Absence-that
common cure of love
Capitolo
primo: The perfect marriage
«Higher than the beasts, lower than
the angels, stuck in our idiot Eden[1]».
Ford
Madox Ford,
Parade’s End
«Tua
moglie è una stronza».
Proprio
il commento che qualunque marito avrebbe preferito non udire o non
affrontare
alle quattro e un quarto di un venerdì lavorativo
particolarmente intenso, al
termine di una settimana lavorativa ancora più stancante.
«O
scusami, forse il termine “stronza” è
troppo scurrile per le tue beneducate
orecchie. Riformulo: tua moglie è una strega».
Christopher
Price cercò d’ignorare l’ennesima
considerazione poco gentile del suo migliore
amico e continuò a studiare le carte che la sua segretaria
gli aveva appena
consegnato. L’affare di cui si stava occupando era piuttosto
ostico, perfino
per uno come lui che padroneggiava numeri e statistiche con
sorprendente
facilità.
Christopher
era un fuori classe nel suo lavoro e nessuno poteva negarlo.
Teneva
un occhio sia sul mercato azionario, sia su quello reale, gli accordi
da lui
stipulati erano sempre più che vantaggiosi e aveva una
sorprendente abilità a
fiutare le fregature. La sua visione sul commercio aveva più
volte centrato
l’obiettivo con buona pace del consiglio di amministrazione
che aveva ormai imparato
ad accettare le innovazioni apportate da Christopher.
Molti
lo consideravano un uomo di altri tempi: portamento fiero, eleganza
composta,
modo di parlare alto e cortese e un autocontrollo che i più
ritenevano
lodevole.
«Prima
o poi qualcuno lo pungerà con un
ago per vedere se è vivo o morto. Perché
è questo che suggerisce la sua
personalità: un morto che cammina».
Queste
erano le amorevoli parole con cui sua moglie adorava descriverlo. A
seguito
delle sue battute sferzanti, normalmente l’interlocutore
scoppiava a ridere
senza cogliere il vero disprezzo che si celava dietro quei commenti
sarcastici.
Christopher
ormai aveva fatto l’abitudine alla repulsione che lei spesso
mostrava nei suoi
confronti. Nemmeno ci prestava più attenzione.
Perciò
non gli serviva qualcuno che gli ricordasse quanto sua moglie fosse una
persona
dal carattere quantomeno difficile.
Nonostante
la maggior parte dei suoi conoscenti apprezzasse la pungente ironia di
sua
moglie e la additasse come esempio d’intelligenza brillante,
Tachery Sullivan
l’aveva sempre mal sopportata, fin dai tempi del college.
E
quel giorno sembrava proprio che non potesse tenere a freno la lingua.
«Che
cosa ha fatto questa volta?» si arrese alla fine Cristopher,
dato che mostrarsi
disinteressato non aveva prodotto alcun risultato, appoggiando gli
occhiali
sulla scrivania.
«Sono
passato da Phoebe Carlyle[2]
stamattina» iniziò l’uomo.
«Non
è un negozio di intimo?» si stranì
Cristopher.
«Stavo
prendendo un regalo a Sara».
«Non
uscivi con Jane?»
«Non
più, ma ti vedo interessato. Se vuoi possiamo parlare di
lei, invece che di tua
moglie» lo punzecchiò.
«Va’
avanti».
«In
realtà non ha fatto nulla di che» ammise Tachery
stiracchiandosi sulla sedia
«Era lì anche lei, stava comprando non so cosa.
Dovevi vederla: si credeva la
padrona del negozio, mentre quelle povere commesse non sapevano
più come
accontentarla. Dovresti tagliarle i fondi».
«Difficile
dato che questa azienda appartiene alla sua famiglia. I soldi sono
suoi».
«Un’azienda
che tu stai amministrando alla grande da quasi due anni. I loro
guadagni sono
raddoppiati grazie a te. Dovresti prenderti una pausa: questo posto e
quella
donna ti stanno succhiando l’anima. Sembri uno
scheletro».
Cristopher
si accigliò guardandosi sulla superficie a specchio della
scrivania. Aveva
sempre avuto le guance molto scavate, forse per via di quegli zigomi
alti e
marcati che davano al suo volto una forma allungata e un po’
affilata.
Addirittura
uno scheletro, però!
«Vieni
al club con me stasera. Si sono iscritte due russe, figlie di non ho
capito che
magnate…due paia di gambe impressionanti».
«Accetto
la cena, declino le russe».
«Questa
tua costanza è assurda. Perché ti ostini a
rimanere fedele a quell’arpia di tua
moglie?»
«Parola
chiave: mia moglie».
«Il
vostro matrimonio è stato praticamente combinato,
è una farsa. Tu non sei
felice con lei. Che c’è di male a concedersi una
piccola distrazione?»
«Chiamami
antiquato, ma considero il matrimonio ancora una cosa seria, un atto di
responsabilità. Non ho intenzione di rimangiarmi la parola e
i miei principi
per una distrazione».
«Discorso
sensato se fossi innamorato di lei».
«Non
sono neanche innamorato di nessun’altra. Non
romperò la mia promessa se non ne
varrà la pena».
«La
tua signora ha ragione: devi scioglierti un po’. Sei rigido
come uno
stoccafisso».
Apparentemente
insultare Christopher Price era diventato il nuovo sport nazionale.
Victoria
si spazzolò una folta ciocca di capelli scuri e mossi con
fare annoiato,
davanti allo specchio della sua toletta.
Sbuffò
annuendo senza prestare davvero ascolto a ciò che stava
dicendo l’altra persona
nella stanza. Qualcosa riguardo a un nuovo cavallo.
Geoffrey
Connelly sapeva essere davvero noioso, soprattutto quando cercava di
rendersi
interessante. Ma d’altronde era talmente facile giocare con
lui che Victoria lo
ripescava sempre a fasi alterne, come una garanzia.
Jeff
era innamorato di lei da tempi immemori; perché non
approfittarne per
divertirsi un po’? Il cuore spezzato non sarebbe stato di
certo il suo, quindi
non le importava.
Solo
che ogni volta si dimenticava di quanto Jeff fosse logorroico e
pomposo. Giusto
bello poteva definirsi, nessun altro pregio.
Quello
passava il convento, pensò spostando la spazzola
sull’altro lato della testa.
Doveva accontentarsi. Per una signora della sua posizione gli svaghi
erano
limitati e la vita, per quanto potesse sembrare assurdo considerando il
suo
rango e le sue possibilità economiche, non le offriva grandi
sorprese o
emozioni.
Ancora
la straniva chiamarsi “signora”. Aveva solo
ventotto anni e si sentiva ben
lontana dal ruolo che era costretta a ricoprire, ma era sposata e
quell’appellativo era d’obbligo.
Sapeva
di essere sprecata per quella casa, per quella situazione e per quel
marito.
Anche per quell’amante.
Sfiorò
con un dito una guancia leggermente definita dal trucco. Non era di una
bellezza convenzionale, eppure Victoria si piaceva da impazzire.
All’università
qualche compagna invidiosa le aveva fatto notare che tutto sul suo
volto era un
po’ troppo grosso. Era vero: le sue labbra carnose
catalizzavano lo sguardo e
si aprivano rivelando un sorriso eccessivo. I suoi occhi erano grandi e
le
sopracciglia folte, dal taglio deciso.
Non
era mai stato motivo di complessi per lei. Era distante
dall’ideale di
perfezione, ma ogni suo difettuccio la faceva sentire unica e fiera.
Inoltre
riteneva di possedere un’arguzia fuori dal comune e uno
spirito semplicemente
irresistibile. Riusciva a stregare chiunque con il suo portamento da
ragazza
cresciuta nell’alta società e con la sua
capacità di stare al gioco e
rispondere a tono.
Ma
alle volte era anche scontrosa, vendicativa e scostante. Aveva un
limite di
sopportazione davvero molto basso e non si sforzava più di
tanto di
mascherarlo.
Quel
giorno la sua pazienza si era esaurita prima del previsto.
Mentre
Jeff blaterava ancora del suo cavallo e progettava già gite
con lei nella
campagna inglese, Victoria si alzò e con uno scatto
avvicinò i lembi della sua
vestaglia per nascondere l’intimo che aveva comprato quel
giorno per
l’occasione.
«Jeff
tesoro, temo che mi sia appena venuto un tremendo attacco di mal di
testa» gli
comunicò, falsamente afflitta.
L’uomo
smise di gesticolare e abbassò le mani. Rimase come un
allocco presso il letto,
in canottiera e mutandoni. Se non avesse mandato in fumo tutta la sua
scenetta,
Victoria avrebbe scattato una foto per ricordo.
«Un’altra
delle tue emicranie? Faresti meglio a vedere uno specialista.
Cominciano a
diventare frequenti» si preoccupò sinceramente e ingenuamente.
Gli
aveva rifilato quella scusa molte volte, forse troppe. Tante che si era
sorpresa di non averlo ancora fatto scappare.
Dicevano
che l’amore fosse cieco. Ottuso di
sicuro,
constatò Victoria, e
deliziosamente
credulone.
Avrebbe
potuto raccontargli qualunque cosa, combinargliene di ogni e Jeff
sarebbe lo
stesso tornato come un bravo cucciolo.
«Potrei
chiedere a mio cognato di consigliarmi qualcuno»
proseguì lui.
«Non
disturbare tuo cognato per una sciocchezza, è sempre
impegnato tra convegni e
turni all’ospedale. Mi bastano le mie pastiglie e in
un’oretta è tutto risolto»
gettò un’occhiata in giro in cerca di qualche
scatola di medicine da spacciare
per antidolorifici. Non ne trovò e si voltò di
nuovo verso Jeff, mostrandogli
un sorriso rassicurante.
L’uomo
sospirò affranto e trafficò con i pantaloni,
infilando prima una gamba e poi
l’altra. Sospettava che Victoria gli stesse mentendo, ma era
talmente abituato
ai suoi cambi di umore che ormai non ci faceva più caso.
Quella
donna era una forza della natura e lui non aveva nessuna intenzione di
ingabbiarla. L’accettava per quel che era e prima o poi
sarebbe stata sua.
«Posso
dire a Eloise di prepararti qualcosa» le propose.
Victoria
alzò un sopracciglio. Adesso si metteva anche a dare ordini
alla cameriera?
«Pastiglie
e riposo» tagliò corto, dato che cominciava
davvero a stufarsi.
«Ti
tengo compagnia finché non ti senti meglio».
La
donna imprecò a bassa voce e tentò di non perdere
la calma. Sentiva che ci
avrebbe messo una vita a scrollarselo di dosso.
A
soccorrerla ci pensò il più inaspettato degli
aiuti e Victoria non fu mai così
felice di udire quella voce profonda provenire dall’ingresso
di casa.
«Vicky,
quello è…?»
«Christopher»
confermò con un ghigno trionfante che Jeff non
poté vedere dato che gli dava le spalle.
«Tuo
marito?» quasi strozzò nel dirlo «Mio
Dio, mi devo
nascondere».
Victoria
non si preoccupò di avvisarlo che probabilmente
Christopher non si sarebbe scomposto trovandolo lì e che
soprattutto a lei non
importava di essere colta in flagrante. La situazione era davvero
troppo comica
per essere interrotta sul più bello.
Gli
consigliò di infilarsi in bagno o nella cabina armadio,
ma Jeff obiettò che l’avrebbe scovato in un
secondo. Era troppo scontato.
Per
un istante Victoria valutò la possibilità di non
muovere
un dito e lasciare che Christopher s’imbattesse in Geoffrey.
Non le sarebbe
dispiaciuto, comunque.
Poi
un’idea le balenò in mente. Aveva tra le mani una
via di
fuga molto divertente, perché non approfittarne e farsi due
risate a scapito
dei due uomini, uno in particolare?
«Potresti
sempre uscire sul balcone» disse con estrema calma.
«La
tua camera non ha un balcone» replicò Jeff.
«Intendevo
quello dell’appartamento di sotto. È
sfitto» specificò lei, sporgendosi dalla
finestra e puntando il dito verso il basso.
Jeff
la raggiunse e guardò giù «Sei
impazzita?»
«Non
saranno nemmeno tre metri».
«Tre
metri» ripeté lui ironico.
«Non
praticavi il salto con l’asta al college?»
«È
un po’ diverso il
concetto».
«Basta
che ti attacchi qui e ti cali lentamente. Ti
aiuterò io» lo rassicurò.
«Come
pensi di venirmi a recuperare?»
«Il
portiere ha un debole per me. Mi darà le chiavi».
«Vicky,
non credo che sia una buo-» provò a ribattere
lui.
«Allora
resta qui e discutine con Cristopher» concluse
Victoria, sbattendo le ciglia con fare maligno.
Jeff
deglutì «Mi terrai tu?» chiese in
conferma.
«Certo».
Con
qualche difficoltà Jeff scavalcò la finestra e
con
oculata prudenza
poggiò i piedi sul cornicione.
Il suo corpo era girato verso la causa di tutti quei guai che lo
fissava con
un’espressione poco incoraggiante. Se la conosceva bene, se
la stava godendo
come non mai.
Artigliò
il davanzale e si lasciò scivolare lungo il muro del
palazzo. Victoria lo
teneva per i polsi.
«Non
mi mollare, non mi mollare» la pregò quasi
piagnucolando.
«Non
ti mollo» ribadì lei, ma non appena suo marito
bussò alla sua porta
chiamandola, lasciò la presa e piroettò su se
stessa.
Sentì
un tonfo seguito da una sonora imprecazione, segno che Jeff era
atterrato sano
e salvo sul balcone del piano inferiore.
«Chrissie!»
esclamò entusiasta in direzione suo marito che nel frattempo
era entrato «Non
ti aspettavo a casa così presto».
Christopher
parve stordito da quella accoglienza tanto calorosa. Di solito non lo
salutava
neppure.
«Mi
fermo solo per cambiarmi. Tachery mi ha invitato a cena al club. Non ti
dispiace, vero?» le comunicò.
«Assolutamente
no» rispose Victoria accondiscendente.
Christopher
era sul punto di aggiungere qualcosa, ma il sguardo corse per la stanza
e si
fermò proprio sulla giacca di Jeff, rimasta appoggiata allo
schienale della
poltrona.
Victoria
se ne accorse e non si diede neanche la pena di inventarsi una
giustificazione
decente. Anzi, con un movimento veloce slegò il nodo alla
cinta della vestaglia
e mise in bella mostra l’intimo tutt’altro che
sobrio, in modo che la
circostanza fosse inequivocabile.
«C’era
qualcuno qui?» domandò Christopher.
«Jeff
Connelly. È passato per un saluto» disse. I suoi
occhi puntati in quelli
azzurri del marito lo provocavano.
E
come tante altre volte, l’uomo a malapena notò il
corpo praticamente nudo della
donna e liquidò la faccenda con indifferenza e nonchalance.
«Tornerò
tardi. Dormirò in camera mia così non ti
disturberò».
Come
tutte le notti.
Aggiunse mentalmente Victoria.
«Ti
auguro una buona serata» le disse gentilmente con un cenno
del capo.
«Anche
a te! E salutami Sully!» sventolò la mano
finché la porta non venne chiusa; al
che lasciò cadere mollemente il braccio e si tolse del tutto
la vestaglia.
Un
pomeriggio rovinato da due uomini senza un briciolo di ardore. Stava
iniziando
sul serio a dolerle la testa.
Si
diresse nel suo bagno privato e si spogliò degli ultimi
indumenti. Aprì l’acqua
della vasca e non appena sfiorò il bordo, Victoria
s’immerse.
Chiuse
gli occhi nel disperato tentativo di rilassarsi. Il calore
dell’acqua, il
vapore e la stanchezza la cullarono dolcemente finché non si
addormentò.
Fu
solo parecchio più tardi, quando Eloise la
svegliò per la cena, che Victoria si
ricordò di Geoffrey Connelly ancora chiuso fuori, sul
balcone.
E
scoppiò a ridere.
Il
mio spazio:
Sono
praticamente nuova in questa sezione. Anni fa pubblicai qualche storia
tra le
originali – una ancora sopravvive incompleta sul mio profilo
– ma alla fine le
cancellai per mancanza d’ispirazione.
Ho
aspettato tanto prima di cominciare di nuovo a postare tra le originali
romantiche, ma credo finalmente di aver trovato la chiave giusta per
scrivere.
Non
so se l’argomento possa interessare, non so se il mio stile
possa piacere, ma
se siete arrivate fin qui vi ringrazio tantissimo.
Questa
storia s’ispira al libro Parade’s
End
di Ford Maddox Ford, o meglio all’omonima serie televisiva
prodotta dalla BBC
nel 2012. Qualunque scena, battuta o passaggio tratto dallo show
verrà
segnalato nelle note.
Le
somiglianze più evidenti le troverete nei primi tre capitoli
poi la storia
prenderà una piega decisamente diversa.
Tra
i primi prestiti da evidenziare c’è il nome del
protagonista Christopher e il
suo soprannome Chrissie. Mi piacevano molto e non ho voluto cambiarli.
Il
titolo Abscence- that common cure of
love è un aforisma di Lord Byron. Questa
informazione in realtà l’ho
trovata su internet e non ho avuto modo di verificarla con
più precisione,
quindi prendetela con le pinze.
Mi
auguro davvero che possiate apprezzare (o criticare) questa storia.
Per
ora vi ringrazio,
Sissi
Bennett