di adottare anche lei.»
Rimane
interdetto. Senza parole.
Sposta
lo sguardo oltre la porta semiaperta. Pai e Tart dormono nelle loro
nicchie scavate nel muro.
«Volevo
che sapessi che mi prenderò cura di lei, mentre sei
via.»
Non
può dire sul serio. Non può saperlo.
Con
il cuore in gola, Ghish entra nella camera e chiude la porta.
Trova
la sua nicchia e scosta le coperte.
Esita
un momento. Torna indietro.
Socchiude
la porta e sbircia fuori.
Victoria
è ancora seduta sul diavolo, tiene tra le mani il proprio
ciondolo
luminoso. Ha gli occhi chiusi, ma non dorme.
Muove
le labbra.
Ghish
tende le orecchie.
«Dovrai
guidarli, lo sai, non possono farcela da soli.»