→ NOTE D’AUTRICE.
Ho preferito, almeno per questo capitolo, scrivere
alcune cose a inizio della fan fiction – spero che non possa essere di troppo
disturbo chiedere a voi lettori di dare una sbirciatina qui prima di iniziare
la lettura di questa mini-long. ♥ Cominciamo! ~
Per l’Universo della fan fiction, ho ideato un
mondo distrutto da guerre nucleari ed armi biotecnologiche. Non sono scesa
molto su questo aspetto, non avendo conoscenze e studi appropriati. Inoltre,
non volendo caricare ulteriormente questa storia, già di per sé ricca di
«concetti», ho preferito raccontare un po’ il background nelle note d’autrice, onde evitare di far risultare la
storia poco chiara.
Quello che state per leggere è una sorta di distopico post-apocalittico con elementi fantasy,
ambientata quindi nel futuro di un futuro (scusate il gioco di parole!) lontano
dal nostro.
Dopo la Guerra sopraccitata, nel Mondo (della fic, s’intende) si sono inseriti elementi magici «donati»
da due divinità, riprendendo la evergreen
dicotomia tra Bene e Male (base della storia), i quali verranno poi descritti
nella fan fiction. Prima della Guerra, invece, è importante ricordare che la
chirurgia estetica è arrivata a livelli quasi carnevaleschi: le persone si
facevano impiantare denti da cane, piume, occhi “speciali” e altri particolari
del genere – l’evoluzione scientifica ha permesso che queste caratteristiche
diventassero genetiche e si insediassero nel DNA della persona, in modo da
tramandarlo di generazione in generazione.
Le creature “magiche” classiche, mi dispiace dirlo,
non sono molto presenti: vi sono le sirene (nella versione più…
dark, per così dire, come quelle di
Pirati dei Caraibi ed Harry Potter) e un'altra popolazione abitante delle
foreste basate sugli elfi, ma in modo meno “regale”. Non tutte queste creature
prenderanno il nome con cui le conosciamo noi, ma piuttosto verranno
apostrofate come fossero i clan presenti in Naruto – il motivo verrà svelato
durante la lettura, o, quantomeno, spero sia intuibile. Altre creature
ricorderanno, per esempio, licantropi e vampiri, ma non sono andata oltre. La
maggior parte delle “creature” (specie quelle “malvagie”), in tutti i casi,
verranno chiamate “mostri” o “chimere”
per via della loro particolare condizioni.
Riguardo i dojutsu… beh, diciamo che ho dovuto un po’ stravolgere la
loro natura (e me ne dispiace) per farli rientrare nella trama. Il risultato è
che il Byakugan come lo conosciamo in Naruto ha avuto
nuovi “poteri” e mantenuto alcune caratteristiche (involontarie), ma lo ha
solamente Hinata (scusami Neji!). Lo Sharingan,
invece, è come se si fosse scisso in due: quello di Sasuke non ha nulla a che
vedere con quello di Obito. Nella storia, hanno una radice completamente
diversa che verrà esplicitata. Spero che questo non crei confusione.
All’inizio della storia Sasuke potrebbe apparire
vagamente OOC, ma faccio appello al buon senso dei lettori e alla comprensione
della situazione. Cercando di non fare spoiler, diciamo che in una situazione
di stress come quella subita da Sasuke nella trama di questa piccola storia,
reagire diversamente sarebbe stato molto difficile ma, soprattutto, molto più
fuori caratterialmente di quanto lo sia con le scelte da me prese. Vorrei
ricordare che Sasuke, davanti ad una situazione che gli ha sempre fatto paura,
è stato zitto e buono senza muovere un muscolo… ed
era anche abbastanza impanicato.
Sulle due divinità, invece, ho scelto volutamente
di tratteggiare il loro fisico prendendo in considerazione due personaggi
esistenti in Naruto, ma non sono
basati in alcun modo sui caratteri dei personaggi sopracitati. Lo
dichiaro qui perché so perfettamente che uno dei due Dei è assolutamente OOC,
ma non sono partita con l’idea di usare quel personaggio come base. Se questo
può creare problemi, mi dispiace!
Dovrei aver detto tutto, almeno riguardo la trama
in sé.
Avrei voluto svilupparla meglio, ma avendo il
limite di dieci capitoli (proprio per evitare che la storia fosse troppo
complessa), ho fatto quel che potevo, e questo è il risultato. Personalmente,
non mi dispiace affatto il prodotto che è uscito (dopo un mese di sudore, ahah XD) e spero possiate apprezzarlo anche voi! ♥
Gli aggiornamenti saranno – salvo problemi – il martedì e il venerdì. Quindi: prossimo aggiornamento
a venerdì 3 aprile.
Buona lettura!
radioactive,
storia partecipante al contest «Naruto versione Fantasy!»
indetto da ame tsuki
sul forum di EFP.
LÀ, DOVE SORGE IL
SOLE
Capitolo 1
~
Ad
ogni passo che faceva sentiva di star perdendo il controllo sul proprio corpo.
L’aria iniziava a mancargli, facendosi più rarefatta fino a sembrargli
inesistente. I polmoni si prosciugavano con una ferocia tale da chiudersi in
dolorose fitte, si estendevano fino allo stomaco e poi sempre più giù, scivolando
sui nervi delle gambe e sulle dita dei piedi.
Sasuke
inciampò nella radice di una delle grosse querce e cadde a terra, proteggendosi
il viso con le braccia mentre rotolava giù per quelli che gli parvero
chilometri. L’ennesima fitta allo stomaco gli smorzò completamente il fiato,
annebbiandogli la vista e prosciugandogli la gola. Impedendogli pure di urlare.
Sentiva il grosso tronco sotto i propri addominali e le schegge della corteccia
sotto le unghie, tanto cercava di aggrapparsi all’albero per non cadere ancora.
Era un dolore allucinante, come se tutte quelle ferite si fossero aperte e
venissero cicatrizzate all’istante con il ferro rovente. Sentiva la carne
venire perforata, minuscoli nervi rompersi e vibrare, il dolore diventare fumo
su una piaga aperta e scivolare all’interno del suo corpo come il bacio della
morte. Era un bacio che faceva male. Era peggio dello stomaco a pezzi.
Scivolò
a terra, incastrandosi tra due radici sterrate attorcigliate tra di loro,
ansimando – ricordandosi di un cervo morente che aveva visto quando era ancora
un bambino.
Sentiva
un liquido caldo bagnargli le tempie e le mani, le gambe diventare acqua e
sciogliersi assieme alla neve che ancora ricopriva la terra. Il muschio si
mescolava al ferro e gli intorpidiva i polmoni.
L’ultima
cosa che vide, prima di perdere conoscenza, fu il sole, frammentato dalle
foglie degli alberi. La luce era talmente potente da penetrare quella ragnatela
di rami, dividendosi in fasci arancioni che al tramonto rendevano la neve
dorata, quasi preziosa.
Il
sole, lì, solitario e in gabbia, era l’unica cosa a cui Sasuke riusciva a
prestare attenzione.
Gli
sembrava fatto di sangue.
L’aria
quel giorno era particolarmente fresca e sapeva di fiori. Era un piacere vagare
per la foresta con la primavera che si stava avvicinando.
«Sta’
attenta» disse Neji, prendendole la mano per aiutarla ad attraversare una
radice sterrata, coperta dalla neve ghiacciata, «dovresti guardare a terra
invece che il cielo, Hinata» le consigliò, lasciando che le dita della ragazza
scivolassero via dalle sue.
«Non
preoccuparti» lo rincuorò lei, «la foresta non potrebbe mai farmi del male, lo
sai» e si appoggiò al tronco di un albero, sfiorandone inconsapevolmente le
crepe della corteccia come se fossero le cicatrici sulle braccia di un bambino.
Anche il muschio, di un verde brillante e irreale, fu soggetto alle sue
attenzioni – a contatto con quelle dita, tutto sembrava diventare migliore, «non farebbe male a nessuno di
noi» lo rincuorò.
«Non
è la foresta che mi preoccupa» sospirò il cugino.
«E
cosa, allora?». C’era sempre quella gentilezza, nella voce di Hinata, che
sconvolgeva Neji – così come sconvolgeva
tutto la loro comunità. I suoi modi di fare sembravano sospesi nell’aria, tanto
da farla sembrare un fantasma, una visione. Se avesse raccontato che Hinata non
lasciava impronte sulla neve, tutti gli avrebbero creduto. Non c’era da stupirsi se la Dea aveva scelto lei.
Il
ragazzo sospirò ancora, calciando un piccolo mucchietto di neve dura e
brillante, «sto ancora pensando al tuo ultimo sogno» confessò, sedendosi con la
schiena contro lo stesso albero che Hinata stava accarezzando – trattava
qualsiasi cosa come se fosse una persona, come se fosse dotata di sentimenti e
di anima.
«Dobbiamo
solo prepararci a dovere, Neji» la voce di Hinata era vicina, vicinissima.
Girando il capo, Neji si accorse che si era chinata alla sua altezza. Si perse
per un attimo nei suoi occhi del colore della neve, con quelle sfumature lilla,
chiarissime, che li impreziosivano, facendoli sembrare due perle. Nessuno aveva
quelle sfumature, oltre a lei.
«E se la Dea si sbagliasse?» chiese, «se
non avessimo abbastanza tempo? Non sappiamo nemmeno cosa dobbiamo affrontare!»
e si lasciò scappare un grugnito, ammucchiando della neve tra i piedi come
fosse un bambino.
Quella
dita che aveva ammirato sulla corteccia si posarono sulla sua spalla,
lentamente, e il corpo di Hinata affiancò il suo. Era una vicinanza che lo
tranquillizzava e lo faceva stare bene – lo rendeva più sicuro di sé stesso e
di un futuro migliore che, a quanto pare, sarebbe arrivato presto. «La Dea ce lo dirà, Neji» gli disse piano,
«me lo dirà», accarezzandosi le braccia, «devi solo crederci».
La
voce di Hinata sparì piano, in un sussurro, mentre gli occhi di lei si
fissavano in un punto lontano e non definito, che lui non riusciva a vedere.
Osservò i lineamenti delicati di lei, i suoi capelli appoggiati alla spalla
come le piume eleganti di un uccello nero. Aveva la bellezza delle creature
dell’acqua, delle sirene, prima che diventassero pericolose e cannibali – e
quella finezza, quell’eleganza delle donne ricche della città di un tempo, con
le orecchie a punta e la pelle pallida. Hinata era fatta di neve che non si
scioglieva mai.
«Neji»
lo chiamò piano, «lì, avanti» disse, il suo respiro si faceva più corto e i
nervi attorno ai suoi occhi si ingrossavano, disegnando una rete che sembrava
volerle perforare la pelle. La Dea si manifestava sempre così, distorcendo
quella bellezza in qualcosa di più mistico, inspiegabile, che neanche Hinata
riusciva a controllare. «C’è qualcuno non molto lontano da qua, ai piedi della
montagna» e poi tutto, nel suo volto, tornò normale. Gli occhi erano liquidi
con quelle sfumature singolari e il viso leggermente arrossato. La mano,
fredda, si era posata su quella altrettanto pallida di lui, «dobbiamo andare a
vedere» gli comunicò, «sta morendo».
Si
svegliò di colpo. Spalancò le palpebre e la bocca, senza produrre alcun suono.
Attorno a lui vedeva bianco e poi, lentamente, i lunghi rami degli alberi,
simili a dita scheletriche, si fecero spazio nella luce. Sembravano sul punto
di afferrarlo, stringergli la gola e soffocarlo.
Avrebbe
voluto urlare. Lo sentiva, sul fondo dello stomaco indolenzito, quel grido che
raccoglieva tutti i brandelli della sua anima a pezzi e li convertiva in un
lungo, rabbioso, lacerante suono. Immaginava, mentre il dolore si faceva più
palese ad ogni angolo del suo corpo, quell’urlo diventare più liquido, caldo e
amaro, simile al sangue. Se avesse urlato, gli uccelli avrebbero spiccato il
volo – come facevano quando un albero crollava o si sentiva un rumore troppo
forte.
«Non
urlare».
Bastarono
quelle parole a bloccarlo, a tenerlo immobile sul letto di foglie e brandelli
di tessuto lacero e vecchio. Dentro di lui la rabbia scemò, intorpidendogli i
muscoli. Fissò il cielo, mentre le dita degli alberi rimanevano in agguato,
pronte a stringerlo ed ucciderlo.
«Come
ti chiami?».
Sasuke
girò lo sguardo, abbastanza da sentire quel dolore alla testa che aveva
ignorato durante la sua fuga. Chiuse
le palpebre provando a dominare quel bruciore che gli attanagliava le tempie.
Riaprendo gli occhi, lentamente e con le ciglia incollate tra di loro, notò la
figura seduta accanto a sé, come se fosse al suo capezzale – come se lui stesse
morendo.
La
pelle della sconosciuta, bianchissima, si confondeva con la neve alle sue
spalle, risaltava nel verde del muschio e degli alberi, fino a scomparire sotto
le vesti sporche di terra e sangue. Osservò il suo sorriso gentile, simile a
quello di una madre – di sua madre –
e quelle orecchie a punta che facevano capolino dai capelli che sembravano le
tende della notte quando il sole scompariva dietro la montagna. Gli occhi
sembravano privi di pupilla e lo fissavano, intrappolandolo in quelle sfumature
lavanda, irreali.
Quella
ragazza lo spaventava.
«Non
toccarmi» sentenziò Sasuke, aveva il sapore del sangue sulle labbra e i nervi
sembravano strapparsi ogni volta che provava a muoversi. Si mise a sedere
comunque, soffocando l’ennesimo gemito di dolore mentre osservava la ragazza
allungare una mano verso di lui. Sasuke spalancò gli occhi, sperando che il
proprio sguardo fosse abbastanza per contrastare quello di lei. Appoggiò i
talloni a terra, con una forza tale che sentì sotto il proprio peso la neve
affossarsi e si tirò indietro, rifiutando un qualsiasi contatto con quella
creatura di cui non conosceva ancora il nome.
«Non
voglio farti del male» disse, ma Sasuke non capiva il senso di quelle parole.
Non le concepiva, semplicemente. Più si rendeva conto della presenza che aveva
davanti agli occhi, più ne era terrorizzato ed ogni cellula del suo corpo
desiderava fuggire, riattraversare la montagna, piuttosto.
Una
figura comparse tra gli alberi, dietro la sconosciuta. Stessi capelli, stesse
orecchie, più macchie di sangue sui vestiti e gli occhi dello stesso bianco, ma
senza le striature violacee. Quelle iridi si confondevano con la pelle, facendo
assomigliare il viso ad una maschera di cera senz’occhi.
«È
sconvolto» disse la ragazza, alzandosi da inginocchiata che era. L’altro prese
la mantella che teneva sulle spalle – una pelliccia chiara – e gliela posò
sulle spalle, piano, spostandole i capelli.
«È
normale» sospirò l’altro, come se lui non ci fosse. Poi lo fissò, in quel modo
così intenso, così trasparente, che Sasuke si sentì trapassato da parte a parte
da quel nulla. E di nuovo il senso di
sangue, di urla sul fondo dello stomaco che diventavano liquide e gli
risalivano la gola come fossero bile da rigettare, bruciando tutto ciò che
trovavano. «Hai un nome?» domandò il ragazzo, facendo un passo verso di lui.
Sasuke
non aveva più la forza di muoversi, di respirare. Si lasciò cadere sulla neve
fresca, sentendo i vestiti bagnarsi e i capelli diventare umidi. Il manto
bianco sotto di lui recuperava con dita gentili il suo sudore freddo – era un
dolore piacevole, che lo abbracciava piano, diventava persino caldo. Sentì le
lacrime scendergli sulle guance e il vento tiepido del pomeriggio sferzargli il
volto.
«Se
non collabora morirà» sentì dire dal ragazzo, e poi dei passi nella neve.
Lontano,
dall’altra parte della montagna, degli uccelli gracchiavano.
Non
nevicava da un paio di giorni.
Era
strano, constatò Naruto, dopo le settimane di neve, vedere il sole nel cielo –
brillava di un bianco irreale, emanando luce fredda che congelava le ossa e il
letto candido che ricopriva la neve e le radici sterrate in cui era inciampato
più volte.
«Secondo
te perché Kakashi ha sempre la faccia coperta?»
bisbigliò, ritornando dritto, stando attento a dove metteva i piedi mentre si
aggrappava al cappotto della ragazza al suo fianco, piantando poi gli occhi
azzurri in quelli di lei, che ricordavano il prato adesso nascosto sotto la
neve. L’attenzione non era abbastanza per non cadere.
Sakura
si fermò di colpo, afferrando il braccio di Naruto per metterlo in piedi,
prendendo le distanze da Kakashi e dal resto del
gruppo di profughi, «non lo sai?» chiese sottovoce, «certo che sei proprio un
cretino!» continuò.
Naruto
scosse la testa, confuso, togliendosi i guanti e prendendo un mucchietto di
neve con cui lavarsi le mani, era una bella sensazione, un’abitudine che aveva
preso dall’amica. Sakura si guardava attorno come se avesse paura di raccontare
quello che sapeva, come se qualcuno si fosse fermato ad ascoltare quello che
aveva da dire.
«Dicono
che…» iniziò, bloccandosi subito dopo. Si strinse
attorno al braccio di Naruto, tremando – per il freddo? – e si lasciò scappare
un sospiro, «dicono che fosse amico di Obito, e che avesse…»
e si passò una mano sulle labbra e sul naso, indicando la parte che Kakashi teneva nascosta, «un qualcosa, sul viso, un
particolare che ad Obito interessava e…».
«Gliel’ha preso?» domandò senza
delicatezza, e il viso di Sakura si contorse in una smorfia a metà tra il
disgusto e il dolore immaginario.
«Non
lo so» mormorò, riprendendo a camminare con Naruto sottobraccio, «nessuno lo
sa. Ma gli ha fatto qualcosa, di sicuro…» e si fermò
un attimo, espirando una nuvoletta di fumo bianco mentre un piccolo cumulo
copriva il sole. «Nessuno lo ha mai visto in faccia» continuò, «e se lo
conoscevano prima che Obito facesse quello che ha fatto…
non lo hanno più riconosciuto, dicono anche che Kakashi
non sia il suo vero nome» ogni volta che pronunciava quel nome – Obito – gli occhi di Sakura si
chiudevano appena e le sue dita si stringevano al braccio di Naruto, solo per
un istante. Quel nome aveva qualcosa di oscuro, un muro che lo divideva dal
resto del mondo, lo rendeva minaccioso ed impenetrabile. Impossibile da
affrontare.
Alcuni
dicevano che Obito fosse il male in persona.
Non
avevano torto, e Naruto lo sapeva bene.
Raggiunsero
il gruppo senza dirsi più nulla, seguendo le orme che gli altri avevano
lasciato – li superarono, ritornando a camminare dietro Kakashi.
Sakura si sentiva come se avesse tradito la sua fiducia, raccontando quella storia, e non aveva il coraggio di
guardargli nemmeno la schiena, rigidamente dritta come al solito. Volgendo lo
sguardo verso Naruto, invece, scorgeva negli occhi azzurri della curiosità nei
confronti dell’uomo, e anche una malcelata tristezza, mai superata, che riposava sempre in fondo a quei
due pozzi di cielo.
Kakashi si fermò all’improvviso, facendola
quasi sbattere contro le sue spalle. Si fermò di fianco a lui, mentre Naruto si
metteva alla sua destra, guardandosi intorno con movimenti troppo veloci e
confusionari, senza posare davvero lo sguardo su qualcosa. Dalle sue spalle, un
brusio iniziava a diffondersi per la foresta, mettendola in agitazione.
«Che
cosa c’è?» domandò a Kakashi, osservandolo respirare
da sotto la sciarpa.
Prima
che lui potesse rispondere, due grossi cespugli alla loro sinistra si mossero
in modo troppo evidente perché fosse una brezza o un animale di piccola taglia.
In un unico, fluido gesto, tre persone uscirono dall’intreccio di foglie e
ghiaccio.
Sakura
era incantata, non riusciva a distogliere lo sguardo da quella pelle bianca.
Sembravano fatti di neve, come nati dal sangue versato sul manto candido su
cui loro marciavano da giorni.
«È
lui» disse la ragazza al centro. Focalizzandosi su di lei, Sakura notò che
attorno agli occhi bianchi le vene erano leggermente ingrossate e le sue guance
iniziavano a prendere colore. Un ragazzo, poco più grande della giovane che
aveva parlato, fece un passo avanti.
Sakura
si sentì trascinare indietro mentre Kakashi la teneva
per un braccio, mettendosi al suo posto. Naruto la affiancò subito,
stringendole il polso in una morsa protettiva. «Cosa diavolo sono?» le domandò,
assottigliando lo sguardo, cercando di sembrare quasi minaccioso.
«Chiediamo
asilo» disse Kakashi,
scandendo le parole e aprendo le braccia, mostrando di non avere nessun tipo di
arma tra le mani. La sconosciuta sembrò sussultare e trattenere il respiro. Il
rigonfiamento attorno ai suoi occhi sparì e il suo corpo barcollò un attimo –
di fianco a Sakura, Naruto si mosse appena, agitato, forse preoccupato per lei?
«Abbiamo
smesso di dare asilo ai nomadi» disse il giovane, quasi ringhiando,
avvicinandosi di un altro passo. Le iridi vitree riflettevano la figura di Kakashi, immobile, come se il suo unico occhio bastasse a
tenere a bada quello sguardo feroce e irreale, quasi selvaggio, dello sconosciuto.
«Neji»
chiamò l’altra. Ora il viso di lei era dipinto con sfumature rosse, trasparenti
come petali di rose, e gli occhi erano liquidi, assomigliavano a due perle
viste oltre lo specchio dell’acqua. Tutto in lei aveva una sfumatura regale, di
una bellezza che la faceva star male. Non immaginava ci fossero ancora creature
degne di essere dette belle, nel
Mondo. Si sentì male, ricordando il suo ventre incavato e gli spigoli del suo corpo
– come presa in causa, colpevole di non essere bella, anche se nessuno aveva il tempo per pensare a quel tipo di
cose. Osservando la ragazza, però, si accorse di come le sue braccia fossero
magre, come le caviglie sembrassero due leggeri rami intenti a sostenere un
mucchio di neve bagnata, pesante. Era gracile tanto quanto Sakura stessa, e
debole. Il suo corpo non sembrava l’unica cosa che le sue gambe e i suoi piedi
nudi dovessero sorreggere, un peso più grosso le gravava sulle spalle
spigolose.
Sembrava
tremare.
«Il
ragazzo» disse a voce più bassa, indicando con la mano sottilissima oltre le
spalle di Kakashi. Sakura si chiese come potesse
sopravvivere una creatura così gracile nella foresta, come potesse addirittura
muoversi senza spezzarsi.
Seguì
con gli occhi lo sguardo di lei, immaginandolo come una linea rossa, visibile,
che si faceva spazio nella tensione del momento, nel corpo di Kakashi che proteggeva loro due e le decina di fuggitivi
dietro di loro.
«Ti
chiami Naruto, vero?» domandò
gentile. Di fianco a lei, Naruto aveva gli occhi spalancati, incatenati a
quelli della sconosciuta, entrambi trattenevano il respiro.