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Autore: rossella0806    01/04/2015    2 recensioni
Philippe Soave è uno psicologo infantile che lavora presso il "Centre Arcenciel" di Versailles, una sorta di scuola che ospita bambini e ragazzi disagiati, a causa di dinamiche famigliari non proprio semplici.
Attraverso il suo sguardo appassionato, scopriremo la realtà personale dei piccoli e grandi ospiti, ognuno dei quali troverà un modo per riscattarsi dalle ingiustizie della vita.
Ci sarà anche spazio per sorridere, pensare e amare!
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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“Il treno degli emigranti”

Non è grossa, non è pesante
La valigia dell'emigrante
C’è un po’ di terra del mio villaggio,
per non restar solo in viaggio …
un vestito, un pane, un frutto
e questo è tutto.
Ma il cuore no, non l’ho portato:
nella valigia non c’è entrato.
Troppa pena aveva a partire,
oltre il mare non vuole venire.
Lui resta, fedele come un cane,
nella terra che non mi dà pane:
un piccolo campo, proprio lassù …
Ma il treno corre: non si vede più


Gianni Rodari

 


Il monotono cigolare delle ruote del treno era molto simile al rumore delle lancette di un orologio per nulla silenzioso, un celere picchio indaffarato nel costruire il suo nuovo nido.
Philippe Soave era, a suo modo, indaffarato allo stesso modo del volatile sopra citato: stava infatti dividendo i disegni dei bambini dai temi dei ragazzi più grandi del "Centre Arcenciel" di Rue des Parisienne n°17, un anonimo edificio risalente agli anni Trenta, nella periferia più periferia di Versailles.
Per quanto potesse apparire semplice e infantile, l’uomo impiegava una certa dose di perizia nell’eseguire quel compito, strappandosi di tanto in tanto anche qualche sorriso dovuto alle buffe forme impresse sul foglio e agli strafalcioni grammaticali dei suoi alunni.
Quel giorno era mercoledì e, come il resto della settimana eccetto il giovedì che non andava all’ “Arcenciel”, Philippe si era alzato alle sette, si era recato alla stazione di Montigny, il paese dove abitava  a una quarantina di chilometri dal luogo di lavoro, si era seduto al solito tavolino del solito bar della stazione, aveva ordinato il solito succo di ACE, vi aveva inzuppato il solito biscotto a forma di otto e ricoperto di cioccolato, e poi era finalmente salito sul treno, direzione Versailles, dove i suoi bambini – come amava definirli lui stesso- lo stavano attendendo.
Philippe aveva trenta anni, e da due lavorava come psicologo infantile al “Centre Arcenciel”, dopo i primi tre trascorsi dalla laurea a impartire ripetizioni scolastiche e universitarie.
Era l'unico uomo in quella sorta di scuola dell’anima, e questo all'inizio gli dispiacque un po’, in quanto aveva un’idea più che precisa di cosa volesse dire avere a che fare ogni giorno con delle donne: Philippe, infatti, era il quarto figlio –primo e unico maschio- dopo tre femmine, di una famiglia in cui persino il cane e il criceto erano femmine, solo il gatto André teneva compagnia a lui e al padre.
Insomma, quando la direttrice dell’ ”Arcenciel” si era complimentata con lui per le brillanti prove scritte psicoattitudinali e fisiche sostenute, il tutto accreditato da un colloquio ineccepibile, lo aveva ironicamente deriso sul fatto che fosse il solo esponente dell’ormai superato sesso forte. Così, il primo giorno di lavoro, il giovane psicologo aveva avuto un attimo di panico, proprio per la certezza matematica di dover sopportare i pianti nervosi postumi alle puntuali crisi d’amore esistenziali delle colleghe; tuttavia, a questa sua nuova condizione, il povero malcapitato ci fece presto l'abitudine perché, fino ad allora, non si era verificato nulla del genere.
Stretto nel suo sedile, addossato al finestrino che non vedeva una goccia di acqua da mesi, Philippe, camicia rosa tenue con le maniche arrotolate fino ai gomiti e un paio di jeans sbiaditi dai troppi lavaggi, sorrise ancora una volta nel vedere i precari tentativi dei bambini a scrivere correttamente il titolo dell’esercizio grafico che aveva proposto loro quel pomeriggio.
"Stazione di Montigny" avvisò la solita quotidiana voce metallica dell'altoparlante, intromettendosi dal finestrino abbassato per metà.
Il giovane psicologo si riscosse dalla sua metodica operazione di mistaggio: racimolò lentamente i fogli, li ripose nella cartelletta rossa da cui li aveva tirati fuori, e mise il tutto nella vecchia ventiquattr'ore di pelle marrone abbandonata nel posto libero di fianco al suo, valigetta che usava ancora da quando era studente.
Si alzò dal sedile e, attraverso il vetro che rifletteva debolmente la luce del sole al tramonto, lanciò un'occhiata indagatrice verso l'orologio sospeso ad una parete della stazione: le sei e un quarto, constatò con un sorriso Philippe.
Anche per quel giorno aveva vinto la scommessa con Vivianne, la sua vicina di casa, che come lui prendeva la stessa coincidenza, ma un'ora dopo.
I soliti sette minuti di ritardo, pensò l'uomo, anche questa sera mi deve una birra!

 

Il “Centre Arcenciel” di Versailles non era propriamente un edificio adibito per accogliere i futuri membri della società francese, perfetti eredi di famiglie medio borghesi e ricche.
Gli ideali di uguaglianza, libertà e fratellanza trovavano però un equilibrio perfetto e un modo di esprimersi degno delle migliori intenzioni dei rivoluzionari, proprio all'interno della scuola, che accoglieva bambini e ragazzi dai sei ai quindici anni.
I piccoli ospiti che, a causa di situazioni famigliari a dir poco disastrate potevano alloggiare permanentemente o temporaneamente all'interno del complesso, provenivano dai più disparati Paesi: il Nordafrica in primis, ovvero dall’Algeria, dalla Tunisia e dal Marocco, ma anche dalle antiche colonie francesi, come l'Île de la Reunion, nell'Oceano Indiano, oppure dal Senegal e dalla Guinea.
Ad essere del tutto sinceri, tra i cento bambini e ragazzi che andavano e venivano dal centro, una trentina era discendente di Napoleone al mille per mille, nel senso che erano figli, nipoti e pronipoti di francesi DOC.
Philippe Soave, anche lui in effetti discendente del Bonaparte per le sue origini italiane, insieme alle sue cinque colleghe, si occupava dell'educazione di queste anime: capitava per nulla di rado che, oltre alle sedute terapeutiche, il giovane psicologo si dedicasse anche ad aiutare i bambini -piccoli e grandi- a fare i compiti assegnateli per il giorno dopo, sebbene a volte capitasse che quei dettati o quelle tabelline fossero vecchie già di un paio di giorni.
Fare mansioni extra, era una cosa che non gli dispiaceva affatto, trascurando con piacere gli straordinari di cui non  chiedeva mai il rimborso.
Philippe, infatti, si occupava principalmente della classe degli Orsetti lavatori, ovvero dei bambini di otto anni e, da sei mesi a quella parte, anche dei ragazzi di dodici, i quali però si erano categoricamente rifiutati di aver affibbiato un nome, per il rischio che questo fosse troppo simile a quello dei piccoli dell'altra sezione.
Così, semplicemente, Philippe li chiamava i "ragazzi di mezzo".

 

La TV era accesa sul canale principale: il volume era basso quel tanto che bastava da percepire le prime note di una canzone che lo psicologo -seduto al tavolo quadrangolare di vetro del salotto, e intento a confrontare i lavori di quel giorno con quelli della settimana passata- conosceva molto bene, perché era stata composta da un suo amico musicista per la pubblicità di una nota casa produttrice di automobili.
La storia di François veniva spesso raccontata da Philippe ai suoi ragazzi, per dimostrare che, oltre alla fortuna, in tutte le cose ci vuole anche tenacia, voglia di fare e bravura, il resto – in un modo o nell’altro- sarebbe venuto da sé.
Il suo amico, infatti, era stato preso per partecipare ad uno show di giovani talenti: dopo essersi qualificato terzo, era stato notato da una band dalla popolarità già navigata, e così la carriera di François aveva avuto una vera e propria svolta, tanto da essere scelto come secondo musicista del gruppo in questione.
I pensieri dello psicologo, i capelli neri arruffati dopo la doccia che aveva preceduto la frugale cena di pomodori, pane e insalata, furono interrotti dal suono acuto del campanello: alzò lo sguardo dal mare di fogli disposti metà a ventaglio e metà uno sotto l'altro sul momentaneo ripiano di lavoro, e abbozzò un sorriso.
Si alzò dalla sedia trascinandola leggermente e, la tuta blu indosso e delle pantofole grigie ai piedi nudi, Philippe andò ad aprire la porta di casa.
"Hai vinto, ma non ricominciare con una delle tue solite noiosissime e sempre uguali prediche!" lo salutò una giovane sui venticinque anni, che gli arrivava alle spalle, i capelli biondi naturali raccolti in una coda sgangherata, gli occhi verdi a mandorla, arrabbiati ma divertiti allo stesso tempo.
"Buonasera anche a te, Vivianne!" la punzecchiò Philippe.
"Io davvero non so come sia possibile! Quando lo prendo io, alle sette e zero otto precise entra in stazione! Quando lo prendi tu, appena un'ora prima, arriva in ritardo di sette minuti! Sempre sette minuti, dannazione! E poi, da quando mi sono informata che il macchinista è lo stesso, mi sale ancora di più il nervoso! Come è possibile, dimmi?!"
Lo psicologo la invitò ad entrare con un abbozzato gesto del capo e, precedendola di un paio di passi, la fece accomodare al tavolo su cui stava smistando i disegni nuovi da quelli vecchi.
"Lavoro?" domandò sbuffando, abbandonandosi in equilibrio precario sul gomito, il capo sorretto dalla mano chiusa a pugno.
"Sì” le rispose Philippe, alla ricerca del taccuino verde su cui prendeva appunti e scriveva le sue impressioni, sommerso, come la penna, da quel campo di fogli  “devo rendermi conto se la terapia sta facendo effetto! E poi, dopo, passerò a leggere i temi dei mezzani. Tu, invece? Come è andata in palestra?"
"Normale ... “ spiegò faticosamente la ragazza, giocherellando con il lembo di un disegno che era scappato all’ordine frettoloso che la mano di Philippe stava riproducendo.
“Si sono iscritte due nuove signore al corso di respirazione addominale: peccato che avrebbero dovuto prima dimagrire di una cinquantina di chili!"
"Immagino ... dovrebbero essere tutti anoressici come te, per andare d'accordo con il tuo ideale di persona sana!"
Vivianne storse ironicamente la bocca sottile, sbuffando con fare annoiato.
La ragazza lavorava da tre anni in una piccola palestra riabilitativa di Versailles, dopo essersi laureata in fisioterapia: le piaceva molto quello che faceva, ed era anche particolarmente brava e auto critica, tuttavia aveva una strana concezione dell’individuo che generalmente si definisce normale; se pesava infatti oltre i cinquantacinque chili -il suo peso per intenderci - beh, allora la smistava nella categoria Over, l'opposto dei Forme, alla quale lei apparteneva da tempo immemore.
"Ti devo ricordare il motivo per cui mi trovo qui?! Io sarò fissata con il corpo, ma tu, caro mio, se non ti comportassi come uno di quei poveri ragazzini di cui ti occupi, divertendoti a scommettere sull'orario del treno, non dovrei ogni maledetto mercoledì invitarti formalmente a bere una birra!"
Philippe sorrise divertito e, in un gesto di resa, ammise:
"Hai ragione! Ma cosa vuoi farci? Sono fatto così! E poi, non mi sembra che ti costi molta fatica! Dopotutto tuo fratello ha un birrificio, quindi non le devi nemmeno pagare!"
Vivianne si alzò indispettita dalla sedia di fronte a quella dello psicologo.
"Benissimo! Allora ti aspetto di là! La porta, per te, è sempre aperta!"
La ragazza uscì a passo di marcia in direzione del suo appartamento, lasciando Philippe a scuotere il capo, ancora una volta vincitore di quel battibecco settimanale.


NOTA DELL’AUTRICE:

Ciao a tutti! Spero che il primo capitolo vi sia piaciuto!
Questa storia rappresenta un esperimento che mi piacerebbe riuscisse: non ho ancora le idee chiare, quindi vi chiedo clemenza e pazienza!
Grazie a chi ha letto e grazie a chi vorrà lasciare un proprio commento!
A presto!

   
 
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