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Autore: pickingupwords    02/04/2015    3 recensioni
[bellarke; college!au]
Un ragazzo senza nome, ma di cui parlare tanto attraverso ritratti fatti di nascosto.
Dal testo: "C’è da dire che il destino opera in modo curioso, a volte. E che se non fosse stato per un taccuino dimenticato, probabilmente, Clarke e Bellamy non si sarebbero mai conosciuti."
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Portrait.
















Forse era il modo in cui muoveva le mani.
Forse era come si spostava i capelli dal viso.
Forse era come si sistemava gli occhiali quando doveva leggere.
Forse era il modo in cui scriveva, con la testa appena piegata a sinistra.
Forse era solo la luce che si incastrava tra i suoi lineamenti e lo rendeva puro, facendo risaltare la sua pelle scura.
O magari era il suo viso concentrato su un foglio, su un libro.
Forse, invece, erano i suoi occhi scuri. Le sarebbe piaciuto disegnare i suoi occhi dopo averli visti da vicino ed essersi resa conto di quanto fossero profondi in realtà, perché Clarke era sicura che lo fossero.
O, ancora, forse era il modo in cui incurvava le labbra mentre sorrideva.
Come gli cadevano i capelli ricci sul viso.
Quel viso contornato da lentiggini che lei vedeva anche da lontano, a cui lei dava così tanta importanza.
O forse era tutto insieme e nemmeno se ne rendeva conto, quando, distante qualche metro, quasi invisibile, la sua mano si muoveva su un foglio e catturava l’immagine di lui, senza errori o sbavature. Quel ragazzo di cui non sapeva il nome l’affascinava quanto la tormentava, lo desiderava e allo stesso tempo aveva paura di conoscerlo. Lo osservava senza entrare in contatto con lui. Aveva scoperto che seguiva il corso di politica nel suo stesso college, vedendolo per caso entrare nell’aula in cui si svolgevano le lezioni poche settimane prima, mentre lei si stava dirigendo al corso di arte.
Si trovò costretta a vederlo solo fuori, in giardino, o durante i pasti a mensa. Non aveva molti amici, quindi disegnarlo, volendo, era anche un modo per passare il tempo morto.
Non lo colorava mai, però.
Era convinta che per farlo avesse bisogno di vedere rasente le gradazioni di colore della sua pelle, del suo viso, delle sue lentiggini o dei suoi occhi. Era scorretto ritrarre un soggetto e completarlo in modo impreciso.
Avrebbe usato i colori sui suoi disegni quando e se l’avesse mai potuto vedere ad una distanza molto ravvicinata. Per ora si accontentava di carboncino, matita o penna.
Ogni tanto si soffermava per troppo sulle sue labbra, ben delineate, piene. Erano una delle parti che le piaceva disegnare di più, dopo le lentiggini.
Poi guardava il disegno finito e si chiedeva se stesse vivendo qualcosa che non sarebbe accaduto mai, o se non stesse vivendo affatto.
Quel ragazzo era così lontano, eppure così vicino, sarebbe bastata una piccola parola e magari avrebbe potuto vedere come si formavano le rughette sulla sua fronte quando era preoccupato, sentire il suo tono di voce, come erano posizionati esattamente quei puntini scuri sul suo viso.
E allo stesso tempo era terrorizzata, perché avrebbe potuto non instaurare nessun legame, perché avrebbe potuto conoscerlo solo per nome, perché non avrebbero creato nessuna connessione, perché in futuro sarebbe svanito e non avrebbe più voluto soffermarsi su di lui per un ritratto a matita.
Perché avrebbe potuto scoprire che alla fine, quegli occhi non erano niente di che, o che il gioco di ombre e luce che si formava sul suo viso non era poi nulla di speciale, che quelle labbra erano secche, consumate, che le sue mani non erano morbide come pensava e che la voce fosse troppo dura per un ragazzo di vent’anni.
Così restava in bilico, lo guardava e non si spingeva più in là.
Per quel momento si accontentava di conoscerlo attraverso quello che le sue mani producevano con una matita.
 
 
 
C’è da dire che il destino opera in modo curioso, a volte.
Questa è la premessa.
Il motivo di essa è ciò che segue.
 
 

Clarke Griffin stava –di nuovo- disegnando il ragazzo di cui non sapeva il nome, il quale si trovava dall’altra parte della biblioteca del college, leggendo un libro con concentrazione, gli occhi appena socchiusi, una mano fra i capelli e l’altra a girare pagina o a tirarsi su gli occhiali.
C’erano loro due e un altro piccolo gruppetto di studio, era solitamente orario di lezioni, ma l’insegnante della ragazza era in malattia da una settimana e lei si prendeva del tempo per rivedere i suoi disegni o farne di nuovi, come in quel momento.
Aveva i capelli legati, in modo da poter vedere il soggetto che stava ritraendo: stava facendo un leggero chiaroscuro, bevve un sorso di cappuccino, mentre lui sospirò; stava cercando di catturare la sua immagine come in una fotografia, prendendolo di profilo e facendo il più possibile attenzione anche ai minimi dettagli, non le era mai successo di volerlo rendere così perfettamente sulla carta, ma avendo tempo a disposizione si decise a provarci. Il problema restava sempre il fatto di non poterlo vedere da vicino e quindi il non riuscire a cogliere esattamente ogni sua sfaccettatura, il che la portava ad un ritratto approssimativo.
Provò a mettersi in una posizione per poterlo vedere con più luce, ma non cambiò molto. Si avvicinò di due tavoli, ma il risultato fu lo stesso.
Sbuffò fra sé e sé, senza accorgersi che lui la stava ormai guardando incuriosito.
Clarke alzò lo sguardo ed incontrò i suoi occhi.
Le si mozzò il fiato in gola.
Li aveva cercati per così tanto tempo ed era bastato un niente per stabilire un contatto, che durò meno di qualche secondo, poiché il ragazzo tornò ai suoi appunti e al suo libro scuotendo appena la testa.
Iniziarono a sudarle le mani, provò a calmarsi e disegnarlo ancora, senza successo.
Si sentì nuda, dopo quel breve, piccolo, insignificante sguardo. Era come se quel ragazzo fosse ciò che lei più bramasse al mondo e allo stesso tempo avesse paura di raggiungere, era come la sua Musa, seppur di sesso maschile. E vederlo reale, rendersi conto che fosse davvero lì, che avesse potuto guardarla, lo rese vero.
L’aveva sempre visto da lontano, senza farsi scoprire, perché aveva paura di realizzare il fatto che lui fosse lì, a un palmo della sua mano e che lei fosse terrorizzata per provare anche solo a parlargli.
Rendersi conto che avrebbe potuto stabilire un legame con lui, se avesse voluto, la fece vergognare di se stessa e della sua vigliaccheria.
Aveva bisogno di una boccata d’aria.
Si alzò e si diresse verso l’uscita.
Dimenticandosi sul tavolo il taccuino con i suoi disegni per la fretta.
 
 
I seguenti furono tre minuti e trentasei secondi terribili.
Il tempo di uscire dalla biblioteca, andare in giardino, aprire la borsa, rendersi conto di non avere il taccuino, camminare scocciata per averlo dimenticato, star per varcare di nuovo la soglia della biblioteca e bloccarsi all’improvviso.
Il cuore perse un battito.
Il ragazzo con gli occhiali sottili stava guardando il suo quaderno di disegni con interesse, sospetto, curiosità e leggero sconcerto allo stesso tempo.
Clarke lo guardò da lontano, com’era solita a fare.
Il suo libro di economia politica era sull’altro tavolo, lui si era allontanato e stava invadendo la sua privacy, vedendo tutti i suoi ritratti e altri disegni a cui Clarke si dedicava.
Non aveva idea sul da farsi.
Avrebbe potuto andar là, fare una scenata per violazione degli spazi personali oppure correre a gambe levate.
Si rese conto che dopo quest’avvenimento, non avrebbe nemmeno avuto un’occasione per conoscerlo o parlarci di sfuggita.
L’avrebbe presa come una pazza, una maniaca ossessionata, una stalker.
Mentre lei ammirava solo la sua bellezza e sentiva il bisogno di scriverla al meglio nel modo che lei conosceva. Di farla conoscere ad altri che poi avrebbero visto i suoi disegni.
Lui era il suo soggetto preferito.
Ma non solo perché fosse, effettivamente, bellissimo: c’era qualcosa in lui, qualcosa che non aveva visto in nessun’altro.
Avrebbe dovuto evitare di incontrarlo il più possibile da lì in poi, sarebbe stato imbarazzante a livelli inimmaginabili. I suoi futuri anni al college sarebbero stati un inferno e la sua vita rovinata.
Come i suoi disegni, che non potevano più nutrirsi del modello che più preferivano.
Avrebbe dovuto basarsi solo sulla sua memoria, solo sui dettagli che ricordava e che non era più sicura fossero davvero così, esistenti o frutto della sua fantasia inconscia.
Il respiro si era fatto irregolare e gli occhi si spalancarono quando si accorse che lui prese il taccuino, lo mise nella borsa, raccolse i suoi libri e si avviò verso l’uscita.
Clarke corse via.
 

Dopo due giorni, sette ore e un quaderno nuovo, qualcuno si sedette vicino a lei sotto un albero in giardino, non si voltò e resto concentrata sul colorare il disegno che aveva appena terminato.
“Te la cavi bene” era una voce calda, sicura.
Lei fece spallucce. “Grazie” sfumò del blu pastello.
“Questo è tuo”
Clarke alzò lo sguardo e lo vide. Una mano appena tesa verso di lei a renderle il taccuino.
Poté guardarlo davvero da vicino, accorgersi dei suoi lineamenti più invisibili, della precisa predisposizione delle lentiggini, del colore scuro degli occhi e del fatto che non si era sbagliata sulla loro profondità. Ammirò il modo in cui la luce cadeva sul suo viso, come sorrideva leggermente e le labbra che aveva sempre disegnato con tanta attenzione, ancora più belle a quella non-distanza. Riuscì finalmente a vedere esattamente la forma del naso, la parte che aveva sempre fatto più fatica a disegnare. Per svariati secondi non disse niente, ma restò ferma a studiarlo, a studiare i colori che aveva tanto desiderato di riuscire ad applicare, le sfumature del colore della sua pelle.
E le sembrò tutto sospeso.
Ci fu una folata di vento che la fece risvegliare e vergognare allo stesso tempo, realizzando quello a cui stava andando incontro.
Prese il taccuino senza dire una parola e fece per alzarsi, ma la mano del ragazzo la fermò.
Era morbida come aveva sempre immaginato. Lui la guardò e la fece risedere, senza dire una parola.
Lei notò che non indossava gli occhiali, probabilmente perché non stava studiando.
Continuò ad osservarlo con interesse finché non ne poté più.
“Scusa” disse imbarazzata, continuando a guardare con attenzione ogni sua caratteristica, per non scordarsi niente.
“Figurati” fece lui -e lei si tranquillizzò-, volgendo lo sguardo di fronte a sé, così che Clarke potesse studiare il suo profilo con calma. “Sei brava” la sua voce era una delle più belle che lei avesse mai sentito.
Non rispose.
“All’inizio non sapevo se venire da te, o tenermi il quaderno” ammise e tornò ad incrociare le sue iridi, di cui lei studiò ogni gradazione di colore. “Poi ho pensato che fosse una cosa tua e non sarebbe stato corretto tenerla”. Ancora silenzio. “Come ti chiami?”
“Clarke Griffin” rispose automaticamente, senza pensarci. A dire il vero non lo stava nemmeno ascoltando, era troppo concentrata sul suo aspetto ed emozionata di avere il bramato oggetto dei suoi desideri a pochi centimetri di distanza, dopo averlo osservato di nascosto per tanto tempo.
“Bellamy Blake”
Bellamy Blake. Ripeté dentro di sé. Quello fu l’ultimo tratto che lo rese una persona vera, allo stesso livello di Clarke e non solo un modello per ritratti.
Si dimenticò dell’imbarazzo, della paura di renderlo reale, perché lui era lì, di fronte a lei e questa era l’unica cosa che le importasse davvero. Era così eccitata di poterlo osservare da vicino che nulla aveva più importanza.
“Senti, Clarke…” aveva assunto un tono di voce serio e lei si riscosse. “Perché non mi hai mai colorato? Insomma, mi vedi in qualche modo in bianco e nero? E’ come se la mia aurea ti dicesse qualcosa? Io non sono un artista, quindi non so bene come funzionano queste cose, ma mi ha spaventato a morte. Mi vedi in qualche modo strano?” sembrava nervoso.
“E’ questo che ti preoccupa?” alzò un sopracciglio la ragazza, scettica, dimenticandosi di ciò che, invece, preoccupava lei.
Lui non capì. “Come, scusa?”
“Nel senso: hai trovato il taccuino di una che ti ha disegnato troppe volte per contarle e ti preme il fatto che non ti abbia colorato?” usò una punta di sarcasmo, rendersi conto di ciò la confuse. Pensava ci sarebbe stata una sfuriata, o comunque lui fosse inquietato. Non era assolutamente nelle sue aspettative una reazione del genere.
Bellamy la guardò attentamente. “Pensavi non ti vedessi?”
I suoi occhi si spalancarono e un silenzio totale l’avvolse. “Cosa?” fu lei a non capire questa volta.
“Credevi davvero non mi accorgessi di te?” scosse appena la testa divertito. “Notavo eccome che tu mi disegnavi” la faccia di Clarke era sconvolta. “Sono mesi che vai avanti così, non pretenderai mica che non me capaciti?”
“Io…” non riuscì a dire altro.
Lui rise e lei lo guardò, per poi mettersi a ridere a sua volta, per quella situazione imbarazzante, che ormai di imbarazzante aveva poco e niente. Era diventata divertente. E aveva una sapore del tutto diverso da quello che lei si aspettava.
Quando tornò il silenzio, lui si voltò ancora verso di lei. “Allora?”
“Non ti ho mai colorato perché non sapevo esattamente le gradazioni della tua carnagione, o dei tuoi occhi. Dovevo vederti da vicino per poterti colorare. Non avrebbe avuto senso completare un disegno in modo impreciso” rispose semplicemente e le rughe sulla fronte di lui si rilassarono.
La guardò, sinceramente colpito, mentre lei sorrideva a labbra strette.
“Beh” iniziò poi, catturando la sua attenzione. “Dato che ormai ti ho scoperta” lei rise. “Che ne dici di colorarmi? Posso anche posare, se ti è utile. O preferisci fissarmi da lontano?” disse ironico, facendola ridere.
Clarke annuì. “Sì, direi che posso colorarti”
Stava accadendo tutto naturalmente, senza che nessuno dei due avesse la precedenza sull’altro. Era stupita e allo stesso tempo compiaciuta, era semplice stare con quel ragazzo che aveva sempre visto e mai conosciuto. E non aveva deluso le sue aspettative, come nelle sue paure più grandi: era una persona normale, una persona che sarebbe ed era stata sempre raggiungibile per lei.
“Che ne dici di completarmi davanti ad un caffè?” domandò, lei lo osservò.
“Mi stai chiedendo di uscire?”
“Ti sto chiedendo di prendere un caffè”
“Solo uno?”
“Magari più avanti ne prendiamo altri” fece spallucce.
Pensò che potesse usare il caffè come pigmento per colorare il viso di Bellamy, o la terra sotto di loro per gli occhi e la corteccia dell’albero per i capelli. “Giusto” disse soltanto.
“Quindi? Ci stai?” si alzò e le porse la mano, che lei accettò, trovandosi poi a qualche centimetro di distanza da lui, che la guardava intensamente.
Non arretrò, aspettò che lui facesse il primo passo. “Non scordarti il taccuino, questa volta” sussurrò appena facendola sorridere.
Ed iniziarono a camminare.
 
 
C’è da dire che il destino opera in modo curioso, a volte.
E che se non fosse stato per un taccuino dimenticato, probabilmente, Clarke e Bellamy non si sarebbero mai conosciuti.





 





flowers's hall.
ringrazio la fantastica e amata als 
per il banner e una delle mie fav su twitter per l'idea. grazie di cuore a tutte e due.
  
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