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Autore: IrethTulcakelume    31/03/2015    3 recensioni
E' vero, anche i principi piangono di fronte al mare. Ma se c'è qualcosa di più vero ancora, è che perfino il mare ha imparato a piangere di fronte a loro.
Un amore che varca i confini tra giusto e sbagliato. Due nemici, finora troppo ciechi per vedere quanto questo confine sia labile. Ma la verità fa male.
La verità uccide.
Genere: Angst, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Achille, Ettore, Patroclo
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: Triangolo
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PICCOLA PREMESSA: Questa storia è stata partorita da due menti malate geniali: la mia e quella di vitadiunalettrice, la mia fantastica beta che ringrazio con tutto il cuore per il suo supporto e i suoi consigli e correzioni e a cui dedico la long.

 

ANCHE I PRINCIPI PIANGONO DI FRONTE AL MARE

Capitolo I

 



Quella notte il cielo era sereno: la luna splendeva incontrastata, uniche sue rivali le stelle del firmamento, luminose come poche volte mi era capitato di vederle.
Sì, il cielo di Troia era sereno quella notte, ma non lo era il mio cuore. Sentivo come se un'ombra gravasse sul di esso, mi opprimesse, mi soffocasse.
Non sapevo bene per quale motivo, ma sentii il bisogno di uscire dalla mia tenda, forse la lieve brezza marina avrebbe donato un minimo di conforto al mio animo. Camminai lentamente attraverso l'accampamento Acheo: era strano come, dopo dieci anni, tutto fosse restato stranamente immobile e uguale a se stesso. Forse, l'unica cosa che era veramente cambiata in quei lunghi anni di guerra era il numero di uomini che non avrebbero mai fatto ritorno dalle loro famiglie, dai loro cari. Attraversando quel campo, che ormai era diventato la mia casa, pensai a quanto fosse ingiusto il Fato, a quante vittime le Moire avessero mietuto in quei dieci, lunghi, dannatissimi anni. Pensai che forse non ne valeva la pena, di rischiare la morte per un uomo che non portava rispetto a chi combatteva per lui le sue guerre, un uomo che aveva osato disonorarmi. In quella notte calma, però, i pensieri di rabbia erano lontani, relegati nei meandri della mia mente, come se avessero perso importanza. Ero divenuto insensibile a tutti i morti che stavo causando con la mia assenza prolungata dalla battaglia, forse il mio era davvero un cuore di ferro, come spesso mi ripeteva Patroclo in quei giorni di triste lutto per i miei compagni. Provavo un grandissimo affetto verso di lui, ma nemmeno le sue suppliche riuscivano smuovermi. Strano, addirittura ironico, come in quella strana notte di luna piena io non riuscissi a provare alcuna emozione. Solo un grande vuoto. Lasciato da cosa, non riuscivo a capirlo.
Continuai a camminare, dirigendomi verso la spiaggia, ad accompagnare il mio incedere lento gli unici suoni dei miei sandali di cuoio sulla sabbia fine, della lieve brezza notturna tra i miei capelli e del mare, con il suo andare avanti e indietro continuo, infinito. Mi ritrovavo spesso a invidiare il mare, sempre così costante, instancabile, non come me, che in quegli strani giorni di massacri non sapevo cosa fosse giusto e cosa non lo fosse.
Passeggiando lungo la riva, vidi in lontananza un'ombra, più una sagoma che una presenza ben definita. Era lontana, eppure riuscii a distinguere qualcosa di quella figura: era un uomo, alto, portava un lungo mantello che gli copriva anche il capo. Si stagliava, in piedi, di fronte a quel mare a me tanto caro, più simile a una statua che ad una persona in carne e ossa. Non rallentai né accelerai il passo: semplicemente, impassibile, proseguii il mio cammino. Mano a mano che mi avvicinavo, riuscivo a distinguere sempre maggiori dettagli: il profilo asciutto si intravedeva dietro al mantello, le braccia incrociate sul petto, qualche riccio, sfuggito al cappuccio, sbucava dalla stoffa spessa che indossava. Non mi sembrava che somigliasse a nessuno dei miei compagni, eppure mi pareva stranamente familiare.
Ormai l'avevo quasi raggiunto, pochi passi e avrei potuto sfiorarlo con le dita; potevo distinguere abbastanza chiaramente i suoi lineamenti. Ero ormai sicuro che non fosse un Acheo, ma la cosa non mi preoccupava minimamente. Riuscivo a sentire il suo respiro sincronizzato con la risacca del mare che, probabilmente, osservava da una vita.
Quando ero ormai a un paio di spanne di distanza da lui, l'uomo scrollò lievemente le spalle.
- È insolito per un principe Acheo passeggiare sulla spiaggia a notte fonda. Mi chiedo cosa ti porti qui.
Mi irrigidii di scatto, scosso da quell'affermazione.
- Come puoi sapere chi sono, Troiano?
Quello fece un sorriso beffardo, che nascondeva la profonda amarezza che ammantava le sue parole. - So riconoscere il passo del guerriero che terrorizza i miei uomini già solo con il proprio nome.
- I tuoi uomini? - Quindi quell'uomo era un comandante, ma avevo come l'impressione che non fosse un semplice generale... il modo di parlare, la posa sicura, erano segno di un qualcosa che andava ben oltre la mera istruzione militare.
- Sì, Achille, i miei uomini. Suppongo che si dica così quando si è al comando di una città.
Improvvisamente, tutto fu più chiaro. Un nome mi balenò davanti agli occhi; non ero stato capace di riconoscerlo solo perché abituato a vederlo con indosso una pesante armatura di bronzo, e non un semplice mantello. Ettore.
Stranamente, non sentii la minima ostilità verso il  comandante dei miei nemici. Forse perché mi ero reso conto, da ormai troppo tempo, che tra amici e nemici non c'era poi grande differenza. Solo una bandiera, un nome, un padre differenti, null'altro. Possibile che queste differenze così ridicole potessero provocare la morte di così tante persone? La risposta, seppur terrificante, la urlavano le troppe pire funebri erette in quei maledetti anni di battaglie senza senso di fronte all'immensità e alla crudeltà del Fato.
Restammo silenti per qualche istante, un lasso di tempo breve, eppure eterno in quella strana notte in cui le stelle risplendevano luminose.
- Sarà pur strano per un principe Acheo camminare lungo spiaggia a notte fonda, ma non vedo perché non dovrebbe esserlo per uno Troiano.
Ettore scosse il capo, una smorfia di disappunto a increspargli il viso. - Tu vuoi sapere troppe cose.
- Lo stesso può dirsi di te - gli risposi impassibile, una nota di sarcasmo nella voce.
- Su questo hai ragione. Io voglio sapere troppe cose... me l'hanno spesso rimproverato. - Ancora una volta, sul suo viso si dipinse quello strano sorriso. Sembrava voler farsi beffe degli altri, di sé, del Fato stesso, eppure percepivo un qualcosa di più profondo dietro quella smorfia di finto divertimento: una sorta mi malinconia si celava all'interno di quel sorriso, così colmo di sottintesi. Senza neanche accorgermene, iniziai a scrutare le sue labbra, per scoprire il mistero che esse nascondevano: mi persi a osservare la curva che formavano, e scoprii una piccola cicatrice sul labbro superiore, probabilmente ricordo di vecchie battaglie. Mi resi anche conto che, sorridendo, aveva alzato più l’angolo sinistro della bocca di quello destro.
Poco dopo, Ettore smise di sorridere, assumendo un’espressione indecifrabile. Anche se erano stati pochi, effimeri secondi, a me erano sembrati durare un’eternità, e mi dissi che forse avrei potuto restare così per sempre: in piedi, di fronte al mare, io ed Ettore. Due nemici, io l’invasore, egli l’assediato. Eppure, in quella notte, niente di tutto ciò sembrava avere senso. Forse perché il buio impedisce di vedere chiaramente, o forse perché è proprio il buio a farci vedere dove la luce splende più intensamente.
Ettore si girò verso di me, guardandomi negli occhi, e io sostenni il suo sguardo: avrei detto che avesse le iridi grigio-azzurrine, come il mare sotto la luna piena, ma non potevo esserne certo.
Un refolo di vento più forte degli altri mi scompigliò i capelli, portandomeli davanti al viso. Infastidito, tentai di scostarli, ma prima che potessi farlo da solo Ettore allungò la mano sinistra verso di me, portandomeli dietro un orecchio e sfiorando involontariamente la mia fronte. Restò qualche secondo a contemplare le sue dita scorrere tra le mie ciocche, e io lo guardai stupito, non sapendo bene come comportarmi di fronte a quel gesto che non sapevo come interpretare.
Quando sollevò lo sguardo sul mio viso, scosse la testa e si voltò nuovamente verso il mare, che continuava il suo continuo, infinito viaggio, sempre uguale e allo stesso tempo ogni volta differente. Anch’io feci lo stesso, ma quando Ettore smise di scrutare i miei occhi mi sentii come svuotato. Era una strana sensazione: sentivo ancora la traccia dei suoi polpastrelli sulla mia pelle, quasi fosse impressa a fuoco su di me, ed era come se quello che ci eravamo scambiati non fosse stato un semplice sguardo. No, era stato molto di più: nei suoi occhi avevo visto, celata dietro una maschera di indifferenza, la paura per la sua gente, la richiesta di un aiuto che però non sarebbe arrivato, non da me, e lo sapeva. Temevo e al tempo stesso speravo che anch’egli avesse visto qualcosa di più di due semplici iridi blu, che avesse visto qualcosa del vero Achille: quello che aveva paura, quello che non sapeva cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato, cosa falso e cosa reale, l’Achille che cercavo in ogni modo di nascondere alla vista di chi stava intorno a me. Solo una persona era riuscita a vedere quella parte di me, anche se avevo sempre cercato di nascondergliela per non farlo cadere nell’abisso insieme a me: Patroclo, l’amico di una vita, l’unico che avesse mai prestato orecchio alle mie paure senza additarmi come un vile, l’unico con cui non era necessario che io dimostrassi di essere forte se non lo ero davvero. Eppure, adesso, speravo che Ettore avesse scorto almeno un piccolo frammento di tutto ciò, anche se questo desiderio mi sembrava del tutto irrazionale. Anche se non lo conoscevo a fondo, avevo come la sensazione di potermi fidare di lui. Continuavo a ripensare al suo viso, ai suoi occhi, al suo sorriso… alle sue labbra. Scossi la testa, come per scacciare quei pensieri: non potevo pensare questo del mio nemico giurato. Anche se ormai per me nemici e amici non avevano più alcuna importanza in quanto tali, non sarebbe mai stato possibile essere filos di Ettore.
- Forse è il caso che vada adesso.
L’uomo di fianco a me mi guardò confuso, forse addirittura dispiaciuto delle mie parole, ma non potevo restare lì: pensare a ciò che non poteva essere mi faceva male, e non volevo soffrire più di quanto già non facessi in quel momento.
Gli rivolsi un ultimo sguardo a mo’ di saluto e mi voltai, dirigendomi verso l’accampamento. Mentre camminavo, mi assalì la sensazione che ciò che era accaduto quella notte fosse sbagliato, come se avessi tradito la fiducia di qualcuno, ma non riuscii a pentirmene: era come sentire caldo e freddo allo stesso tempo, non mi era mai capitata una cosa del genere prima di quel momento. Istintivamente mi venne da sorridere, e in quel momento non riuscii a pensare alle morti, al massacro che sarebbe certamente avvenuto il giorno dopo – come ogni giorno. Riuscii solo a vedere, come impressa nella mia mente, la figura di Ettore e quel suo sorriso che mi aveva così tanto affascinato.
  
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