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Autore: TotalEclipseOfTheHeart    31/03/2015    6 recensioni
Orfeo ed Euridice.
Un amore tanto profondo,
una storia unica,
un viaggio,per riconquistare la sua amata.
Propongo qui una mia personale interpretazione del mito...
spero vi piaccia...
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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FIN NELL’OSCURITA’ PIU’ PROFONDA, E POI ANCORA PIU’ GIU’…TUTTO PER AMORE DI EURIDICE

La incontrai una notte d’estate.
Una leggera brezza frizzante rinfrescava l’aria della sera, mentre i miei piedi nudi vagavano per la foresta tracia senza meta. Il mio cuore, libero come il canto per cui tante donne di mirabile aspetto mi ammirarono, bramava in quel momento di narrare le gesta e le avventure di qualcosa di grande come il cielo, eppure quel soggetto, quella musa ispiratrice tanto desiderata pareva non volermisi mostrare quel giorno.
Avevo vagato simile a un assetato nel deserto per tutta la sontuosa reggia di mio padre, Eagro, signore della Tracia. Ma nulla avevo trovato che ispirasse la mia voce.
Non i sontuosi giardini pensili, coperti da lucenti boccioli simili a gemme nella notte e pregni di fresca rugiada.
Non i possenti stalloni neri della mia patria, fieri destrieri reduci di mille battaglie.
Non le dolci fanciulle dalla vita fine e i boccoli color pece, orgoglio del nostro popolo.
Giunsi infine, senza rendermene conto, presso una fonte limpida, nella quale la luce perlacea della luna e il luminoso languore delle stelle si specchiavano pigri.
Sussultai stupito e ammaliato, mentre i miei occhi si posavano meravigliati sulla creatura più dolce e magnifica che avessi mai visto.
La giovane driade danzava leggiadra sul pelo dell’acqua, accompagnata da innumerevoli ancelle che la seguivano e l’assistevano in ogni suo gesto. 
I boccoli color miele, intarsiati da miriadi di gemme e boccioli purpurei, volteggiavano al vento, come onde marine pregne della dorata luce del sole. Gli occhi brillavano ardenti di femminea dolcezza, verdi come tutti i boschi di primavera, come le foglie novelle che timide si tendono al cielo, come mille smeraldi lucenti. La carnagione color rame risaltava sotto il semplice peplo color avorio, e fin ove mi trovavo giungeva chiaro e nitido quel suo profumo di spezie, semi di garofano e vino, un odore che mi inebriava e mi intontiva fino a svenire. Le forme erano semplici, le curve morbide, e la sua grazia pari a quella della dea Afrodite.
Sentii dentro di me il cuore esplodere di un sentimento nuovo e dirompente, il petto stringersi mentre qualcosa esigeva insistentemente di venire alla luce: mai mi ero sentito tanto ispirato in vita mia.
Presi la lira e leggere vi feci scorrere le dita sopra, un suono soave proruppe ardente come il mio cuore di fronte alla visione appena donatami, e la foresta tacque per ascoltarmi.
Cantai, cantai di feste e di balli, di infinite terre, fino ai cieli più alti. 
Cantai del mio cuore bruciante di tenero desiderio, di passioni nascoste.
Cantai la sua dolce bellezza, limpida come uno specchio e pura come le piume candide delle colombe.
Cantai di quella notte magica e nel mentre i miei occhi affondarono nei suoi. Un nome: Euridice, disse di chiamarsi.
Può ora un semplice nome donare tanta gioia?
Può farti col suo solo suono sussultare il cuore nel petto, inebriarti la mente fino alla pazzia?
Può forse farti raggiungere le vette più alte della poesia, tu che prima non eri che uno stonato fringuello?
L’amai, Zeus solo sa quanto l’amai.
Dapprima, la sua timida pudicizia mi respinse.
Ma io insistetti.
Militai fiero e ardente d’amore presso la sua porta.
Digiunai in attesa del suo sorriso.
Scalai vette pur di cogliere per lei le orchidee più belle.
Mai fui così felice.
Mia madre, la potente Calliope, persino lei pianse ascoltando i canti che composi, tutti in nome di quella fanciulla che mi aveva rapito il cuore. 
Scese coperto di raggi luminosi dall’Olimpo il nobile Apollo, sgusciò timido e selvaggio Pan fuori dai suoi boschi, tutto per udire la mia voce, che riempiva le valli delle lodi che composi solo per lei.
Infine, anche Euridice s’innamorò. Impietosito dal mio diligente militare per lei, Eros decise infine di colpirla coi suoi dardi famelici.
A danzammo, felici e liberi, per i prati.
Dormimmo sotto le stelle.
Rincorremmo farfalle e godemmo l’uno dell’altra finché, pazzo d’amore, non le chiesi di diventare la mia compagna di vita.
La cerimonia chiamò presso la reggia di Eagro tutta la Tracia.
Ninfe e driadi, sorelle fedeli della mia consorte, giunsero portando in dono ceste cariche di frutta e bacche selvatiche.
Satiri danzarono per noi, allietando la festa con il loro esuberante modo di fare.
Mia madre condusse con se le Muse sue sorelle, e ognuna di loro compose un’opera in nostro onore.
Dioniso, rosso d’ubriachezza come sempre, giunse un po' barcollante donandoci scrosci di vino color porpora.
Portai infine la mia dolce sposa presso il talamo che per lei aveva personalmente costruito. Timida e tremante come una colombella indifesa mi fissava incerta, mentre con dolcezza la facevo mia, strappandole la sua innocente verginità e sussurrandole tenere parole all’orecchio. Ci amammo per tutta la notte, sotto il lume delle stelle che silenziose ci facevano da testimoni.
Il giorno seguente decidemmo di andare a cogliere dei fiori, per ringraziare Afrodite del meraviglioso dono che ci aveva fatto.
Fu allora che quell’uomo comparve.
Aristeo, amante persecutore della mia giovane consorte. Da mesi ormai non le dava più pace.
Fuggì lei simile a cerbiatta spaventata per la foresta, mentre io tentavo di ricacciare da dove era giunto quell’ospite indesiderato.
Quando giunsi per chiamarla, ahimè, sentii il mio cuore cadere a pezzi.
La mia bella giaceva inerme a terra.
La carnagione era pallida, il fiato corto, quegli smeraldi lucenti che erano i suoi occhi apparivano ora opachi e spenti mentre sussultando esalava tra le mia braccia il suo ultimo respiro.
Sulla sua caviglia, un morso rosso brillava vermiglio mentre tra gli arbusti una serpe maledetta sgusciava via.
Piansi disperato, urlando il suo nome.
Ma come poteva sentirmi ormai?
La sua anima era scesa negli Inferi!
E come potresti poi, tu, povero mortale, andare a salvarla?
Un vuoto, una voragine nera mi si scavava nel petto, il fiato mi veniva meno, mentre quel dono prima luminoso e tenero ora mi dilaniava il cuore di un dolore sordo e cieco. Dannato pupillo alato, che bendato scagli a noi poveri mortali le tue frecce dorate!
Perché mi hai colpito?
Perché farmi perdere a tal punto la ragione?
Che mai ti aveva fatto di male?
Amore dolceamaro, smettila di bruciare nel mio petto!
Morto, vagabondo, abbandonai il nido paterno per vagare senza meta per i boschi. A nulla valsero le suppliche di mia madre o di mio padre.
Non cantavo più.
Non suonavo più.
La mia musa ispiratrice se ne era andata, e se mai un suono usciva dolente dalla mia cetra allora gli alberi si ripiegavano su se stessi dalle lacrime, le belve tacevano, le rocce si sgretolavano di fronte alla mia sofferenza.
Giunsi allora presso una grotta profonda.
Ai lati, teschi e ossa diafane parevano avvertire noi viventi di non passare oltre.
Alzai lo sguardo al cielo.
“Ebbene!” gridai “Se la natura si rifiuta di riportarmi la mia dolce Euridice, significa che andrò io personalmente a prenderla! Eccomi dunque, oscurità infinita, terribili strazi del modo dei morti, Erebo nero di pece, un nuovo visitatore, solo ancora respirante, ti sfida!”
Mi inoltrai dunque in quel baratro tanto simile alla voragine che la morte della mia amata aveva scavato nel mio petto.
Dapprima non riconobbi nulla, l’oscurità mi accecava gli occhi.
Continuai a scendere per un tempo che parve infinito.
Dal fondo, cupe giungevano le urla strazianti dei morti, l’odore di zolfo e di fumo, il sapore metallico del sangue, il viscido scrosciare delle lacrime e le tenebre nere dell’Inferno.
Giunsi dunque a una spiaggia di ciottoli diafani, coperta di ossa e teschi putridi, mentre di fronte a me un fiume color porpora scorreva placido e silente.
Torme di anime perlacee vagavano incerte mentre una losca barca di pioppo nero percorreva quelle acque malsane.
Sulla prua, un figuro alto e imponente sbatteva le anime che non potevano pagare il pedaggio fuori dalla sua imbarcazione. Indossava un lungo mantello nero e ricoperto di polvere, lurido e sporco di macchie purpuree, dal quale due braccia grigie e ossute spuntavano per reggere un grosso remo contorto.
Sotto il cappuccio, due occhi rossi come carboni ardenti brillavano vividi, e quando li incontrai sentì quasi il coraggio venirmi meno.
Eppure avanzai.
Caronte, il guardiano, posò silenzioso il suo sguardo bruciante su di me: “Che vuoi tu, anima mortale? Tornatene da dove sei venuto, qui non hai niente da fare! Se sei ansioso di incontrare il nero Thanatos, allora infilati un pugnale nel petto! Così, da vivo, non puoi passare!”
Lo fermai, disperato, prima che potesse allontanarsi verso la riva opposta: “Vi prego, grande Traghettatore! Sono giunto qui per compiere una missione importante, e non posso tornare indietro ora, se è un pedaggio che volete, vi pagherò. La mia amata si trova ove voi state andando, il Fato ci ha separati, non posso rivedere la luce senza di lei!”
L’uomo scoppiò in una sonora risata.
Un suono rombante come i tuoni d’autunno, cupo come il ruggito del leone di montagna e funesto come i corni di guerra.
“Presuntuoso! Osi non solo scendere fin quaggiù, nonostante tutti sappiano che nessuno vi è mai uscito vivo, ma anche tentare di riscattare un’anima già defunta?! Il mio signore, il possente Hades, non ti permetterà mai anche solo di rivedere il sole, figuriamoci riportare indietro la tua amata!”
Stava ormai per  voltarsi quando presi la mia cetra.
“Ebbene” dissi “facciamo così. Se riuscirò a muoverti a compassione, mi farai passare. Altrimenti sarò io stesso a rinunciare alla mia impresa!”
Caronte mi fissò interdetto, poi, sghignazzando divertito, annuì.
Un canto dolce proruppe allora dalla mia gola.
Soave e suadente tenere note riempirono l’aria dello Stige.
Le anime si arrestarono,spegnendo le loro urla strazianti e fissandomi con gli occhi sgranati.
Facendo leva sui ricordi che doveva ancora conservare della sua vita da mortale, suonai per Caronte, narrando il verde sconfinato delle valli, i raggi bollenti del sole estivo, il dolce sapore del vino dei mercanti. Cantai di vita, di amore, di gloria e di avventure.
Il tempo parve fermarsi, mentre anime sconosciute mi si inginocchiavano affianco ascoltando in silenzio.
Grosse e tetre figure planarono silenziose presso il fiume. Terribili, le Erinni, silenziose guardiane degli Inferi, atterrarono placide al mio fianco.
Figure strane erano quelle. Corpi di donne, gambe da rapace e ali d’uccello. Megera, dalle piume color borgogna e i brillanti occhietti azzurro ghiaccio. Aletto, la voce simile al suono del vento sopra le vette più alte. E Tisifone, rapida come un fulmine e malvagia come poche.
Le insolite creature atterrarono presso la barca del Traghettatore Oscuro, fissandoci meravigliate. Dai neri occhi di Tisifone, calde lacrime colavano per la prima volta illuminando quel grottesco volto segnato dall’odio e dal rancore.
Caronte, intanto, mi fissava in silenzio.
Quegli occhi, quelle pozze di lava bollente, parevano ora tornare a un lontano passato, mentre una scintilla di calda umanità li attraversava incerta.
Terminato il mio canto lo osservai in silenzio.
“Sali, prima che cambi idea” fece quello cupo.
Sorrisi esultante.
Attraversammo lo Stige in silenzio.
Al posto di normali acque, nel fiume scorreva silenzioso sangue purpureo, sul fondo, mi parve di intravvedere teschi putrefatti, cadaveri annegati e anime in pena.
Giunti all’altra sponda, Caronte mi lasciò scendere.
“Con me ti è andata bene, giovane mortale, ma non credere di aver superato tutti gli ostacoli. Non hai ancora affrontato Cerbero, il custode degli Inferi, e di certo non ti sarà facile convincere il mio signore a farti portare in salvo la tua bella!”
Proseguii in silenzio il mio tragitto.
Attraversai lande grige e desolate, punteggiate qua e la da scheletrici alberelli inceneriti e smunti.
Superai deserti di ghiaccio e neve, tra il gelo di tempeste e venti urlanti.
Mi inoltrai in torrenti di lava incandescente, ribollenti di anime perdute e dimenticate dal mondo.
Giunsi infine alle porte dei Giardini degli Asfodeli, un ampio arco a tutto sesto mi bloccava la strada, sotto di lui, Cerbero mi fissava ringhiante.
Il custode degli Inferi era un’immenso mastino nero come la pece, alto oltre venti piedi, la pelliccia odorante di zolfo e ricoperta di sangue rappreso, le zanne snudate e gli occhi gialli iniettati di sangue che mi fissavano famelici.
Mentre viscida e insidiosa la paura mi attraversava le membra, presi la mia cetra, sicuro che ancora una volta il mio canto avrebbe placato quella creatura sputata dalle tenebre. 
Cerbero mi fissò incerto, accucciandosi docile mentre le mie dita percorrevano sicure il mio strumento a corda.
Cantai dunque per lui di banchetti fastosi, di gesta eroiche, di grandiose battaglie, di cacce al cinghiale.
La belva mi fissava come ipnotizzata, la lingua ciondoloni e uno sguardo di genuina curiosità negli occhi.
Quando ebbi finito, Cerbero si fece da parte, permettendomi di procedere oltre.
Giunsi dunque a due imponenti troni.
Subito, un’imminente sensazione di impotenza mi travolse, mentre inquadravo le tetre figure che ivi vi erano sedute.
Il primo trono era il più grande, composto da nere ossa arrugginite e pietre preziose, gemme incandescenti e teschi urlanti. Vi era seduto un giovane uomo, la carnagione era scura e ambrata, coperta da tatuaggi raffiguranti scene di morte e terrore. Lunghi capelli color inchiostro gli cadevano sulle spalle in una semplice coda di cavallo, dormiva col capo chinato, e addosso portava solo una lunga toga scura con ricamativisi i simboli del suo potere. Sul suo grembo l’Elmo di Hades, leggendario oggetto del potere, brillava scuro di luce nera, i crini purpurei che cadevano a terra infausti.
Il secondo trono era più piccolo, ricoperto da piante e arbusti e sopra vi era seduta una figura minuta e quasi fragile se confrontata con la regale imponenza del suo consorte. Persefone sedeva silenziosa sul grande trono, la sua carnagione era diafana eppure magnifica, color perla, gli occhi gentili color ambra mi scrutavano seri mentre gentili ciuffetti ramati con ciocchette nere le ricadevano sbarazzini sulla fronte.
La dea mi fissò curiosa, mentre sopraffatto dal suo potere chinai silenzioso il capo.
“Perché sei qui, mortale? Non sai forse che luogo funesto è questo? Torna alla luce del sole, finché sei in tempo. Mio marito dorme, vai che sei in tempo”
“Non vorrei sembrarvi scortese, bella Persefone dalle Bianche braccia, ma proprio non posso. Sono giunto fin qui, superando ostacoli non da poco, per riportare alla luce la mia amata, per lei, Euridice dagli occhi color smeraldo, e non posso quindi voltarmi indietro prima di averla presa con me”
Gli occhi della Regina degli Inferi si incupirono tristi: “Ora la tua amata appartiene all’Erebo. Consolati, corre felice nell’Elisio e mai più malattia, sofferenza o dolore la faranno piangere. Non puoi riportarla con te”
“Ma non sarebbe poi una trasgressione, in fondo, anche se tornasse al mondo dei vivi, prima o poi tornerebbe comunque qui da voi. Sarebbe solo un semplice prestito, no?”
Persefone sorrise divertita: “Sono piuttosto curiosa di sapere come hai fatto a superare Cerbero, sai, il nostro guardiano non è il tipo da far passare chiunque, come niente fosse”
Annuii, prendendo la mia fedele compagna.
La cetra, che anni prima mia madre aveva fatto costruire appositamente per me, brillava ora dorata nelle tenebre degli Inferi. Mi salverai ancora, fedele compagna?
Intonai quindi la melodia più dolce e soave che mai avessi composto. Narrai della storia mia e della mia amata, del mio diligente militare presso di lei, della gioia dell’essere ricambiato, del nostro matrimonio. Narrai del dolore della sua perdita e del mio viaggio nell’Erebo.
Persefone,magnifica e silenziosa, mi fissava con un sorriso malinconico sulle labbra. Quella musica, chissà come, pareva averle aperto uno squarcio di luce nel cuore: la riportava in un’epoca passata, ricordandole della sua notte di nozze col suo possente consorte. Parve improvvisamente vicina al mio dolore e sorridendo disse: “Ebbene, mi hai colpita. Mai qualcuno ha suonato per me una melodia tanto suadente, persino le anime che da secoli bruciano  straziate nel Tartaro hanno cessato i loro dolori per udirti. Ti concederò una possibilità, potrai condurre la tua amata alla luce, ma a una condizione: mai dovrai voltarti lungo il tragitto per giungere al mondo dei vivi. Se lo farai, concederò alla sua anima di ricongiungersi col suo corpo mortale”
Tornai quindi per il percorso che già avevo attraversato.
Quando infine mi misi a scalare il sentiero che dallo Stige conduceva alle porte dell’Ade, mi parve infine di sentire il rumore lieve dei passi della mia amata confondersi e allontanarsi.
Che mai stava succedendo?
Forse Hades si era risvegliato e si rifiutava di liberare la mia amata?
I passi si facevano sempre più lontani.
Il suo odore di vino e semi di garofano svaniva.
Un terrore sordo e cieco mi travolse l’animo. Che fare? Voltarmi? Persefone aveva detto che, se lo avessi fatto, l’avrei persa per sempre.
Prima che potessi rendermene conto mi girai. 
Il cuore mi si fermò mentre la sua figura sfocata veniva inghiottita dalle tenebre dietro di me. Urlai, tendendo la mano nel tentativo di raggiungerla.
Venni rigettato nella luce.
Quando tentai di ritornare nel mondo degli Inferi, le porte mi si chiusero in faccia.
Sprofondai  nel dolore più profondo e inconsolabile, consapevole che ormai non l’avrei più potuta rivedere.
Vagavo, senza meta, per boschi e per valli urlando al cielo il mio dolore.
Mentre un vuoto sempre più profondo mi si scavava dentro, capii che mai avrei più amato.

Note dell'Autrice:
Rieccomi qui con un'altra OS tutta per voi!
Come certamente avrete notato, questa volta ho cambiato un po' il genere di base.
Vista la mia formazione classica, non mi è stato troppo difficile ricordare il mito e trovare un modo per reinterpretarlo a modo mio, cercando tuttavia di non distorcere troppo la versione originale mantenendo comunque i tratti caratteristici che lo hanno reso tanto famoso.
Ho dovuto sgobbare parecchio, ma alla fine devo dirmi soddisfatta del lavoro magnificamente portato a termine, e spero che anche voi possiate apprezzare questa piccola perla della mia produzione qui sul sito.
Se vi piacciono le storie che riprendono gli antichi miti, allora vi consiglio caldamente una Long-Fiction da me appena terminata di leggere, e che a mio parere rappresenta un vero e proprio diamantino letterario, ossia "Ade e Persefone-Quel che resta delle Storie" di Sara Saliman, che vi linkerò qui sotto. E' davvero ben scritta e con uno stile da far invidia o Ovidio, per cui penso potrebbe piacervi non poco.

http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2984321
Ringrazio quindi i miei professori, sopratutto la proff.ssa Focches e la proff.ssa Coghi della mia scula superiore che con la loro dedizione hanno permesso il formarsi delle mie capacità letterarie e delle mie conoscienze in materia.
Non vi scorderò mai per il vostro lavoro!
Teoth

 
   
 
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