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Autore: _wilia    04/04/2015    5 recensioni
Negli occhi di Jack ora scorreva odio puro; un odio senza precedenti. Era un soldato, un soldato importante; e allora perché quell'idiota, chiunque egli fosse, gli stava mentendo?
Si alzò di scatto e si avvicinò all'altro.
“Quando ti fanno una domanda significa che devi rispondere” sputò fuori acidamente, e, all'improvviso, il prigioniero posò il proprio sguardo su di lui.
Si guardarono negli occhi a lungo ed a Jack mancò un battito. Lui conosceva quell'uomo.
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“Verrà giustiziato davanti a sette testimoni della corte suprema e-”, iniziò a spiegare, ma fu interrotto, di nuovo, dal soldato.
“Che cosa? Una pena di morte? Per una presunta spia?” quasi urlò, mentre sentiva la sua fronte riscaldarsi, “Lei è fuori di testa!”
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“Mi dispiace”, sussurrò Jack mentre cercava di bloccare la porta. A rendere la situazione più difficile furono le gracili braccia dell'altro che si strinsero debolmente attorno alla sua vita.
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A Jack Brown, giovane soldato americano, viene chiesto di giustiziare un prigioniero, ormai divenuto la persona che ama.
Una corsa contro il tempo ha inizio, nel disperato tentativo di salvargli la vita.
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Settima classificata al contest "L'amore è uno stato d'animo" e vincitrice del premio speciale "Anxiety"
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Nick autore sul forum e su Efp: _wilia
Titolo: Runaway sweet freedom
Rating: Verde
Stato d'animo: Ansia
IntroduzioneNegli occhi di Jack ora scorreva odio puro; un odio senza precedenti. Era un soldato, un soldato importante; e allora perché quell'idiota, chiunque egli fosse, gli stava mentendo? 
Si alzò di scatto e si avvicinò all'altro.
“Quando ti fanno una domanda significa che devi rispondere” sputò fuori acidamente, e, all'improvviso, il prigioniero posò il proprio sguardo su di lui.
Si guardarono negli occhi a lungo ed a Jack mancò un battito. Lui conosceva quell'uomo.
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“Verrà giustiziato davanti a sette testimoni della corte suprema e-”, iniziò a spiegare, ma fu interrotto, di nuovo, dal soldato. 
“Che cosa? Una pena di morte? Per una presunta spia?” quasi urlò, mentre sentiva la sua fronte riscaldarsi, “Lei è fuori di testa!” 
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“Mi dispiace”, sussurrò Jack mentre cercava di bloccare la porta. A rendere la situazione più difficile furono le gracili braccia dell'altro che si strinsero debolmente attorno alla sua vita. 
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A Jack Brown, giovane soldato americano, viene chiesto di giustiziare un prigioniero, ormai divenuto la persona che ama. 
Una corsa contro il tempo ha inizio, nel disperato tentativo di salvargli la vita. 
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Storia partecipante al contest "L'amore è uno stato d'animo" indetto da Shinkari sul forum.

Licenza Creative Commons
Runaway Sweet Freedom di_wilia è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.

Runaway

sweet

freedom

 

Al di là della finestra la strada sterrata si sfaldava ad ogni soffio di vento. Sembrava deserta, quasi come se nessuno fosse lì in quel momento, ma non era questo il caso.

Gli uomini, ammesso e non concesso che si potesse ancora definirli tali, erano ben nascosti e molto attenti a non farsi vedere da nessuno. Erano in ogni dove, ma invisibili.

Ai lati delle strade, dietro le barriere che si erano costruiti artigianalmente per difendersi dai proiettili, ed avevano come unico complice la nebbia, che, cauta come mai prima d'allora, li stringeva in un freddo abbraccio di morte.

Jack non si trovava lì, però, nonostante sfidare la morte fosse l'unica cosa che desiderava : quando si è già morti dentro, continuare a vivere non è altro che trasportare un'inutile carcassa per tutto il tempo.

Jack non era sulla strada con il suo fucile in spalla, non più. Aveva perso la sua battaglia con le armi, aveva perso la sua battaglia contro gli altri uomini.

Non aveva mai avuto fiducia nelle altre persone, nonostante si fosse spesso ostinato a credere che ne valeva la pena di sperare che un giorno qualcuno sarebbe andato da lui e l'avrebbe liberato.

La preda che libera il cacciatore. Curioso, no?

Sì, curioso e soprattutto improbabile. Infatti, nulla del genere era successo al giovane soldato; nulla che gli avesse reso la vita più semplice.

E ora era fermo lì, davanti allo specchio nel piccolo bagno del suo ufficio, a contemplare il suo riflesso deturpato dagli anni e dalle sofferenze. Era un viso stanco, provato anche da quello che sarebbe dovuto succedere da lì a poche ore.

Quando si vuole essere qualcuno nella vita c'è un prezzo da pagare. Era diventato un soldato a soli diciannove anni e nel corso del tempo si era guadagnato molte promozioni.

Nel corso del tempo, Jack si era guadagnato un fiume d'odio che scorreva da ogni parte. Aveva ucciso persone, separato famiglie, distrutto vite che non sarebbero mai tornate indietro.

Jack Brown era stato uno spietato assassino fino a quando il cuore non aveva più retto, ed era stato in quel momento che la sorte gli aveva giocato un brutto scherzo.

Ingurgitò delle pillole che gli sarebbero servite a farlo calmare almeno un po', ma lui non credeva che una cosa del genere fosse possibile.

Le tempie gli pulsavano, aveva un mal di testa martellante che non gli passava ed un grande senso di colpa annidato alla bocca dello stomaco.

Guardò l'orologio da polso che indossava: aveva poco tempo. Doveva affrettarsi, essere svelto e attento a non farsi vedere e doveva agire, per la prima volta dopo anni, con sicurezza.

Spinse la porta che l'avrebbe condotto fuori dal suo ufficio, con le sue spille dei gradi in bella mostra sulla giacca verde, e la richiuse con forza.

Essa produsse un tonfo sordo e quello fu l'unico rumore ad echeggiare nel corridoio per molti minuti.

Si incamminò, con l'anima in spalle ed un peso sul cuore, mentre la sua mente cercava di volare via da lì.

Lontano da quelle sbarre.

 

L'inizio di tutto

-

 

Signor Brown, abbiamo un compito per Lei”, annunciò il comandante con aria di sfida, mentre si accingeva ad aprire il cassetto della sua scrivania e ad estrarvi alcuni documenti.

Jack rimase sull'attenti, senza spostare lo sguardo neppure di un millimetro e continuò a tenerlo fisso davanti a sé. C'erano delle regole comportamentali da rispettare sempre e comunque.

Abbiamo un prigioniero nell'ala est”, spiegò l'uomo, “che non parla da quando è stato portato qui”, continuò e, anche se Jack non poteva vederlo, fu sicuro che un ghigno poco rassicurante gli si fosse dipinto sul viso.

Se ne occuperà Lei, signor Brown?” gli chiese poi, e il ragazzo annuì, continuando a non guardare l'altro.

Benissimo, se non ha domande da pormi direi che abbiamo finito”, annunciò ancora l'uomo. “Qui c'è il suo fascicolo, che contiene il motivo della detenzione e che riporta i tentati interrogatori che purtroppo, però, non sono andati a buon fine”.

La voce viscida del comandante provocò brividi di disgusto che scossero con violenza il corpo del giovane soldato. Prese le carte dalla scrivania e si dileguò con un breve inchino.

Mi fido di Lei e mi auguro che possa tornare con delle risposte”.

 

-

 

La cella puzzava di muffa e le pareti erano i soli testimoni dello squallore presente in quel posto. Jack infilò la chiave nella serratura che cigolò come un vecchio cane che latra in attesa che la morte arrivi e ponga fine alle sue sofferenze.

Una volta dentro richiuse il cancello alle sue spalle e conservò le chiavi con attenzione.

Era buio pesto, ma un respiro lento e regolare gli ricordò che non era solo.

Accese la luce che rese il posto asettico; sembrava più una cella di un ospedale psichiatrico che di un carcere.

L'uomo sedeva sul pavimento. Le sue mani erano legate dietro la schiena e il suo sguardo era vacuo.

Jack si sedette lontano da lui, su un vecchio sgabello e strinse il fascicolo tra le mani.

Come ti chiami?” chiese al prigioniero, fissandolo e cercando di incutergli timore.

Come si aspettava, però, l'altro non rispose. Jack sospirò.

Ti conviene rispondermi perché non te lo chiederò ancora”, lo minacciò con voce ferma. Passarono alcuni secondi, durante i quali il prigioniero non aprì bocca.

Negli occhi di Jack ora scorreva odio puro; un odio senza precedenti. Era un soldato, un soldato importante; e allora perché quell'idiota, chiunque egli fosse, gli stava mentendo?

Si alzò di scatto e si avvicinò all'altro.

Quando ti fanno una domanda significa che devi rispondere” sputò fuori acidamente, e, all'improvviso, il prigioniero posò il proprio sguardo su di lui.

Si guardarono negli occhi a lungo ed a Jack mancò un battito. Lui conosceva quell'uomo.

Gli occhi verdi del prigioniero erano arrossati ed il suo viso era sporco. Il soldato non sapeva da quanto tempo l'altro si trovasse lì, nessuno gliel'aveva detto e non aveva ancora letto il fascicolo.

Aveva già visto la persona che gli stava davanti, ma non riusciva a ricordare dove. Quello ghignò, ed il labbro spaccato si arricciò in un sorriso di scherno.

Che cos'hai da ridere? Se non rispondi immediatamente alle mie domande, io sono autorizzato a-”

Erinnerst du wirklich nicht?”, lo interruppe l'interrogato. “Ich habe dich schon gesehen. Es war vor zwei Jahren... ich beschloss, dich nicht zu-”

Smettila immediatamente!” urlò Jack, e schiaffeggiò con violenza l'uomo, che cadde all'indietro. Aveva le mani ancora legate dietro la schiena e non ebbe la possibilità di muoversi.
“Devi parlare la mia lingua!” urlò, e l'altro coprì la sua voce con la propria. “Du spinnst! Du hast es vergessen!” rispose l'uomo, cercando di coprirsi il volto girandosi verso il pavimento dai colpi del soldato, che sembrava, ormai, impazzito.

Io sono un soldato e tu... devi portarmi rispetto”, sussurrava, mentre continuava ad infierire colpi al prigioniero.

Improvvisamente la porta si spalancò ed entrarono due guardie, che afferrarono Jack dalle braccia per allontanarlo dall'altro uomo.

Non ci serve da morto, signor Brown!”, esclamò uno dei due soldati, mentre cercava di tenerlo fermo. Lo trascinarono fuori mentre continuava a sbraitare e a dire che era un soldato e che quella era una gravissima mancanza di rispetto.

La porta si richiuse, ma non bastò a placare i lamenti dell'uomo rinchiuso nella cella.

Il fascicolo con le informazioni del prigioniero fu portato a Jack in ufficio quella stessa sera.

 

-

 

Era successo tutto nel maggio dell'anno precedente. Si trovavano nel medio oriente, in una zona dove, tre anni prima, era scoppiata la guerra più violenta e sanguinosa che quelle terre avessero mai avuto la sfortuna di conoscere.

Quella sera fu portato a Jack il fascicolo riguardante la vita del loro prigioniero di guerra, ed era stato grazie ad esso che il soldato aveva avuto l'opportunità di ricordare.

Poi era arrivato l'autunno, il cui vento aveva trasferito l'uomo di nome Kevin Ganter in un'altra cella. Era in attesa di essere interrogato. Parlava solo tedesco, ma Jack era sicuro che conoscesse almeno un po' l'inglese.

Quell'uomo, tempo prima, gli aveva salvato la vita, e lui l'aveva riempito di botte sin dal primo giorno.

Die Amerikaner sind Tiere”, aveva inciso sulle pareti della sua vecchia cella. Gli americani sono animali, questo significava.

Aveva trascorso mesi a passare davanti al posto in cui era rinchiuso, prima di avere la minima possibilità ed un po' di coraggio per andare a parlargli. Voleva chiedergli scusa, anche se riteneva che non ci fosse un reale motivo per farlo.

Era stato salvato da quello lì e sentiva il bisogno di guardarlo negli occhi. Attese ancora qualche giorno che trascorse tra una manganellata e l'altra regalata ai detenuti che lo disturbavano.

C'era gente di ogni tipo in quel piccolo Penitenziario sottratto all'esercito iracheno : stupratori, assassini, ma soprattutto spie.

E poi c'era Kevin Ganter, che ogni sera scriveva lettere che ammucchiava in un angolo della cella.

 

-

 

Si diresse a passo svelto nell'ala nord, in cui era appena stato trasferito Ganter. Incrociò un paio di guardie: una di loro era intenta a ricordare ad un detenuto che sua madre era una puttana e l'altra che faceva un cruciverba su un giornale vecchio almeno sei anni.

Vado dal tedesco. Dovrò farlo parlare”, aveva avvisato gli altri. “E' nell'ala nord, e gradirei che nessuno mi interrompesse come è successo in passato”.

Dopo aver messo in chiaro le cose, prese un bel respiro e si avviò.

Se solo avesse avuto idea di come sarebbe andata a finire quella sera, probabilmente non l'avrebbe fatto.

Camminò per alcuni minuti, prima di ritrovarsi davanti alla cella numero 406.

La sua vita sarebbe cambiata quello stesso giorno.

C'erano fogli dappertutto, su tutto il pavimento e anche sulla scrivania. Il prigioniero continuò a scarabocchiare con una matita su uno di essi, fingendo di non aver sentito entrare il soldato.

Ah, du bist wieder da”, sussurrò poi, continuando a dare le spalle a Jack. Quello non lo capì e continuò ad osservare i fogli.

Numeri, disegni e strane mappe erano tutto ciò che riempivano la carta ingiallita; dopo un po', Jack si avvicinò al prigioniero.

Smettila di scrivere”, gli intimò, “ascoltami per un momento”.

Kevin Ganter lo guardò e lasciò perdere i fogli. I capelli biondi avevano iniziato a crescere, sbarazzini, negli ultimi tempi.

All'inizio della detenzione li aveva strappati svariate volte:aveva aspettato che fossero abbastanza lunghi da poter essere acchiappati dalle mani e li aveva tirati via.

Mi dispiace”, gli sussurrò Jack. “Mi dispiace tanto, non avrei dovuto picchiarti”, continuò a dirgli, mentre lo sguardo dell'altro saettava da una parte all'altra della cella.

Era spaventato e non lo capiva. Erano di nuovo da soli.

Io mi ricordo di te”, gli disse poi Jack, e gli occhi dell'altro uomo si fermarono nei suoi, definitivamente.

Tu... ricordi?” gli chiese conferma, parlando un inglese zoppicante ed insicuro. “Die Mauer von...”

Sì, Ganter. Le antiche mura di protezione della città. Mi hai salvato la vita ed eravamo nemici”, gli disse velocemente, e fu sicuro che l'altro non lo capì perché abbassò lo sguardo e non diede alcun cenno di aver capito.

Qualcuno bussò alla porta della cella, così forte che entrambi sobbalzarono.

Jack si alzò in piedi, di scatto, e spolverò i suoi pantaloni, mentre l'altro si andò a sedere in un angolo, di fretta.

Fu allora che il cuore di Jack Brown mancò un battito per la seconda volta : era pieno di ferite sulle gambe e sui piedi. Era terrorizzato, dolorante e forse anche un po' malato. Se ne stava sempre in silenzio a scrivere, e lui proprio non riusciva ad immaginare cosa potesse aver fatto.

La porta si aprì pochi istanti dopo ed il comandante fece il suo ingresso all'interno della cella. “Bene bene, signor Brown, ho sentito che conversavate con questo animale”, sputò fuori acidamente, e, senza dare al soldato il tempo di parlare, si scagliò su Ganter.

Jack scattò subito. “Ma no, signor Marlon, lo lasci stare! Parlava in tedesco, capisce solo poche parole in inglese!”

Forse stava cercando solo di lavarsi la coscienza.

Forse stava solo cercando di coprire il suono dei calci con la sua voce, o forse a parlare non era solo la sua coscienza.

 

-

 

Per mesi, l'unica cosa che Jack Brown poté sapere furono le botte che Kevin Ganter aveva preso e la sua incredibile condanna : dieci anni perché era una presunta spia.

Un giorno decise di riceverlo nel suo ufficio, ed andò a dirlo al signor Marlon.

E' un matematico, un fisico forse... ho visto che scriveva degli appunti pieni di numeri e strane formule e credo che possano essere degli indizi utili”, gli spiegò, consegnandogli alcuni degli appunti dell'uomo.

Il comandante annuì con aria sospetta.

La avverto, Signor Brown: non ci saranno altre occasioni”.

 

-

Kevin Ganter entrò nel suo ufficio avvolto in una sudicia coperta marrone, piena di buchi, e Jack rabbrividì al pensiero che fossero stati procurati dai topi. Rivolse un sorriso a Dalia, la poliziotta che lo aveva accompagnato fino lì, andò a stringerle la mano e diede quattro mandate alla porta. Poi si rivolse a lui.

Come al solito il suo aspetto era malandato : era eccessivamente magro, sporco, e sembrava che i grandi occhi verdi volessero cadere dalle orbite.

Il suo onore stava per cadere in basso, ma decise che, almeno in quel momento, non gli interessava.

Ho bisogno che tu mi parli”, gli sussurrò, mentre gli posava le mani sulle spalle e gliele scuoteva lentamente. “Se non parliamo, tu...”

Ich kann deine Sprache nicht verstehen”, lo interruppe Ganter, negando con la testa. “Io... non capisco... tua lingua”, ripeté poi in inglese.

Jack si portò le mani ai capelli e si sedette sul pavimento.

Restò così, con la testa fra le mani. Aveva picchiato un uomo che neppure riusciva a capire quello che diceva. Come diavolo gli era saltato in mente?

L'essere soldato gli aveva dato chiaramente alla testa. Si era preso delle libertà che non avrebbe mai dovuto prendersi ed era cambiato così tanto che non si riconosceva nemmeno più.

Allontanò le mani dalla testa e si avvicinò al prigioniero, togliendogli la coperta di dosso. “Was machst du? Nein!” cercò di fermarlo quello, nel chiaro intento di togliergli la coperta dalle mani e di riprendersela.

Jack provò a bloccargli le braccia per farlo calmare, ma l'altro continuò a chiedergli, in tedesco, che cosa stesse facendo. Si agitava sempre di più e ad un tratto gli mancò il respiro.

Il soldato si spaventò e non seppe cosa fare, ma l'altro gli atterrò addosso un secondo dopo, iniziando a piangere e ad essere scosso da singhiozzi.

Jack rimase immobile, con quel ragazzo così magro da fargli credere che si sarebbe potuto spezzare da un momento all'altro che gli piangeva addosso.

Poi fece l'unica cosa che gli venne naturale : lo strinse in un abbraccio disperato ed iniziò a piangere anche lui.

Gli accarezzò i capelli biondi e lunghi cercando, in quel modo, di farlo calmare appena un po'. “E' tutta colpa mia...” , sussurrò Jack all'orecchio dell'altro, sperando che pronunciare quelle parole lo facesse sentire meglio, ma non successe.

Kevin Ganter pianse ancora più forte e la maglietta dell'altro, dopo pochi istanti, era irrimediabilmente inzuppata dalle sue lacrime.

Jack lo tirò su e si sedette, stringendolo sempre tra le braccia.

Non doveva andare così, mi dispiace così tanto”, sussurrò ancora una volta; l'ultima volta prima che il prigioniero decidesse che sarebbero andati entrambi all'inferno.

 

 

Passarono i mesi e Jack Brown iniziò a trascorrere sempre più tempo nella cella di Ganter, sotto lo sguardo inquisitore delle guardie del Penitenziario.

 

-

 

Jack Brown camminava nel lungo corridoio con una cartellina tra le mani. Tremava, e delle gocce di sudore gli colavano lungo le tempie : la fine era incredibilmente vicina.

Ora toccava a lui : la decisione spettava a lui, ed avrebbe desiderato ardentemente che non fosse così. Si diresse verso l'ufficio del comandante Marlon, con un peso sul cuore che non accennava neppure a diminuire.

Bussò alla porta e notò quanto le sue nocche fossero bianche, un po' come il resto del suo corpo. Si sentiva un fantasma, uno morto dentro da tempo, uno stupido cencio incapace di svolgere il suo lavoro.

Lo amava. Non si era mai sentito così coinvolto come quando era con Ganter, e la cosa assurda era che non si capivano : in quei lunghi mesi in cui Jack era sgattaiolato nella sua cella avevano imparato che capirsi dal punto di vista linguistico non era la più importante delle cose.

Lo amava di un amore malato, inconcepibile, illegale.

La porta si aprì ed il faccione quadrato del comandante apparve.

Bene bene, signor Brown, ho delle notizie da darvi. La sentenza è stata modificata, come ben sapete, perché il detenuto si rifiuta di collaborare con noi”, iniziò a dire, facendo strada all'altro all'interno del suo ufficio.

Prego, si sieda. Gradisce qualcosa da bere?” chiese poi al giovane soldato, che negò con il capo.

Non mi è concesso bere alcolici durante il mio turno, signore”, lo sfidò quasi.

Non gli importava più di ciò che quell'idiota pensava di lui : si era rovinato la vita con le sue stesse mani e si era anche preoccupato di scavarsi la tomba.

Il signor Marlon, definito da tutti poco amichevolmente “la mascella”, indurì i lineamenti.

Kevin Ganter non collabora con nessuno di noi. Non ha mai accettato di sottoporsi a nessun interrogatorio”, spiegò, pochi istanti prima di essere interrotto da Jack.

Signore, ma lui non parla l'inglese”, ribatté Jack.

Un nodo invisibile gli stava stringendo la gola e lo stomaco e per un momento credette di essere sul punto di mettersi a vomitare.

Il comandante lo fissò con sguardo inespressivo. “Non mi interrompa mai più se vuole tenersi stretto questo posto, signor Brown. Abbiamo proseguito ad indagare da soli, e la condanna può essere una e una sola”, gli spiegò. “Verrà giustiziato davanti a sette testimoni della corte suprema e-”, iniziò a spiegare, ma fu interrotto, di nuovo, dal soldato.

Che cosa? Una pena di morte? Per una presunta spia?” quasi urlò, mentre sentiva la sua fronte riscaldarsi, “Lei è fuori di testa!”

Il cuore gli si stava ammaccando. Ciò che provava era un misto di depressione, paura, ansia, rabbia.

Una rabbia che stava per fargli esplodere il torace e che lo avrebbe fatto tornare a casa, molto probabilmente, senza un soldo.

Una rabbia che, sapeva già, non sarebbe riuscita a salvare la vita dell'uomo che amava. Si sentì piccolo e inutile e non cercò neppure di trattenere le lacrime che, prepotenti, avevano iniziato a scorrere lungo le sue guance.

Lei è un folle!”, accusò ancora il comandante che gli si parò davanti con sguardo severo.

Aveva delle fiamme negli occhi, ma neanche lontanamente paragonabili all'odio che provava l'altro in quel momento.

Si levi quella divisa, signor Brown”, gli intimò poi il comandante.

Con piacere. Non ho più nessuna intenzione di-”

Anzi, mi perdoni l'interruzione”, sghignazzò l'uomo. “Dovrà prima fare un'ultima cosa per me”.

 

-

Camminò per alcuni metri cercando di mantenere un'aria composta. Una volta accertatosi che nessuno fosse nelle vicinanze iniziò a correre, mentre le sue scarpe echeggiarono rumorosamente per tutto il primo piano dell'istituto.

Non sapeva il motivo di quel silenzio, ma decise che non gli interessava.

Le pillole che aveva ingurgitato poco prima non stavano avendo effetto e lui si sentiva soffocare. Non c'era tempo, non c'era tempo, non c'era tempo.

Pena capitale. Fucilazione.

Non c'era tempo per pensare o per organizzare niente : tutto ciò che poteva fare era correre da lui e cercare di spiegargli la situazione.

Aveva le mani sudate e le ginocchia stavano per cedergli. Arrivò alla sua cella e vi si fiondò dentro.

Kevin si voltò verso di lui e i suoi occhi, ancora una volta, parlarono.

“Mi dispiace”, sussurrò Jack mentre cercava di bloccare la porta. A rendere la situazione più difficile furono le gracili braccia dell'altro che si strinsero debolmente attorno alla sua vita.

Il cuore del giovane soldato iniziò a battere con ferocia mentre anche gli occhi lo tradivano. Si girò verso Kevin e lo strinse più che poté, prima di allontanarlo. “Non abbiamo tempo”, gli intimò, “devo farti uscire di qui prima di oggi pomeriggio”.

Kevin lo fissò con sguardo stanco e rassegnato, poi si avvicinò a Jack, che ricambiò lo sguardo con aria distrutta. “Ti prego...”, sussurrò il soldato con voce spezzata.

Si avvicinarono e si strinsero come se quello fosse il loro ultimo abbraccio e Jack, in cuor suo, si ripeté che probabilmente sarebbe andata a finire proprio così.

L'avrebbe rivisto? Avrebbe avuto la possibilità di ascoltare ancora una volta il suono della sua voce? Sarebbe riuscito, forse, a salvargli la vita?

Il tempo stringeva e il suo respiro accelerava.

Il prigioniero avvicinò le labbra a quelle dell'altro ed entrambi si unirono in un bacio pieno di sentimenti. Jack sollevò l'altro e lambì le sue labbra con la propria lingua, chiedendo, tacitamente, un contatto più profondo.

Le loro lingue si scontrarono e Jack camminò con Kevin in braccio fino a quando la schiena di quest'ultimo urtò la parete fredda.

Kevin iniziò a sbottonare la giacca della divisa del suo amante con una fretta che l'altro non avrebbe mai attribuito ad una persona così tranquilla come lui.

I vestiti di entrambi scivolarono lentamente via ed i baci si fecero più esigenti.

“Ti amo”, sussurrò Jack con voce spezzata, prima di sdraiarsi sul pavimento gelido. Kevin sorrise.

Le mani di Jack si infilarono sotto la divisa del prigioniero e sfiorarono le sue cicatrici; lui le amò tutte. Lo baciò e lo venerò come fosse la cosa più importante del mondo : era bello, bello come la libertà, era bello come l'aria fresca di primavera che accarezza i campi. Era buono ed umile come un soldato a cui viene tolta la divisa.

La loro storia era simile, ma non sapevano che l'epilogo sarebbe stato diverso per entrambi.

Consumarono il loro grande amore all'interno di quella cella buia per metà, mentre fuori qualcuno allestiva il posto in cui avrebbe avuto luogo l'esecuzione di Kevin Ganter.

 

 

Erano ancora stesi sul pavimento quando l'allarme suonò. Si abbracciavano come a volersi aggrappare l'uno all'altro e si accarezzavano come a voler imprimere quanti più particolari possibili nella loro memoria.

Arrivò il triste momento di alzarsi e Jack si scostò dall'abbraccio dell'altro. Gli si sedette di fronte e gli passò la divisa, prima di alzarsi e cercare la sua.

“Ascoltami bene, Kevin”, gli disse, cercando di parlare con lentezza. Subito lo stomaco prese a formicolargli; avevano perso tempo, avevano fatto l'amore e perso minuti troppo preziosi. Sentiva i passi delle guardie fuori, nel corridoio, e si chiese se per caso non stessero ridendo al pensiero di vedere esplodere la testa dell'ennesimo detenuto.

Kevin lo guardò e provò a baciarlo, e a Jack si strinse il cuore con forza; non aveva idea di quello che stava per succedere.

“Dovrai fare quello che ti dico io”, spiegò, cercando di ignorare lo sguardo stranito sul volto dell'altro.

L'allarme suonò un'altra volta, e Jack cercò di illudersi che fosse ancora quello della pausa dai lavori forzati.

Kevin lo baciò e continuò a fissarlo, cercando di fargli capire che aveva tutta la sua attenzione. “Quelle persone là fuori... i soldati”, ed imitò un uomo che stringeva un fucile tra le mani, “vogliono ucciderti”, disse, prima di mimare uno sparo.

Gli occhi del detenuto si allargarono a dismisura, e Jack fu felice del fatto che avesse capito. Sentì il respiro dell'altro farsi più corto.

“Ieri sera ti ho portato una cosa”, gli comunicò, prima di alzarsi ed avvicinarsi alla branda sulla quale l'altro dormiva. Da sotto di esso estrasse una camicia di color verde scuro ed un paio di pantaloni. “Devi indossare questi, Kevin”, disse velocemente, cercando di capire quello che l'altro pensava. Vedendolo confuso, infilò i suoi pantaloni per fargli capire quello che doveva fare e lui annuì.

Kevin aveva un'aria confusa e terrorizzata allo stesso tempo, ma annuì. Per una volta, forse, erano riusciti a comunicare senza troppi intoppi.

Jack gli si avvicinò, gli prese il volto tra le mani e lo baciò con delicatezza, prima di avvicinarsi alla porta.

“Ti prometto che ti salverò”, sussurrò, e si assicurò che il contatto visivo con l'altro fosse più forte che mai. “Te lo giuro su Dio”.

Detto questo uscì dalla cella senza voltarsi a guardare il suo amante che, spaventato a morte, guardava i vestiti che stringeva tra le mani.

La paura lo stava divorando; che cosa stava succedendo?

Aveva capito la situazione quel tanto che bastava per allarmarsi e non era sicuro di voler sapere di più.

Jack nel frattempo aveva raggiunto i suoi colleghi che camminavano su e giù per i corridoi in cerca del detenuto da tormentare in quel momento.

“Hey, Brown”, lo chiamò uno di loro. Aveva un sigaro tra le labbra e la camicia della divisa sbottonata. “Ho sentito che te ne vai”, gli disse prima di sorridere e deriderlo in quel modo.

Jack ignorò la frecciatina. “E' già ora di cena? Perché l'allarme è suonato due volte?” chiese all'altro, sperando che non capisse lo stato d'animo in cui si trovava.

“Eh no, Brown, non è ora di cena. La prima era la campana della pausa dal primo turno dei lavori forzati”, spiegò, “come se quei bastardi ne avessero bisogno; la seconda, invece, è suonata perché quel cane sudamericano di Lopez ha provato a mettersi in contatto con la sua famiglia senza chiedercelo”, finì di dire. Sorrise al suo interlocutore con aria quasi paterna.

“Vai via da questo posto, caro Jack Brown. Fai saltare la testa alla spia tedesca e poi vattene lontano da qui”, gli suggerì, tornando a perlustrare l'intero corridoio.

“Aspetta un secondo”, lo chiamò Jack, e quello si voltò con aria seccata. “Hai saputo qualcosa di più riguardo l'esecuzione di Ganter? Mi hanno solo detto che devo essere io a svolgere il compito”, gli chiese, cercando di mantenere un aspetto austero nonostante stesse morendo dentro.

Il sopracciglio dell'altro si inarcò minacciosamente. “Dopo cena, Brown. C'era un altro stronzo da giustiziare nel pomeriggio e quindi hanno dovuto rimandare”, gli rispose frettolosamente.

Jack tornò nel suo ufficio e cercò di fare tutto il più in fretta possibile : prese la sua carta d'identità, la sua patente e il suo codice fiscale che, per fortuna, non avevano la sua foto su di essi.

Era consapevole di quello che sarebbe successo ed era abbastanza sicuro che, dopo aver messo in atto il suo piano, non avrebbe avuto più bisogno di quelle cose.

Il ticchettio dell'orologio da parete appeso nel suo ufficio gli ricordò che il tempo stava per scadere e si diresse velocemente alla sua macchina.

 

-

 

Quella sera, all'appello, i detenuti erano cinquantadue, e non cinquantatré come al solito: ne mancava uno, e le guardie, inizialmente, non se ne accorsero.

Se non fosse stato per l'imminente bisogno di dare un ultimo saluto a Kevin Ganter, nessuno ci avrebbe fatto caso, ma non andò così: Joshua, il Piedipiatti irlandese, si rese subito conto dell'assenza del tedesco solitario e taciturno e non mancò di comunicarlo agli altri.

La caccia all'uomo sarebbe iniziata troppo tardi.

 

-

 

Jack Brown correva. La sua mano destra era incollata a quella sinistra di Kevin Ganter, che cercava di reggersi sulle ginocchia quanto più gli era possibile. Erano in un corridoio buio, nei sotterranei del Penitenziario, dove Jack aveva nascosto le cose che sarebbero servite al suo amante.

Lo guardò di sfuggita, mentre cercava di riprendere fiato, e pensò che fosse incredibilmente bello; chissà per quanto ancora lo sarebbe stato.

Si fermarono e si nascosero dietro una colonna nascosta nella penombra, dove si sarebbero detti addio.

L'ottimismo non era per Jack, che, al contrario, vedeva nero ovunque. Per la prima volta, però, si disse che non c'era alcun bisogno di essere ottimisti.

Niente sarebbe andato per il verso giusto.

Accarezzò i capelli di Kevin, che sorrise lievemente mentre i suoi occhi si inumidirono. Si guardarono per secondi che sembrarono interminabili , prima di stringersi in un abbraccio che sapeva di lacrime e paura.

Jack gli baciò la fronte e scese fino ad arrivare alle labbra.

“Ich liebe dich, Jack Brown”, sussurrò il tedesco, facendo scontrare il proprio naso con quello dell'altro. “Ti amo”, ripeté poi in inglese.

Jack sentì che il suo cuore era un po' più leggero, ma decise di non lasciarsi andare.

“Prendi questi”, sussurrò, passando i suoi documenti all'altro. “Nel parcheggio c'è la mia macchina, prendi anche quella”, aggiunse, consegnandogli le chiavi.

“Tu... non... vieni con me?” gli chiese l'altro, nel suo solito inglese zoppicante.

Conosceva solo alcune frasi, alcune parole che Jack aveva provveduto ad insegnargli durante il tempo che avevano passato insieme.

Il soldato scosse la testa con sommo dispiacere. “Non posso. Ora vai, veloce, devi andare via subito”, gli intimò, sentendo dei passi affrettati provenienti dal piano di sopra.

Se ne erano accorti. Se n'erano accorti e loro stavano perdendo tempo.

“Vai! Subito!”, gli ripeté e si fiondò sulla porta blindata che l'avrebbe condotto all'esterno. La aprì e vide che l'altro non aveva nessuna intenzione di muoversi. Il suo sguardo si indurì.

“Corri, Kevin, ti prego”, lo implorò, prendendolo per mano e spingendolo per costringerlo ad uscire.

I passi erano più rumorosi e le voci delle guardie si sovrapponevano.

Fuori pioveva. Jack Brown si voltò a guardare l'uomo che amava un'ultima volta, prima di spingerlo fuori con tutte le sue forze.

Quello piangeva disperato, ma nel suo sguardo, Jack poté notare un'ombra di gratidudine.

“Corri lontano da qui! Ti amo, Kevin Ganter, non te lo dimenticare mai”, sussurrò, e si chiuse la porta alle spalle.

Era finita.

 

-

 

Quella sera, alle ore ventidue e trenta, la sala allestita per l'esecuzione di Kevin Ganter, soldato tedesco che si era ostinato a non collaborare, fu utilizzata per punire qualcun altro.

Il condannato era fuggito e i soldati americani si erano attivati per ritrovarlo; fino a quel momento, però, nessuno era riuscito nell'intento.

Davanti al muro della fucilazione, però, c'era un altro uomo, in ginocchio e con le mani dietro la schiena.

Quell'uomo si chiamava Jack Brown, ed era un lavoratore che un tempo aveva svolto il suo compito con onore.

Poi l'amore gli aveva fatto perdere il senno e l'aveva incoraggiato ad andare contro i suoi principi morali. Aveva tradito la sua patria, il suo esercito, il suo lavoro.

Alle ore ventidue e quarantacinque, un giovane uomo usciva dalla grande città in cui si trovava l'esercito americano ed oltrepassava il confine, e alla stessa ora un altro chiudeva gli occhi sotto il fuoco dei fucili.

Finalmente erano entrambi liberi.


Note dell'autrice : scrivere le note all'inizio o alla fine di una storia è per me l'impresa più ardua possibile; forse anche più difficile della stesura dei miei racconti. Per farla in breve, questo è il primo racconto che scrivo dall'inizio dell'anno, ma è anche quello che mi ha emozionata più di tutti.
Ho dovuto comprimere fino all'ultima parola questa one shot, affinché potesse partecipare ad un contest. 
L'ho amato. Ho amato Jack Brown e Kevin Ganter, e ho amato la tristezza di questa storia. 
Spero che possa piacervi e, nel caso in cui io abbia smosso qualcosa dentro di voi, vi chiedo di farmelo sapere.
Un abbraccio,

Claudia


 

  
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