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Ricorda la storia  |      
Autore: Angelika_Morgenstern    02/04/2015    6 recensioni
[Storico]
[Storico][Storico]Ricordo bene quella giornata di sole cocente a Ekaterinburg.
Soggiornavo lì assieme al mio ragazzo, Hans. Siamo tedeschi di Darmstadt, ci piace girare il mondo, a lui in particolar modo piace documentarsi sulla storia e sull’arte degli altri stati, anche se io non ho questo grande amore. Ma lo seguo più che volentieri.
Non amo la storia e non l’ho mai seguita o studiata, mi è sempre rimasta molto noiosa. Eppure nella storia affondano le nostre radici e potrebbe essere interessante scoprirle, se solo avessi la voglia di farlo.
Ciononostante trovai ben più che semplici radici.
Trovai l’inizio di tutto.
La storia partecipa al Dispetto Contest indetto sulla pagina facebook "Io scrivo su Efp".
Genere: Introspettivo, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note dell'autrice:
Come già scritto, questa fanfiction ha partecipato al Dispetto contest indetto sul gruppo fb "Io scrivo su Efp" ed è il primo contest al quale partecipavo. Quando la mia "compagna di sventure" ha tirato fuori i tre canoni che avrei dovuto rispettare, ho pensato a questa idea che mi frullava per il cranio già da qualche tempo. 
Devo fare delle precisazioni: mi sono trovata in difficoltà nello scegliere le varie voci perché tratta di personaggi realmente esistiti che non ho assolutamente ritoccato in quanto ad informazioni storiche sulle loro personalità, ad esempio. Le scene che Hewdig vive tramite i ricordi di Ol'ga sono esattamente quelle che sono realmente accadute, prese dal web dopo una ricerca lunga che ho condotto personalmente in quanto questo argomento storico mi interessa molto. Non amo massacri di questo genere e mi è sempre rimasto difficile mandare giù cose così, per questo me ne sono appassionata. Insomma, d'inventato c'è davvero poco, a parte la protagonista, il suo compagno ed i suoi percorsi.
Anche il periodo del ritrovamento è quello reale, il 1991.
Ho scritto la storia in due giorni, avendo già chiaro in testa cosa sarebbe accaduto, ed in effetti non è neanche lunghissima, ma spero mi perdoniate se dovesse risultare noiosa ^^'
La storia è stata corretta dopo il contest, grazie alle dritte dei giudici che mi hanno aiutata molto a migliorarla e a comprendere regole di cui non ero a conoscenza (lo ammetto). 
Spero di trovare critiche anche nelle recensioni, in futuro, dato che la storia era errata in molti punti (per sbaglio pubblicai la brutta, eliminando la bella dal pc. Così imparo a fare doppia copia su due pc.) ma non mi era stata fatta nemmeno mezza segnalazione. Le recensioni servono anche a migliorare, non sono il tipo che si offende se mi fanno notare degli errori, anzi.
Beh, detto ciò, buona lettura ^^

Have fun
- A.


 
 
Trovaci
 
Ricordo bene quella giornata di sole cocente a Ekaterinburg.
Soggiornavo lì assieme al mio ragazzo, Hans. Siamo tedeschi di Darmstadt, ci piace girare il mondo, a lui in particolar modo piace documentarsi sulla storia e sull’arte degli altri Stati e, anche se io non ho questo grande amore,lo seguo più che volentieri.
Non amo la storia e non l’ho mai studiata a fondo, mi è sempre parsa molto noiosa. Eppure nella storia affondano le nostre radici e potrebbe essere interessante scoprirle, se solo avessi la voglia di farlo.
Ciononostante trovai ben più che semplici radici.
Trovai l’inizio di tutto.
 
Era il 1991 e Hans mi propose di andare a visitare un posto a lui “particolarmente caro”. Acconsentii senza pormi problemi, al solito, e ci dirigemmo verso un fioraio, per poi proseguire verso un posto spoglio.
Non una casa, non un monumento, neanche una lapide.
Il nulla assoluto.
Fu per quel motivo che mi sembrò semplicemente assurdo trovare così tanti fiori.
Mazzi di fiori, corone, cuscini che recavano biglietti.
Ai Santi martiri imperiali.
E gente, tanta di quella gente che si chinava a terra per poggiare con delicatezza quelle piante, creando così un prato variopinto, per poi rialzarsi, fare il segno della croce ed andare via oppure restare a mani giunte e capo chino qualche secondo.
Hans era improvvisamente diventato un fervente religioso? Gli chiesi spiegazioni. “Si tratta di una storia complessa, per ora mi limito a lasciare il mio dono.” mi rispose.
Mi sembrò strano e lo vidi depositare quel mazzo di fiori bellissimi, sette diversi tipi di piante che aveva scelto lui stesso con cura, adocchiando quelle in ottimo stato. Le aveva anche pagate un occhio della testa ma non mi ero domandata per chi fossero. Mi fidavo ciecamente di lui.
“Dì una preghiera anche tu, Hidi. Sicuramente apprezzeranno.”
Preghiera? E a chi dovevo dedicarla?
Seguii il suo esempio, poggiando un ginocchio a terra e giunsi le mani.
“Hedwig.”
Non mi voltai. Solamente Hans mi conosceva in quel luogo così lontano da casa, sicuramente non era un richiamo rivolto a me.
“Hedwig!” la voce più forte e decisa.
Stavolta aprii gli occhi: una voce di giovane donna mi stava chiamando “Voltati, Hedwig, voltati.” sussurrò, suadente.
Un vento improvviso mi penetrò nelle ossa, gelandomi il sangue. I capelli si scompigliarono leggermente e portai una mano a trattenere il cappello sulla testa, mentre mi voltavo verso la voce alle mie spalle.
Sentii delle risate e mi guardai attorno.
Non c’erano bambini a giocare e nessuno mi stava guardando.
Tornai alle mie preghiere e chiusi gli occhi, riflettendo su ciò che avevo sentito più che su ciò che avrei dovuto dire.
E poi lo vidi.
Era nero, grosso con le zampe lunghe e stava fuggendo nella direzione contraria alla mia. Meno male che il mio compagno non l’aveva visto: lui soffriva di aracnofobia. Vedere a così pochi centimetri quel ragno sbucare da chissà dove, lo avrebbe mandato in piena crisi di panico.
Hans si alzò tranquillamente e mi tese la mano, sorridente “Andiamo a mangiare, vuoi?”.
 
La notte non era molto fredda a Ekaterinburg nonostante si trovasse addentrata nell'immenso territorio russo e riuscii ad addormentarmi senza battere i denti, come invece accadeva spesso a Darmstadt: nella nostra nuova casa i riscaldamenti avevano qualche problemino. Proprio durante l’ultimo inverno, avevano deciso di non funzionare, lasciandoci in balia della stufetta elettrica. Ricordo che il tepore del letto russo mi aveva fatta crollare in men che non si dica tra le confortevoli e calde braccia di Morfeo.
Eppure, dopo pochi minuti mi svegliai con la sensazione di avere qualcosa sul viso che mi sfiorava la tempia.
E poi sentii nuovamente quelle risate.
“Non è possibile.” pensai.
“Hedwig.”
La voce! Era la stessa del mattino precedente, ne ero certa.
Da dove veniva?
“Hedwig, vieni. Vieni da noi, vieni.”
Hans dormiva già della grossa e io mi alzai, ipnotizzata dalla voce, dirigendomi nel bagno.
Aprii la porta e mi affacciai ma non vidi nulla.
Non c’era nessuno, era tutto in ordine, la luce spenta e il rubinetto chiuso.
“Deve essere il sonno che gioca pessimi scherzi.” pensai.
Sbadigliai e tornai a letto, dove venni subito vinta dalla stanchezza e dal silenzio. Forse era 
solo  tutto un sogno.
 
“Il letto sta… tremando?”
Mi alzai di scatto, ritrovandomi sola nella mia stanza. Hans non era vicino a me e lo chiamai, inutilmente.
Poggiai i piedi sul pavimento ma  affondai in un freddo liquido fino alle caviglie.
“Acqua?” domandai, guardando in basso. Che cos’avevo addosso?
Sembrava un vestito di un tessuto leggero, dal taglio simile a quello di una camicia da notte, color avorio.
Non avevo mai avuto un indumento notturno così! Che stessi sognando?
Cercai di dirigermi verso il bagno: doveva esserci una perdita da qualche parte e quello era l’unico posto dove vi fossero dei rubinetti.
Ma il bagno non esisteva più.
C’era una porta: decisamente non era quella della mia stanza.
Improvvisamente sentii delle urla di giovani donne, suppliche che m'inchiodarono al mio posto, l’acqua ghiacciata che iniziava a dare fastidio alla circolazione, intorpidendomi gli arti che iniziavano a formicolare.
E poi la porta si spalancò, rivelando degli uomini.
Dei soldati…?
Aggrottai la fronte.
Chi siete?” domandai.
Quelli non risposero, gettandosi addosso a me, ridendo e dicendo cose sconnesse, parlando di principesse, zar e vendetta.
Mi bloccarono e cercai di liberarmi, senza successo. Cosa stava succedendo?
Li guardai: le loro facce si stavano decomponendo davanti ai miei occhi. I baffi scolorirono e i peli caddero uno ad uno sul mio corpo, la pelle diventò un liquido denso incolore che scivolò addosso ai loro teschi, i quali ancora ridevano di me, del mio stupore. 
Ridevano del mio terrore.
 
Urlai.
Urlai con tutto il fiato che avevo nei polmoni, svegliando Hans che trasalì sul letto “Hidi! Hidi, calmati, che succede?” .
La sua voce familiare mi fece tornare alla realtà..
Che terribile incubo! Ed era così reale!
“Io… sognavo?” domandai, scossa. Avevo le lacrime agli occhi e Hans si preoccupò, analizzando il mio sguardo coi suoi occhi verdi “Non hai mai fatto incubi nemmeno…”
“Effettivamente non sogno mai. Cose così terribili, poi!” mormorai, stupita. 
Raccontai l’incubo a Hans, che si mostrò curioso “Beh, un brutto sogno può capitare a tutti. Ma ora basta. Fuori c’è una giornata splendida. Sembra che le temperature siano più alte della media abituale, siamo capitati proprio bene, eh?”
Mi girai, notando una forma scura sul muro di fronte a me, immobile: un ragno.
Annuii senza pensarci troppo, ancora scossa dal sogno.
 
Forse eravamo capitati bene dal punto di vista climatico, ma per me quella che doveva essere l’ultima vacanza da fidanzata, si trasformò in un incubo.
Io e Hans ci eravamo conosciuti alle superiori ed eravamo stati vittime di un colpo di fulmine. Non ci eravamo lasciati più, avevamo fatto sempre tutto insieme e convivevamo ormai da tre anni.
Lui lavorava come guida turistica nei musei, io ero una giornalista attiva nel campo della politica.
Sono sempre stata una persona razionale, con i piedi ben radicati a terra e non ho mai creduto nel sovrannaturale, nelle favole e nei fantasmi. Ho sempre pensato che le persone dovessero farsi di qualche strana droga per arrivare a farneticare di case infestate e cose varie. Insomma, esisteva il vento, no?
Già, il vento.
Come quello che si era alzato il giorno prima, scompigliando i miei capelli.
Mentre passeggiavamo per Ekaterinburg, sentii nuovamente quelle risate.
Molto distinte, risate di ragazze che giocano insieme e mi sembrò di avvertire la voce di un maschietto.
Una voce acerba.
Mi voltai, cercando la fonte di quel suono e scivolai dalla presa di Hans, che stava scattando una fotografia.
E li vidi.
Pensai si trattasse di una manifestazione storica di cui non ero a conoscenza e rimasi ferma a fissarli, incantata dalla loro bellezza.
Lì, a circa venti metri da me c’era una famiglia felice che si stava godendo una gita all’aria aperta. La madre e il padre osservavano i figli, la donna seduta a terra mentre l uomo era in piedi ed entrambi dedicavano i loro sguardi all’unico figlio maschio, che sembrava voler partecipare ai giochi delle quattro sorelle, senza tuttavia unirsi, come se un divieto divino glielo impedisse.
Sentii nuovamente le risate composte da voci che si sposavano perfettamente con il quadro onirico che si era mostrato ai miei occhi. Indietreggiai e presi Hans per il polso. “Hansi, Hansi, guarda! C’è una manifestazione storica!”
“Dove?” domandò lui, guardandosi attorno e io glieli indicai con il dito “Davanti a me, guarda. Vedi quella famiglia?”
Lui guardò nella direzione indicata e poi mi piantò lo sguardo addosso “Hedwig, che stai dicendo?”.
“Ma dai, non scherzare! Guarda come sono belli.” insistetti.
Ed erano davvero belli. I loro abiti erano sullo stile dei primi del ‘900, i vestiti delle quattro ragazze erano bianchi, candidi come la neve e splendevano alla luce del sole, così tanto da abbagliare la vista.
Strinsi le palpebre, indicandoli ancora. “Hidi, credo che tu non stia bene.” disse Hans, ma io insistetti stupidamente. “Dai, Hans, basta giocare. Ci sono la madre, il padre e cinque figli.”.
“Cinque figli?” Hans sbottò a ridere “Ma allora mi stai facendo uno scherzo!”
Rimasi interdetta. Hans sembrava veramente sincero.
Abbassai lentamente la mano mentre mi voltai di nuovo a guardare la famiglia.
Tutti e sette i componenti mi stavano fissando con espressioni tristi e rassegnate.
Brividi di freddo si impossessarono violentemente delle mie gambe e della mia schiena e mi portai le mani sulle spalle per scaldarmi, nonostante il sole spaccasse le pietre. Credo che le mie pupille fossero diventate due spilli dal terrore. Guardai Hans e guardai ancora in direzione del gruppetto.
Erano spariti, lasciandomi in ricordo ben sette piccoli ragni morti ai miei piedi.
Feci buon viso a cattivo gioco e andammo a mangiare, dove riflettei sulla situazione. Cercai di capire perché Hans aveva reagito così.
“Sei stato bravo a capire che fosse uno scherzo.” dissi, tastando il terreno e con poca voglia di continuare a mandare giù l'ottima carne da poco servita.
Lui rise “Beh, i Romanov sono facili da riconoscere, poi lì sorgeva la Casa Ipet'ev, ci sono arrivato facilmente. Ma ero sicuro che tu odiassi la storia.”.
“Anch’io.” sospirai, pensierosa.
Hans non indagò, preso com’era dal suo panino con bratwurst.
A me, invece, era passata del tutto la fame.
 
Quando quella sera andammo a letto, sapevo che stavo per  andare incontro ad un altro incubo.
Mi addormentai con difficoltà e in effetti tutto mi si palesò distintamente.
Scesi da un treno, inzaccherandomi di fango le vesti. Avevo addosso una gonna lunga e nessuno mi aiutava a portare le valigie. A Tobol’sk non mi trattavano con tutta questa ostilità.
…Tobol’sk?
Cos’era Tobol’sk?
Venni urtata da un uomo abbigliato con gli stessi indumenti dei soldati dell’incubo precedente.
“Sbrigati.” ordinò secco, in una lingua a me sconosciuta ma che capii istintivamente.
Che lingua era?
Io e la mia famiglia – la mia famiglia? - venimmo trasportati fino ad una casa. Dall’esterno sembrava molto grande ma non si poteva vedere chiaramente la struttura del piano terra, poiché circondato da alte palizzate in legno.
Mentre ammiravo la costruzione mi venne ordinato di entrare.
“Ol’ga, andiamo.” mi esortò Tat’jana.
Un momento: chi diavolo è Tat’jana?
Come mi ha chiamata?
Scesi dall’auto, prendendo la valigia e sistemandomi il corpetto. Accidenti come pesava! Cucire i gioielli all’interno della fodera è stata una grande idea per salvaguardare i rimasugli delle nostre misere finanze, ma alquanto scomoda.
Cos’ho detto?
…cucire? Ma se non so nemmeno attaccare il bottone dei jeans!
E poi chi aveva mai posseduto gioielli?
Seguii il gruppo del quale faccio parte e mi resi conto di una cosa: ci sono anche quelli che vidi a Ekaterinburg!
Ci vengono mostrate delle stanze e ci dicono che alloggeremo qui.
Vedo che fanno uno sgambetto al maschio e la donna che dovrebbe essere sua madre si china a proteggerlo, urtando un tavolo col gomito “Alix, fa attenzione.” l’ammonisce l uomo biondo coi baffoni, presumibilmente il padre del piccolo.
Mio padre.
…mio padre?
Ma che diavolo sto dicendo?
La donna sospira “Se Aljosa si fosse fatto male, sarebbe stato peggio.”
Aljosa?
Mentre riflettei, una delle ragazze si voltò verso di me. Ha dei lineamenti esotici, gli occhi allungati, le labbra piccole e un ovale perfetto “Oliska, divideremo nuovamente la stanza, sei contenta?” domanda con un’espressione molto malinconica sul viso.
Tat’jana continua a fissarmi, aspettando una risposta ma improvvisamente tutto inizia a sbiadire e la figura di mia sorella – mia sorella?!?- acquista lineamenti maschili a me fin troppo conosciuti “Hidi? Hidi?”
Aprii gli occhi di scatto ed Hansi fece un balzo all’indietro “Sei sveglia, grazie al cielo! Hidi, come ti senti? Ho chiamato il dottore!”.
“Il dottore…?” domandai. Ero fin troppo sveglia, molto più di quanto lui pensasse.
Lui annuì. “Si, non… non ti svegliavi più. Mi sembrava non respirassi e mi ha preso il panico!”.
Hans mi abbracciò. Lui non era proprio il tipo da questi gesti, ma evidentemente si era spaventato molto. Accidenti, ma cos’era successo mentre dormivo?
Già, dormivo.
Chi erano quelle persone?
Perché le stavo sognando?
Perché mi ossessionavano?
Perché avevo appena visto un ragno zampettare giù per il lato del letto?
 
Il dottore aveva decretato che stavo bene, anche se sapevo di non essere mai stata malata. Eppure Hans non era tranquillo, e a ragione: facevo incubi, farneticavo e avevo smesso di respirare, diventando cianotica per poi tornare miracolosamente ai colori convenzionali.
Si era spaventato ma aveva creduto all’ipotesi del dottore, ovvero che il fatto di essere appena sveglio gli avesse giocato un brutto tiro, non rendendosi conto di quali fossero le mie reali condizioni.
Secondo lui stavo bene.
Secondo lui.
Secondo me non stavo affatto bene, ma evitai di dirlo a Hans, altrimenti chissà come avrebbe reagito!
Tuttavia cercai di andare avanti come nulla fosse, ma le cose si fecero sempre più complicate.
 
Continuammo le nostre visite e, durante una passeggiata, mi bloccai.
Lì, alla mia sinistra c’era la casa che avevo visto nel sogno, completa di palizzate che ostruivano la vista del piano terra. Non dissi nulla e istintivamente mi diressi verso quella direzione, ignorando Hans che mi chiamava da un luogo molto, molto lontano. Rimasi a fissare la casa, sembrava disabitata e invece io sapevo.
Sapevo cosa stesse succedendo all’interno, sapevo tutto.
“Edwig!” la voce di Hans mi colpì come un pugno, quasi tramortendomi “Insomma, mi stai spaventando? Che cosa ti prende, eh?”.
Io scossi il capo. “Non… niente, è che mi piaceva questo lato della… della piazza, si.” fu la mia risposta confusa.
Ma Hans apparve preoccupato e decise che era ora di rientrare, anche se era appena mezzogiorno.
Tornammo in hotel, dove mi mise a letto come si fa coi bambini piccoli “Hai dormito male nelle ultime notti, sicuramente sarai molto stanca.”.
…perché mi stava parlando una voce femminile?
I lineamenti di Hans trasfigurarono in quelli di una donna, una giovane donna che ben conoscevo.
“Non lo so, Tanya, forse hai ragione.” risposi, come se conoscessi quella ragazza dalla nascita.
Tat’jana mi sorrise con malinconia “Non abbatterti, dobbiamo essere forti. Vedrai che riusciremo a uscire da qui.”.
Le mie labbra screpolate si separarono quasi con dolore, le pellicine secche in rilievo erano molto fastidiose ma, francamente, il senso d’impotenza mi stava rendendo favorevole all’apatia più totale “Lo faremo da cadaveri, Tanya.”
“Non dire così! Non farti sentire da papà!”
Non risposi più, era inutile cercare di far ragionare Tat’jana. “Vuoi dell’acqua?” domandò, riferendosi alle mie labbra. Sorrisi rassegnata “Non riesci proprio a mettere da parte il tuo ruolo di governante neanche in questa situazione così disperata, vero?”.
Mia sorella mi guardò e notai che nei suoi occhi si mescolavano stupore e tristezza. Ero stata molto scortese, in quel periodo il mio carattere stava avendo una regressione.
Da piccola ero davvero irascibile e impulsiva, solo col crescere avevo imparato a darmi un freno, ma quella prigionia stava liberando tutti i miei istinti, rendendo vani gli sforzi dei miei genitori e dei tutori.
Chiusi gli occhi e sospirai profondamente, cercando di ignorare i movimenti del mio stomaco, che supplicava di ricevere un po’ di cibo. Avevo preso a mangiare sempre meno, mio padre non riusciva neanche a immaginare cosa ci sarebbe accaduto, ma io avevo delle sensazioni: avendo letto i giornali, mi ero resa conto che l’opinione pubblica nei nostri confronti era più che negativa. C’era anche chi inneggiava alla nostra morte, tra cui le persone importanti del nuovo governo, che avevano strappato i titoli nobiliari a mio padre.
Ero terrorizzata.
I miei genitori erano stati dipinti come demoni in terra, eppure con noi sono sempre stati buoni, ci hanno insegnato la carità e la modestia, ci hanno sempre detto di non comportarci come i nostri cugini, abbiamo sempre cercato di essere vicini al popolo, di conoscerli, di vestirci in maniera sobria.
Una volta Tanya aveva persino rimproverato una delle dame di compagnia della mamma, la Buxhoeveden, perché l’aveva chiamata Sua Altezza Imperiale in un’occasione formale!
Non ci meritiamo tutto questo, eppure sta accadendo proprio a noi.
Perché?
“Oliska?” Tanya si è accorta che mi sono nuovamente fissata a guardare un punto indefinito.
Sposto i miei occhi su di lei, inquadrando il suo sguardo preoccupato.
È sempre così in ansia per me, mi fa quasi sentire in colpa.
“Hidi, come ti senti?”
Hidi?
Perché c’è un uomo di fronte a me?
Chi è?
Che posto è questo?
Oh Dio, ma questa è la mia stanza!
Hans!
Mi alzo sul letto con gli occhi sbarrati, sudando “Hai dormito? Avevi caldo?”.
Annuisco, certa che lo spaventerei raccontandogli la realtà dei fatti “Si, scusami. Avevo molto caldo.”
“Stai meglio? Vogliamo uscire a cena?”.
Cercai di mostrare il migliore dei miei sorrisi, stiracchiandomi. D’ora in avanti avrei fatto bene a stare attenta a cosa mostrare. “Non è una cattiva idea, ho proprio voglia di uscire.”
Sembro nel pieno delle mie forze e scendo da letto, dirigendomi in bagno per cambiarmi, notando l’ormai onnipresente ragno che scorrazza vicino a me ogni volta che accade qualcosa d’inspiegabile.
Quando mi specchio, la vedo.
Il volto è diverso dal mio: occhi più infossati, labbra piccole, zigomi pronunciati. Sopracciglia dritte, espressione seria e malinconica.
Mi guardo esterrefatta: quella non sono io!
I capelli biondo rame non sono molto lunghi, ma appena mossi, gli occhi chiari.
Chi sono…?
“Oliska!” mi volto di scatto, osservando mia sorella Marija entrare nella stanza.
“Che fai qui?” domando. Lei è quella che è riuscita a mantenere più di tutte alcuni tratti del suo carattere, non avendo subito le molestie sulla nave Rus.
Ha avuto la fortuna di andare via con mamma e papà prima di noi, che abbiamo tardato a causa di una forte emorragia di Alekseij.
Cosa potevamo fare? Nostro fratello è malato, non poteva certo restare da solo ed io stavo passando un bruttissimo momento, perciò mamma ha pensato bene di non farmi affrontare il viaggio e di prendere Marija con sé.
Mia sorella mi rispose “Tanya mi ha detto di aggiustarle il corpetto che è stato lacerato sulla Rus. Ha paura di perdere qualche altro gioiello dopo i furti che ci sono stati in precedenza!”
“Già.” annuii tristemente e cercai di scacciare i ricordi di quel viaggio maledetto.
La osservai sorridere “Come mai sei così felice?” domandai invidiosa e lei scosse il capo “Stavo parlando con una guardia, mi ha detto di avere cinque figli che l’aspettano stasera a casa. Come noi, ci pensi? Cinque figli, che bellezza. Anch’io voglio sposarmi con un soldato russo, però voglio donargli molti più figli!”
Guardai mia sorella, disgustata.
Come poteva parlare così di quegli animali? Dopo quello che ci avevano fatto su quella dannata nave?
Lei non c’era, lei non capisce. “Mashka” iniziai, la rabbia che fluiva distintamente nei pugni chiusi “ti sconsiglio vivamente di intrattenere rapporti con quella gente.”
Lei mi guardò, stupita “Non… non sono tutti come quelli sulla nave. Quelle erano altre persone.”
“Non chiamarli persone.” ordinai, scandendo parola per parola “Non possono essere persone. Tu non sai, non capisci…”
“Cosa non capisco?”
Una voce maschile.
Mi voltai di scatto “Hans…”
“Cosa stai dicendo? Con chi stai parlando?”
Stavo per inventare una scusa ma, improvvisamente mi arrivò dell’acqua fredda in viso.
Guardai in basso: il rubinetto aveva appena ceduto ed era saltato via un pomello.
Hans sospirò, sconsolato “Fantastico. Vado a chiamare il tipo alla reception.”
Lo sentii distintamente scendere le scale e ne approfittai per vestirmi in fretta e furia, finché non ascoltai un rumore secco.
Mi affacciai nel bagno: tutti i rubinetti erano saltati.
Lavandino e vasca da bagno in primis “Oliska! Hai di nuovo lasciato i rubinetti aperti!” esclamò Tat’jana, correndo in bagno a chiuderli “Guarda, è di nuovo tutto allagato. Ti piace proprio vedermi sgobbare, eh?” domandò, cercando di sorridere, ma il mio sguardo perso spense tutti i suoi tentativi. “Oh, Oliska, ti prego… cerca di riprenderti. Mamma ha bisogno di te.”
“Mamma ha avuto sempre un rapporto migliore con te che con me, lo sai.” mormorai atona.
Era incredibile come nulla mi destasse dalla mia apatia. Il dottore aveva detto essere depressione e in effetti non potevo dargli torto: mi sentivo proprio depressa.
Decisi di uscire dalla stanza, lentamente, quasi senza battere le palpebre. Non potevo, non riuscivo a recuperare la mia vitalità. Eravamo morti che camminavano, lo sapevo e mi irritavano tutti quanti, Marija in particolare, lei che pensava ancora di sposarsi, di fare figli, di avere un futuro.
Quale futuro?
Imprigionandoci ci avevano private della nostra vita. Non volevano concederci un futuro, avevano deciso che noi saremmo tutti morti, era solo questione di tempo.
Sulla Rus ce l’avevano fatto capire bene: eravamo poco più che oggetti. Molestandoci avevano esternato tutto il loro disprezzo nei nostro confronti, il loro odio verso la nostra famiglia.
Ci avevano dimostrato che i tempi d’oro erano finiti, eravamo ormai fuori dalla nostra campana di vetro e nessuno ci avrebbe salvati, esattamente come accadde quella notte nonostante le nostre urla.
Cosa gli avevamo fatto di male?
Me lo chiedevo sempre, continuamente, anche mentre percorsi il corridoio.
Mi fermai improvvisamente, bloccata da un fantasma vestito di bianco che mi tagliò la strada.
Le sembianze femminili, il viso era lungo e smunto, smarrendo tutta la sua vitalità.
Anastasija.
Anche lei era morta dentro, come me. Me lo disse con uno sguardo molto eloquente che ci scambiamo.
“Shbivzik…” mormorai.
Significava monella ed era stato il suo soprannome da sempre. Anastasija era la più vivace e impertinente della famiglia. Faceva smorfie nelle foto, imitazioni continue, rideva ed era allegra.
Mi spezzava il cuore vederla così, passeggiare senza vita tra le stanze della Dom Ipat’ev. Era tutto così ingiusto, quella ragazzina aveva solo diciassette anni!
Era la minore tra noi sorelle, era sempre stata così piena di vita, talmente vivace da non riuscire a seguire le lezioni nonostante fosse intelligente.
E adesso…
Così silenziosa, così poco sé stessa.
Eravamo già tutte morte dentro, questa era la verità.
Anastasija sospirò, continuando a guardarmi e poi mi osservò passarle davanti per guadagnare l’uscita. Avevo bisogno di aria fresca, volevo respirare senza sentirmi pressata. Invano.
Una guardia mi sbarrò la strada “Dove va?”
“In giardino.” risposi, senza alzare lo sguardo. Non avrei mai degnato quell’essere reietto della mia attenzione, affatto. Domandare è lecito, rispondere è cortesia. Solo pura cortesia, formalità, noi che di formalità non ne avevamo mai usate e avevamo sempre vissuto al livello della nostra gente, educate a dormire su brandine e mettere in ordine le nostre stanze da sole, senza nessun servitore a riverirci.
Evidentemente i nostri modi non contavano niente.
Quello mi scrutò pochi secondi che a me parvero anni. Ero terrorizzata, non stava passando nessuno di lì in quel momento. E se mi avesse molestata di nuovo?
Sobbalzai quando si mosse di lato per farmi passare e ringraziai velocemente, testa bassa e collo rigido, non riuscivo proprio a stare tranquilla.
Come potevo quando sapevo cosa ci attendeva?
Eppure mettere il naso fuori di casa, anzi, fuori dalla prigione, fu quasi terapeutico.
Inspirai forte la frizzante aria del tramonto e mi verso il triste giardino recintato, passeggiando a braccia conserte, nel tentativo di proteggere il mio corpo da un destino che avevo più volte immaginato.
Troppo presto, troppo sola, troppo rischioso.
Arrivai in un punto dove si vedeva bene il cielo e calpestai le aiuole, sedendo incurante del tessuto bianco del mio vestito, che si sarebbe sicuramente sporcato del verde dell’erba e di terra.
Non credevo che sarei sopravvissuta ancora a lungo, perciò che importava degli abiti? Che si sporcassero tutti.
Inspirai ancora e rovesciai il capo indietro, tuffandomi con lo sguardo nell’azzurro del cielo, invidiando gli uccelli che planavano docilmente, liberi di andare ovunque volessero, mentre noi eravamo qui, prigionieri di quel popolo che avevamo tanto amato e rispettato.
“Hidi!”
Di nuovo quella voce maschile.
“Hidi! Hidi, ecco dov’eri!”
Mi voltai e vidi Hans esterrefatto, preoccupato. “Sono rientrato e… non c’eri. Perché sei venuta qui?”
Ansimava. Doveva avermi cercato a lungo.
Ma dov’ero?
Ero nella stessa piazza dove avevo visto giocare la famiglia Romanov.
Rimasi seduta a riflettere. Ormai non ero più molto sconvolta dagli avvenimenti che si susseguivano nella mia testa, era tutto così reale…
“Mi devi delle spiegazioni.” insistette lui.
Lo fissai e si spaventò “Hidi, cos’hai? Non sembri tu…”.
“Hans, devo raccontarti delle cose… io vedo cose che non conosco.”.
“Che dici?”. Il viso del mio compagno stava diventando una maschera indecifrabile, così presi coraggio. “Io vivo ricordi di una vita che non mi appartiene… e non so perché.”
“Hidi, forse stai facendo tanti sogni… magari hai visto qualche film storico?”.
In quel momento capii che lui non mi avrebbe creduto.
Annuii “Già, sì. Deve essere così.”
 
Mia sorella mi stava svegliando “Oliska, Oliska!”
Aprii gli occhi “Dobbiamo andare. Stiamo fuggendo.”
“Dove?” domandai, gli occhi ancora gonfi di sonno e la bocca impastata “Non lo so, ma papà ha detto che dobbiamo fuggire. Abbiamo pochi minuti per vestirci e preparare le valige.” rispose lei, rovistando tra i nostri pochi averi.
Avevo una pessima sensazione ma l'attribuii al fatto che mi fossi appena svegliata. Magari ero solo intontita dal sonno.
Guardai alla mia sinistra: Hans stava dormendo della grossa “Presto!” sussurrò Tat’jana.
Mi alzai e aprii il moderno armadio dell’hotel, trovandovi al suo interno qualche vestito bianco pieno di merletti candidi. Afferrai una piccola valigia e la misi sul letto, gettandovi dentro gli abiti, tranne uno, che indossai.
Non persi neanche tempo a pettinarmi. Nostra madre aprì la porta, chiedendoci a che punto fossimo, per poi scomparire senza attendere risposta.
Pronte.
Uscimmo con le nostre valige, incontrando nel corridoio nostra madre, la sua dama di compagnia Anna Demidova, nostro padre che teneva in braccio Aljosa. Dietro di loro Anastasija e Marija, il cuoco ed un inserviente. Ci dirigemmo tutti nella stessa direzione, indirizzati da quel maledetto Jurovskij.
Odio quell’uomo, è un viscido, un ragno che tende trappole ovunque. Mio padre si fida totalmente di lui, io no. È lui che comanda qui, che ci ha vietato tante cose e ha stretto la sorveglianza, anche se, devo ammettere che con il suo arrivo i furti sono stati debellati.
Ma non era questo il punto: siamo prigionieri, carcerati, morti che camminano.
Ed ebbi l’impressione che quella fosse la nostra ultima passeggiata.
Guardai il corridoio dell’hotel per poi gettare l’ultimo sguardo verso Hans, che giaceva profondamente addormentato.
Non avevo idea di cosa mi stesse succedendo, avevo solo capito che questa cosa mi stava portando in un posto a me ignoto.
“Andiamo, Ol’ga!” mi chiama mio padre, lo Zar Nicolaj II di Russia.
L’ex Zar, dovrei dire. Ormai siamo stati deposti e a un passo dalla morte, ne sono certa.
Gettai uno sguardo ad Hans, che dormiva nella stanza alla mia sinistra, e poi alla mia destra, dove Tat’jana mi stava fissando, interrogativa.
Seguii la mia famiglia, i Romanov, il mio passato, lasciando il mio presente e futuro dormire in una dimensione reale, concreta ma che, in quel momento mi fu impossibile vivere nel pieno della mia consapevolezza.
Scendemmo tutti le scale lentamente, mia madre traballante a causa della sua sciatica e mio padre che in difficoltà per via di Aljosa.
Mi guardai indietro, ammirando la modernità dell’hotel dove Hans stava dormendo. Che ore saranno state?
In men che non si dica, mi ritrovai fuori dalla struttura e continuai a procedere con tutti i miei parenti per le strade di Ekaterinburg.
Alcuni si domandarono il perché di tutta questa fretta, qualcuno cercò di formulare delle ipotesi, altri fecero spallucce. Semplicemente dovevamo farlo, così aveva ordinato Jurovskij, che ci intimò di fare silenzio.
Continuammo a camminare e iniziò a piovere, una pioggia leggera ma pungente che s'infilò nel colletto della mia elegante giacca, provocandomi veri brividi di freddo.
Mi guardo addosso: ho le mie sembianze e i miei vestiti moderni.
Perché allora Tat’jana si volta verso di me, sorride e mi dice “Siamo quasi arrivati.”?
Non capisco. Tutto ciò sta diventando davvero assurdo.
Era già assurdo così, ora, poi, con tutte queste realtà che si sovrappongono...!
Credetti di soffrire di allucinazioni, e mi dissi che, quando sarei tornata a Darmstadt, sarei andata sicuramente dal medico per farmi prescrivere una bella visita neurologica. Forse era stato il viaggio lungo, l’aereo, la noia di stare chiusa nella fosliera… doveva esserci una spiegazione scientifica in tutto ciò!
Nel frattempo arrivammo nella piazza dove osservai la famiglia giocare la prima volta.
Mi guardai attorno: ero solo io assieme a tutti loro.
Non capisco.
Di fronte a noi una porta si aprì ed entrammo in fila per due.
“Ma come, non c’è neppure una sedia? Non ci si può nemmeno sedere?” esclamò mia madre, l’ex Zarina.
“Provvedo subito.” rispose con calma Jurovskij, ordinando a un sottoposto di andare a prendere due sedie.
Mentre mia madre si accomodava e mio padre sistemava Aljosa sulla sedia, osservai le facce dei nostri carcerieri.
Non erano i soliti, erano diversi. Guardai Tat’jana, che ricambiò il mio sguardo, interrogativa.
Possibile che non aveva capito nulla?
Marija, invece appariva tesa. Molto probabilmente si era accorta che qualcosa non andava perché era quella che passava più tempo a importunare le guardie con domande sulle loro famiglie e sulle loro vite.
Non riconoscere nessuna faccia amica l’aveva fatta sbiancare.
Anastasija se ne stava in piedi a guardare i carcerieri, ma francamente non credo li stesse osservando sul serio. Chissà a cosa stava pensando.
“Bene, adesso bisogna che vi sistemiate per la foto.” annunciò Jurovskij “La famiglia imperiale deve apparire in prima fila, è importante che i loro volti si vedano chiaramente per la notifica. Dunque, voi mettetevi qui, esatto. Voialtri, in seconda fila. Prego, si inserisca qui.”
Continuava a dare ordini ma io non volli riceverne e mi sistemai di mia iniziativa dove ritenevo più opportuno, ovvero esternamente. Al mio fianco, Tat’jana, come al solito.
Quando fummo pronti, Jurovskij si schiarì la voce “Considerato il fatto che i vostri parenti continuano ad attaccare la nostra Russia sovietica, il Comitato esecutivo degli Urali ha deciso di giustiziarvi. Ho ricevuto l’ordine di eseguire la condanna seduta stante.”
…come?
Mio padre si voltò, guardandoci.
Nessuno ebbe una reazione, incastonati com’eravamo nel terrore.
Il fiato mi si mozzò in gola.
Mio padre tornò a guardare Jurovskij “Come? Come?” domandò più volte, non capendo.
Perché quell’uomo all’apparenza così gentile ora si trasformava nel più machiavellico dei regicidi?
“Il Comitato esecutivo degli Urali ha decretato la vostra condanna a morte che verrà eseguita seduta stante.” ripeté quell’essere spregevole più veloce, come se la cosa gli desse fastidio.
Qualcuno esclamò qualcosa, nel mentre erano entrati altri uomini che non conoscevamo.
Non erano le solite guardie ed erano armati di fucili con baionette, revolver e altre armi da fuoco, che alzarono, puntandocele contro.
Sobbalzai al rumore sordo che improvvisamente echeggiò nella stanza e guardai verso mio padre: era appena crollato a terra.
Jurovskij, quel traditore, quel verme, gli aveva appena sparato, la canna del suo revolver ancora fumante.
Tat’jana mi guardò e io cercai di farmi il segno della croce mentre mia sorella mi strinse forte la mano.
Unite per sempre, anche nella morte.
Tre file di uomini si ammassarono e iniziarono a partire molti, troppi colpi nella nostra direzione.
Mia madre cadde, Marija cominciò ad urlare assieme a Tat’jana mentre Anastasija in un primo momento non riuscì a muoversi, poi gridò anche lei.
Anch’io urlai, anche la dama di compagnia di mia madre urlò.
Durò tutto diversi minuti, credo si fermarono solamente perché scaricarono i caricatori.
I proiettili ci arrivarono addosso come delle cannonate, sentii uno strattone al polso: Tat’jana era caduta a terra.
Mi voltai verso di lei e vidi Marija e Anastasija in un angolo, le mani sopra le teste, l’una rannicchiata addosso all’altra.
Oh!
Alekseij?
Dov’era Alekseij?
Cercai di trovarlo con lo sguardo ma un proiettile mi colpì in pieno petto, sbalzandomi all’indietro.
Caddi riversa addosso al muro, il petto dolorante, il fiato pesante e un bruciore allo sterno pari a un incendio.
Perché?
I colpi cessarono, ci fu un breve attimo di silenzio.
Mi mossi appena e così fecero le mie sorelle.
Eravamo tutte incredibilmente salve. Forse avevamo qualche graffio, ma eravamo salve!
I gioielli cuciti nei nostri corpetti avevano fatto sì che i proiettili rimbalzassero altrove, senza ferirci.
Incredibile.
“Sono ancora vive!” esclamò Jurovskij.
Un gruppetto di uomini si avvicinò a Marija e Anastasija, che piangevano disperate, ancora accovacciate contro il muro.
Puntarono le loro armi alle teste delle mie sorelle “No!” urlai, invano.
Tre, quattro colpi e le mie sorelle tacquero, le braccia riverse lungo i corpi, il sangue che iniziava a scorrere per unirsi a quello di mio padre e di mia madre.
Anche la Frei’na era ancora viva e vidi qualcuno puntare una baionetta sul suo petto “Finiamoli così.”
La nostra povera tata si aggrappò con le mani alla lama, riuscendo a fermarla solo per un breve istante, urlando con tutto il fiato che aveva in gola.
Invano.
Qualcun altro decise che era meglio finirla col calcio del fucile e iniziarono a colpirla, sfondandole la testa.
Qualcuno strinse la mia mano: Tat’jana, che in realtà non mi aveva mai lasciata andare, mi guardò.
“Sei viva…” mormorai appena. Tremava e perdeva sangue dalla testa “Ancora per poco, Oliska.” mi rispose.
Io le strinsi ancor di più la mano “Ti voglio bene.” sussurrai, tenendogliela stretta.
Lei sorrise “Anch’io, sorella mia.” rispose.
Poi la vidi venire colpita da diverse baionette alla schiena, alla base del collo e alla testa.
Tat’jana, la mia migliore amica, la mia sorella minore, l’altra componente della coppia grande, come ci chiamavano tutti, la governante, era perita tra le mie mani, in tutti i sensi.
Forse per le troppe emozioni, crollai e mi presero per morta.
Improvvisamente Jurovskij sentì un lamento “Aljosa!”
“Lo Zarevic è ancora vivo.” disse un uomo mentre mio fratello mugolava in preda al dolore.
Il capo del plotone gli si avvicinò e gli puntò la pistola alla testa, finendolo come fosse un animale da macello.
“Ora non più. Forza, carichiamoli sul camion.”
Le pareti svanirono e io mi ritrovai a osservare quei vili caricare i corpi della famiglia imperiale e del loro seguito su un convoglio, mentre Jurovskij prendeva appunti.
Ma quel bosco era strano.
Sullo sfondo gli alberi fitti, sul pavimento le mattonelle della piazza. 
Dov’ero?
Nel passato o nel presente?
Li vidi caricare e andare via “Aspettate!” urlai, iniziando a corrergli dietro “Assassini!” urlai ancora.
Continuai a correre fino ad arrivare in un posto a me sconosciuto.
Degli uomini scesero, prendendo due corpi e bruciandoli sul posto.
Poi ripartirono, stavolta andando più lontano. Lottavo per seguirli ma mi mancava il fiato.
Nonostante mi sembrava di essere tornata a tutti gli effetti al presente, ogni tanto scorgevo da lontano le figure di Tat’jana e Ol’ga che mi facevano cenno di seguirle, sorridendomi.
“Hidi, vieni da noi. Trovaci.”
Trovaci?
Ormai si stava facendo l’alba e i primi raggi del sole mi carezzavano timidamente la nuca bagnata dalla leggera pioggerella della notte, poiché, nonostante tutte le visioni, ero stata tutto il tempo all’aperto sotto la pioggia.
Il camion si fermò e potei tirare il fiato.
Li vidi scendere e scaricare uno a uno tutti i corpi in una sorta di fossa naturale.
Svuotarono sulla massa di corpi delle boccette di qualcosa che puzzava terribilmente. Ma cos’era?
Dopodiché si allontanarono.
Li guardai andare via mentre comparvero di nuovo le figure delle due sorelle, che mi prendevano ambedue le mani. Il loro tocco era fatto di aria ghiacciata che mi penetrò le membra in un attimo.
Fluttuando nelle loro candide vesti, mi trascinarono sull’orlo di quella fossa dove adesso vi erano diversi alberi e mi indicarono la vegetazione con le mani “Siamo qui. Trovaci.”
Le guardai, esterrefatta.
Infilai le mani tra l’erba, spostandola leggermente, per poi farmi più audace.
“Non posso trovarvi… c’è della terra” dissi.
Loro sorrisero e il terreno sembrò implodere su sé stesso.
Una sfera di un colore giallastro risorse dal terreno e mi procurò un conato di vomito, che però trattenni come potei.
Con le mani presi a togliere la terra attorno alla cosa e la riportai alla luce del sole.
Era un teschio.
Mi voltai a guardarle. Tutte e due sorridevano visibilmente “Ciao, Hedwig.” mi salutò Tat’jana, indicando il cranio sfondato e poi sé stessa.
Avevo riportato alla luce la sua testa.
Persi i sensi.
 
Mi trovarono dei campeggiatori che facevano un’escursione nel bosco.
Venni subito ricoverata in ospedale per un principio di ipotermia e la questione delle ossa ritrovate fu subito attribuita a un caso. Probabilmente passeggiavo da quelle parti e mi ero imbattuta nei resti umani.
In seguito venne appurato che quelli erano i resti dei Romanov.
Ero appena stata protagonista di una storia di fantasmi e non lo sapevo.
Non me ne ero resa conto. Ol’ga Nicolaevna Romanova aveva preso possesso del mio corpo al fine di far ritrovare le spoglie sue e dei suoi parenti.
Mi aveva fatto conoscere la sua famiglia, la loro prigionia, allo scopo di portarmi da loro e rendergli l’effettiva giustizia di cui non avevano goduto in vita.
Perché?
Consultai una medium che mi disse che, probabilmente, il fatto di essere di Darmstadt come sua madre l’aveva richiamata dall'aldilà, ma sapevo che non era solamente questo.
Un altro mi ipnotizzò e vennero fuori ricordi di molte vite, tra le quali ricordi di Ol’ga Nicolaevna Romanova.
Secondo lui, ero stata lei in una delle mie vite passate. Perciò i loro fantasmi erano stati richiamati dalla mia presenza nel mio stesso luogo di morte.
Da quanto quegli spiriti giravano senza pace per quei posti?
Hans accettò la versione secondo la quale mi ero alzata al mattino presto per andare a fare una corsetta, avevo preso la pioggia ed ero in seguito svenuta dopo essermi persa. In fondo non conoscevo affatto quel posto.
Ma la catena di eventi inquietanti lo avevano sconvolto e preferì lasciare subito quella città, certo che, una volta in Germania, io sarei tornata la stessa di sempre.
E così fu.
Tornai me stessa.
Ci sposammo dopo un mese come accordato, non ci furono cambiamenti e avemmo tre bambine, che verso i tre anni mi ringraziarono molto per aver ritrovato i resti della loro vita passata.
Rimasi esterrefatta. Cosa potevano saperne loro?
Diversi anni dopo venne eretta una chiesa sul luogo del massacro dei Romanov.
Una bella chiesa e un bellissimo monumento alla famiglia, che venne anche elevata a santi e martiri per il contegno dimostrato durante la prigionia e la morte.
Non sono mai riuscita a dimenticare le visioni avute durante quei pochi giorni. Sono perseguitata da quella storia e ho voluto rappresentarla con il disegno che ho inserito in alto, un’immagine che ho dipinto io stessa.
Non ho potuto esimermi dal ritrarre un ragno.
Quei maledetti hanno attirato quelle povere giovani donne nella loro trappola mortale, nella loro tela dalla quale non sono più potute fuggire, uccise, smembrate, private della loro identità, della loro vita e del loro futuro.
Non potrò mai dimenticarlo.
 
   
 
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