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Autore: Pwhore    27/03/2015    1 recensioni
Varcò la soglia senza dare o ricevere saluti, lo sguardo perso sul marciapiede screpolato da passanti poco interessanti e guidatori mai multati abbastanza, e scivolò nel vicolo adiacente, lasciandosi abbracciare dal freddo pungente e dall'eco incostante del club. S'infilò una sigaretta in bocca e sistemò le mani a coppa, combattendo contro il vento per il futuro della sua fiamma; arricciò le sopracciglia e non si accorse della figura al suo fianco, troppo assorto nella sua battaglia per un po' di nicotina.
«Ehi, credi me ne lasceresti passare una?».
Gerard alzò lo sguardo su un paio di occhi vivi quasi quanto il soffio che gli aveva appena sfiorato le orecchie, incastonati in un viso dai lineamenti dolci, di una delicatezza decisa e sorridente.
«So che non ci conosciamo ma posso ricambiare con una birra se vuoi».
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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we'd make a lovely mess

Gerard schiuse le palpebre, abituate alla penombra assonnata della sua camera, posò lentamente gli occhi sul soffitto bianco e espirò attraverso le narici, lasciando colare i minuti con qualcosa che non era né placidità né noncuranza o disattenzione. Interruppe il suo stato d'inerzia afferrando una maglietta nera dal cesto dei vestiti puliti che qualche giorno prima era quasi sicuro di aver piegato e si diresse verso il bagno, un cinque-sei passi dal cumulo di piumoni in cui si era rannicchiato.
Quando aveva deciso di volere una stanza tutta per sé ormai tutta la casa era stata arredata e non c'era stato molto da fare, quindi si era fatto bastare il seminterrato in cui idealmente suo padre e sua madre avrebbero giocato a carte ogni venerdì sera, accompagnati dalle chiacchiere controllate dei loro amici. Sua madre aveva un po' storto la bocca all'inizio, pensando ai muri meno isolanti e alle decine di cianfrusaglie che avrebbero dovuto spostare in soffitta, ma non si era mai opposta al volere del figlio e si era anzi detta sollevata dal fatto che almeno ora aveva uno spazio vitale ben stabilito, invece di espandersi e occupare quello degli altri. E Mikey– Mikey aveva sporto il labbro e arricciato le sopracciglia ma non aveva ottenuto risposta, e alla fine aveva dovuto ammettere che non poteva obbligare il fratello a vivere nel suo mondo per sempre.
Gerard s'infilò la maglietta al buio, spostandosi i capelli dagli occhi con un movimento lascivo del polso, raccattò un paio di jeans dal pavimento e si dimenticò di allacciarne il bottone. Uscì dal bagno senza premere l'interruttore della luce, privo d'interesse verso ciò che lo circondava; afferrò il telefono e le cuffie e li infilò nella tasca posteriore, scandagliando la stanza con gli occhi, alla ricerca del suo zaino. Abbandonato ai piedi delle scale, lo raccolse distrattamente e raggiunse il piano terra. 
Il rumore delle stoviglie guidò i sui piedi verso la cucina, dove riempì un termos di caffè nero, indossando una felpa e fermandosi davanti alla porta di casa. Aprì lo zaino e ci fece scivolare dentro il termos, girandosi per chiamare il fratello prima di varcare la soglia.
«Aspetta, ci sono!» arrivò dalla cucina, prima che la corsa impacciata di Mikey lo portasse a un passo da lui. «L'autobus è già qui?» domandò, un baffo di latte a coprirgli il labbro superiore.
Gerard scosse la testa, pulendogli la scia col pollice e sistemandogli la giacca. Mikey tacque, seguendo con lo sguardo il movimento sicuro delle dita dell'altro. Gerard si staccò e lo guardò nel complesso, e Mikey si chiese se lo stesse vedendo davvero. Il suono di un clacson rimbombò alla fine della via e il ragazzo sobbalzò, spostando il fratello di lato e correndo attraverso il giardino. «Ciao Gee, buona giornata!» squittì, salendo sul pulmino e raggiungendo i suoi amici.
Gerard lo guardò scomparire, aspettò che il silenzio tornasse a soffocare il vicinato e si chiuse la porta alle spalle, fermandosi davanti alla cassetta delle lettere. Esitò e poi l'aprì, tirandone fuori uno spesso involucro ocra, che si rigirò fra le mani, in silenzio. Chiuse la cassetta e infilò l'involucro nello zaino, senza mettere a fuoco. Si mise le cuffie e cominciò a camminare.
Non era la prima vola che avevano rifiutato una delle sue storie. Provava e riprovava ma finora non gli era andata bene neanche una volta, e il peso dei pacchetti rispediti al mittente non faceva che schiacciarlo, facendolo crollare sotto l'attacco delle sue insicurezze. Respirò a fondo. Disegnare era la sua unica via d'uscita, ma troppo spesso si trasformava in un dedalo senza soluzione e lui non sapeva come reinventarsi, per ottenere un paio d'ali e volare via. Del tutto, magari.
Abbassò lo sguardo. Odiava pensarlo quando in tanti se la passavano peggio di lui ma aveva superato da tempo la linea tra vita e morte; erano mesi, anni forse, che cercava di resistere e tamponare fontane di rosso sui suoi fianchi, ma alla fine si ritrovava rannicchiato sul pavimento ogni notte, a soffocare singhiozzi e sperare che qualcuno lo portasse via, il battito che lo assordava e il vuoto dentro di lui che si scagliava contro la sua cassa toracica. Cercava di stordirsi bevendo, tagliandosi, iniettandosi quanto più potesse; e l'avrebbe fatto fino a morire se non ci fosse stato Mikey.
Tirò su col naso. Mikey non sarebbe mai sopravvissuto al suo funerale – sempre che ce ne fosse stato uno, sempre che qualcuno oltre a lui lo amasse abbastanza da dare una pacca sulla spalla a suo padre e annuire mogiamente senza incrociare gli occhi vuoti di sua madre. Mikey l'avrebbe seguito, e per questo cercava di evitare il suo pusher quando tutto si faceva annebbiato e l'unica cosa a cui riusciva a pensare era il turbine d'insulti che non poteva smettere di urlarsi contro.
Si portò la mano alla tempia e vacillò, stordito. Dire no alle droghe era già abbastanza difficile, affrontare le conseguenze dell'astinenza da solo, sebbene lo facesse da settimane, poi, era pura tortura. Si appoggiò con le spalle a un muro di mattoni e permise alle ginocchia di cedergli, abbracciandole e affondandovi la fronte una volta a terra. Un altro attacco di nausea gli fece lanciare la testa all'indietro, la gola scoperta tremante e bianca come la neve. Riacquistò il respiro, si spinse su due piedi e riprese a camminare.
Già, Mikey... ma cosa sapeva Mikey? Fino a che punto era in grado di guardarlo negli occhi e sapere che stava cadendo a pezzi? Si era reso conto che ormai non era più lui o pensava che l'entità che gli divorava le pupille fosse solo un'altra sua sfaccettatura?
Scosse la testa. No, Mikey non poteva sapere; non l'avrebbe lasciato da solo ad avvelenarsi e fare esperimenti con il suo corpo per tutto questo tempo; avrebbe provato a scuoterlo, trascinarlo, avrebbe pagato oro per la sua anima infangata in ogni momento; figuriamoci se l'avrebbe mai lasciato lì in balia della marea.
Affondò il mento nella felpa e proseguì a testa bassa. Passo dopo passo il liceo si stagliava davanti a lui, sempre più imponente e grigio man mano che si avvicinava, incurante delle sfumature della sua vita. Gerard s'immaginava sentinelle, alleanze, trattati e tradimenti, tunnel segreti e campi di battaglia mai benedetti; e forse era il mondo fantastico che si tirava dietro e incollava su tutte le pareti che gl'impediva di impazzire del tutto. Alzò a malapena lo sguardo e le porte lo inghiottirono.

«Ammetto che dopo i temi rigeneranti del trascendentalismo, il naturalismo possa sembrare un colpo al cuore» cominciò la professoressa d'inglese, la signorina Phear, «ma vi assicuro che per quanto scettici siate, vi appassionerete allo stesso livello. L'esponente principale di questa corrente…». Gerard scribacchiò distrattamente, reggendo si la guancia con il palmo della mano, poi abbassò lo sguardo. Un altro supereroe. Ricoprì il disegno di striature nere, a disagio, e si morse il labbro, la delusione che tornava a decomporglisi in bocca. Ma perché tra tutti i mondi possibili non poteva essere qualcuno di vincente almeno in uno?
«Gli appartenenti a questa corrente artistica possono anche essere indicati come pessimisti, o fatalisti». Gerard alzò lo sguardo, sentendosi bruciare addosso gli occhi e il giudizio del resto della classe.
«Essi credevano nella totale mancanza di controllo dell'uomo sul suo destino e sulla sua vita, dettati dal fato, a sua volta identificato con la natura». Gerard inclinò distrattamente il collo, indifferente. Ricordò di aver letto da qualche parte che quello era anche uno dei punti dello stoicismo, anche se non sarebbe stato in grado di aggiungere nient'altro.
«Uno dei più famosi sostenitori di questa concezione è il quasi-contemporaneo Ernest Hemingway, nato a Oak Park, Illinois, il 21 luglio 1899. Scrittore dotato e pieno di serietà, vive in prima persona la prima e seconda guerra mondiale e la guerra civile spagnola e sopravvive a due incidenti aerei consecutivi». Gerard osservò la professoressa. Pover'uomo.
«Uomo travagliato e d'incredibile profondità, si sposa numerose volte, sebbene le conseguenze della guerra riemergano sempre a torturare tutti i suoi matrimoni. Dopo una vita di vittorie letterarie, riconoscimenti e gare di caccia in Africa, acquista una villa a Ketchum, Idaho, dove, freddo e calcolato, si toglie la vita». Gerard spostò lo sguardo sui suoi compagni, improvvisamente intrigati, e si chiese se condividessero ciò che lui e lo scrittore provavano, o se la loro fosse solo sete di catastrofi.
«Quando si pensa a Hemingway, vengono sempre in mente i suoi capolavori letterari e i suoi versi più famosi, ma c'è un altro lato, drasticamente dominante nel suo arco di vita, che spesso viene dimenticato o deliberatamente tralasciato. Fiero esponente e sostenitore devoto, Hemingway è un fatalista, convinto dell'irrevocabile e immodificabile piccolezza e fragilità dell'uomo, che diventa una nave fuori controllo nell'oceano in tempesta che è il fato. Alcolista pesante da anni, la visione pessimista di Hemingway non fa che peggiorare, incrementata dall'avvento di una grave malattia che ha colpita prima suo padre, suo fratello e sua sorella, suicidatesi anch'essi. Convinto che l'unico controllo dell'uomo sulla sua vita sia il modo in cui egli muore, lo scrittore inserisce due pallottole nei tamburo della sua arma preferita, s'infila la canna in bocca e preme il grilletto, considerandosi finalmente responsabile del l'unica vera scelta della sua vita».
L'insegnante tamburellò delicatamente con le dita sul suo avambraccio, osservando distrattamente la ventina di alunni attorno a lei, avvolto in un silenzio di tomba ma che sapeva non era dettato da vero interesse. Non sbuffò ma serrò le labbra, scuotendo impercettibilmente la testa, e si sentì dispiaciuta per tutti gli scrittori e artisti degnati di uno sguardo solo quando entrava in gioco il loro decesso. Fece scorrere gli occhi sui suoi ragazzi, cercando d'irrompere nelle loro menti o almeno oltre le barricate della loro indifferenza, e sospirò fra sé e sé, abbassando piano lo sguardo.
Gerard percepì la sua delusione e si sentì in colpa, un altro ascoltatore casuale per un oratore che non aveva altra scelta che sperare. Fu tentato dall'alzare la mano e chiederle qualcosa, qualsiasi cosa, ma un giocatore della squadra di basket lo batté sul tempo, privo dell'ansia che invece incatenava la lingua dell'altro al suo palato ogni volta che voleva emetter suono.
«Quindi l'insegnamento naturalista è che dobbiamo rassegnarci a ciò che ci capita perché tanto non potremo cambiare mai niente?» domandò il mucchio di muscoli e riccioli. «Ci credo che era depresso, sta roba ti ci trascina a tagliarti le vene» scherzò, mimando il gesto con le dita. Parte della classe rise e Gerard si sentì inghiottire dal pavimento circostante, il cuore che gli batteva all'impazzata mentre si sforzava di non guardarsi attorno e vedere chi lo fissava.
«Questa è solo una chiave interpretativa Artavious, non bisogna per forza essere così estremisti per appartenere a questo movimento» ribatté gentilmente la professoressa «anzi, la maggior parte di questi scrittori era consapevole della fragilità della vita e della piccolezza dell'uomo di fronte alla forza impressionante della natura ma viveva comunque fino in fondo la sua esistenza, lavorando, componendo, pregando e faticando per i buoni valori in cui credeva». 
Camminò e si fermò davanti alla lavagna, stringendosi le mani per invocare fiducia e sicurezza, e riprese: «ragazzi, non dimenticate che Hemingway sarà pur stato un genio, ma non aveva tutte le risposte e in questo caso si sbagliava: la vita è influenzata da e riflette tutte le nostre scelte e opinioni, e per quanto nessuno di noi chieda di venire al mondo una volta qui abbiamo tutti il diritto di seguire quello in cui crediamo e applicare il ragionamento che riteniamo più lecito. Tenete sempre a mente che avete più del vostro presente nelle vostre mani, e che per quanto negative le cose possano essere non devono per forza rimanerlo».

Una ragazza a qualche banco di distanza arrossì vivacemente e annuì, congiungendo le mani per sottolineare la sua approvazione. Gerard continuò a cercare di grattar via uno scarabocchio dalla superficie scheggiata cui era appoggiato, trovando la prontezza di spirito per guardarsi attorno solo mentre la campanella suonava. S'infilò lo zaino sulle spalle e scivolò fuori dalla classe prima che il flusso di studenti diminuisse e fosse costretto a rischiare un confronto con Miss Phear.

Cinse le dita attorno a un boccale di birra, sovrappensiero, e si passò l'indice sul labbro, aspettando un paio di secondi prima di abbassarlo assieme allo sguardo, lasciandosi sfuggire un sospiro. La carta d'identità falsa gli permetteva di non venir buttato fuori dal bar ma non di non volersi buttar fuori dalla sua pelle, e alla fine del giro era quello che avrebbe voluto davvero. O essere felice, ma quello sembrava ancora più impossibile.
Disegnò il contorno del boccale con la punta dell'indice e sospirò piano, osservando il suo riflesso distorto dall'alcol. Non condivideva l'opinione di Hemingway ma cristo, lui sì che aveva una ragione valida per essere depresso, non come lui che nonostante tutto aveva avuto un'infanzia anche abbastanza decente.
Si morse il labbro. Più cercava di non pensarci più si sentiva invalido, come se non fosse nient'altro che un bambino viziato distrutto per una caramella all'arancia piuttosto che alla fragola, ma più ci si concentrava più sentiva tutto sfuggirgli dalle dita. Era cosciente che la sofferenza era sofferenza, l'insensibilità era insensibilità e la depressione era depressione indipendentemente da ciò che li aveva provocati, ma saperlo a parole non era come saperlo emotivamente, e emotivamente non era neanche sicuro di non essere già marcito del tutto.
Si strinse la punta del naso tra l'indice e il pollice, strizzando gli occhi per bloccare il frastuono esterno, e cercò di smettere di tremare; non aveva motivo per sentirsi così cristoddio. Riaprì gli occhi e si trascinò in bagno, guardando a malapena il pavimento, giusto quanto bastava a non sbattere contro un altro cliente. Osservò il suo riflesso nello secchio e storse la bocca, insoddisfatto e amareggiato.
Una fitta allo stomaco gli tolse il respiro e si piegò in avanti, aprendo una delle cabine con una spinta frenetica. Schiuse le labbra e sputò, rimanendo piegato per quelle che gli sembrarono ore, il cuore che batteva a perdifiato e i polmoni spappolati tra le costole. Si accovacciò accanto al water finché le vertigini non se ne andarono e si costrinse ad alzarsi, barcollando fino al lavandino per spruzzarsi un po' d'acqua in faccia. Si asciugò il viso con la maglietta e osservò in silenzio i segni rossi attorno all'ombelico, pulsanti ma in via di guarigione. Fece una smorfia e tornò di là.
Il locale era in penombra e l'aria piena fino a fargli girare la testa, le pareti allo stesso tempo colme di cianfrusaglie e completamente asettiche. Avvinghiato al muro si trascinò più all'interno, domandandosi se la foschia attorno a lui ci fosse davvero o fosse un altro trucco della sua mente per spaventarlo e piegarlo. Come se ce ne fosse bisogno.
Strinse le labbra e lottò contro un nodo alla gola, lasciandosi cadere su uno sgabello di fronte al bancone e appoggiandovi contro la schiena, esalando. Si portò una mano davanti agli occhi e la osservò senza riuscire a metterla a fuoco, sconcertato dalla sfumatura cadaverica e segretamente deluso dal suo spessore; chiuse le palpebre per guadagnare un po' di autocontrollo e la abbassò, cingendosela con l'altra e lasciandola riposare sul grembo. La stanza sembrò farsi più opaca e la stanchezza del locale gli si accasciò sul petto e dietro la fronte, impedendogli di udire la voce calma e controllata alle sue spalle.
Il barista lo sfiorò e Gerard sussultò, al sicuro nella sua maschera una volta giratosi. «Tutto bene amico? Non hai una bella cera, vuoi che ti chiami un taxi?».
Gerard fu tentato dall'annuire un sì grazie, sarebbe grandioso, ma qualcosa lo distrasse e tese l'orecchio. C'era qualcuno che cantava in sala. Come aveva fatto a non accorgersene? Si girò e cercò di dare un senso al turbinio che gli stava demolendo le vene.
«Ciao, siamo i Pencey Prep e questa era la nostra prima canzone. Spero non vi abbia fatto troppo schifo ma ad ogni modo ne abbiamo solo un'altra da parte quindi tenete duro solo un altro po' e sarete liberi per il resto della serata». La musica riprese, inascoltata dalla maggior parte dei frequentatori, troppo alterati per essere coscienti anche solo della sua esistenza o di una fascia d'età ben oltre le porte del genere.
Gerard fissò il gruppo senza spostare lo sguardo dal ragazzo che aveva parlato e che ora cantava in un microfono spaventosamente piccolo per chiunque altro ma perfetto per la sua struttura magra, quasi femminea. Gerard sentì un tuffo al cuore e per una frazione di secondo ebbe l'impressione che si fossero scambiati uno sguardo d'intesa, e la cosa gli mozzò il respiro.
Senza staccare gli occhi dal palco quasi inesistente si sporse verso il barista, ancora inchinato verso di lui, e gli chiese chi fossero i cinque ragazzi, trovando a malapena l'ossigeno necessario a muovere le labbra. Il barista arricciò le sopracciglia con un 'hm?', si voltò a osservare la manciata di liceali che stava suonando per lui e scrollò le spalle con un gesto sciolto, scuotendo la testa, allo stesso tempo incurante e stupito che qualcuno se ne potesse interessare.
«Un gruppetto locale, sai uno di questi che bazzicano ai concerti delle band più rilevanti e ti regalano il loro CD sperando che poi tu te lo senta davvero» disse semplicemente, «Pencey Prep mi sembra. Bravi ragazzi, conosco il cantante da una vita». Lo indicò. «Figlio di amici, l'ho praticamente visto crescere». Sorrise. «Gran personalità la sua; peccato solo voglia dedicare la sua vita a questo» e indicò il gruppo con un gesto largo della mano «niente in contrario alla musica, sia chiaro, ma questo genere… ma d'altronde che ci vuoi fare, quando un ragazzo così ti chiede un favore tu gliene fai mille».
Gerard annuì, senza rispondere; ringraziò quietamente, concentrandosi di nuovo sulla band, e si accorse che la canzone era agli sgoccioli. Deglutì, improvvisamente teso, e si scoprì a pochi metri dal palco qualche secondo dopo, le dita schiuse verso il chitarrista in un tocco che sperava non fosse mai successo.
Ritrasse la mano e la guardò, spaventato, la gola improvvisamente colma di cemento e le guance in fiamme. Indietreggiò impacciatamente, gli occhi sbarrati e le sopracciglia incurvate, pregando in ogni lingua di non inciampare in nessun cavo o pestare il piede a qualcuno mentre scappava a una velocità che gli sembrava inesistente.
Quando fu a distanza di sicurezza strizzò le palpebre, stringendosi la punta del naso fra l'indice e il pollice per calmarsi e riprendere fiato, e si appoggiò nuovamente al muro, le voci a rimbombargli contro urla e insulti. Cercò di raccogliersi e quando riaprì gli occhi notò che il gruppo aveva terminato di riporre gli strumenti il palchetto semivuoto di nuovo ripiano per bottiglie e bicchieri mezzi vuoti.
Deglutì e si guardò velocemente attorno, cercando il ragazzo nella penombra crescente, scandagliando la stanza più e più volte. Sentì un macigno posarglisi sulle spalle e si lasciò scappare un battito, dirigendosi il più velocemente possibile verso il bagno. Spalancò la porta sul nulla e l'adrenalina nelle vene gli si bloccò di colpo, lasciandogli un gusto amaro dietro ai denti. Richiuse la porta e abbassò la testa, senza essere davvero sicuro sul perché la delusione gli stesse offuscando gli occhi, e lasciò che i piedi lo guidassero all'esterno.
Varcò la soglia senza dare o ricevere saluti, lo sguardo perso sul marciapiede screpolato da passanti poco interessati e guidatori mai multati abbastanza, e scivolò nel vicolo adiacente, lasciandosi abbracciare dal freddo pungente e dall'eco incostante del pub. S'infilò una sigaretta in bocca e sistemò le mani a coppa, combattendo contro il vento per il futuro della sua fiamma; arricciò le sopracciglia e non si accorse della figura al suo fianco, troppo assorto nella sua battaglia per un po' di nicotina.
«Ehi, credi che me ne lasceresti passare una?». Gerard alzò lo sguardo su un paio di occhi vivi quasi quanto il soffio che gli aveva appena sfiorato le orecchie, incastonati in un viso dai lineamenti dolci, di una delicatezza decisa e sorridente. «So che non ci conosciamo ma posso ricambiare con una birra se vuoi» aggiunse il moro, cercando di smorzare l'ansia tagliente che li circondava. Gerard frugò freneticamente nella tasca della felpa e tirò fuori il pacchetto, porgendolo al ragazzo il meno impacciatamente che poté.
«Ah merda è l'ultima, non so se posso chiederti tanto» esclamò l'altro, esitando.
«Facciamo che è il mio contributo per la tua band visto che non avete merce in vendita» sfuggì a Gerard, che si maledisse internamente subito dopo. Il ragazzo sembrò rischiararsi e abbozzò un sorriso.
«Quindi ci hai sentito suonare?» domandò, cercando di nascondere l'emozione riducendo il sorriso. «Testi stupidi, eh? Dio, ci provo in tutti i modi ma l'inchiostro divora tutti i miei pensieri decenti, giuro che miglioreremo tantissimo col tempo» scherzò, come se sentisse il bisogno di scusarsi per averci messo l'anima. Gerard scosse la testa.
«Per quel che conta a me siete piaciuti un sacco» - si colpì il capo con il palmo - «un sacco, cristo non lo usano più manco in quinta elementare».
Frank rise. «Siamo due sfigati, direi».
Gerard sorrise, sentendo la tensione smorzarsi e farsi un tutt'uno col selciato, e avvicinò di nuovo il pacchetto al chitarrista. «Sigaretta fortunata, sperando che la fortuna si ricordi che non ci sono solo persone fighe al mondo».
Frank rise e la prese, tenendola in equilibrio con le sue labbra di pesca prima di prenderla fra indice e medio, alla ricerca del suo accendino. Quando l'ebbe trovato espirò e una piccola folata sparse cenere nel vicolo, facendola volteggiare quasi un fiocco di neve solitario fosse appena sbocciato dal cielo. Gerard si trovò a sorridere e l'altro ragazzo contraccambiò spontaneamente, il petto che si alzava e abbassava ritmicamente, riempiendosi d'aria che il primo si accorse di star ringraziando.
«Magari mentre la fortuna cerca di svegliarsi possiamo ammazzare il tempo insieme» offrì il più piccolo, portandosi la sigaretta lontano dalle labbra per dirigere il fumo verso un cielo nuvoloso e opaco. «Il mio nome è Frank, ma finché non usi insulti o brutti nomignoli puoi chiamarmi come ti pare».
«Gerard» disse l'altro, sperando di non sembrare l'animaletto terrorizzato che si sentiva. L'altro sorrise e annuì, tirando un altro soffio. Abbassò lo sguardo e buttò la sigaretta per terra, pestandola con un piede.
«Mi piace. Allora alla prossima, Gerard» mormorò con un gesto del capo, riunendosi al resto della sua band.
Cristo, da quanto erano lì? Si portò una mano sul viso e si rese conto di star scottando; impallidì e abbassò entrambe le mani, appoggiandosi al muro per non cadere. Onde d'urto gli si stavano frastagliando contro il petto e da qualche parte nel suo cervello una sirena stava urlando a squarciagola messaggi che si rifiutava di decifrare.
Cristo santo Gerard ma non impari mai niente?!
Si lasciò scivolare sul marciapiede e si prese la testa fra le mani, strizzando gli occhi ed espirando sonoramente. Alla faccia della sigaretta fortunata.




Angolo dell'autrice: Um ciao sono Pwhore e volevo giusto ringraziare chiunque sia arrivato fin qui perché sono cosciente che finora i dialoghi siano pressappoco inesistenti e probabilmente leggere è più pesante di quanto non intendessi all'inizio e ugh scusate tanto. So che la struttura è un po' strana ma sto scrivendo tutto su un quaderno e purtroppo così facendo dividere in capitoli diventa allucinante e per quanto riguarda le mie scelte purtroppo faccio piuttosto schifo quindi sì insomma scusate, so che è un po' un casino. Spero che la grammatica non stia cadendo a pezzi, sono in America da fine luglio e le uniche occasioni che ho per utilizzare l'italiano sono quando canto assieme ai miei gruppi sfigati se sono a casa da sola o quando messaggio No (sappi che ti conoscono tutti così), Frà, Ria, Delf e letteralmente altre due persone massimo quindi probabilmente i costrutti sono tutti sfasati o misti a altre lingue e ugh. Ma ehi, il pensiero è quel che conta, giusto?
Grazie a tutti quelli che si sono sforzati di arrivare alla fine, vi amo da morire

   
 
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