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Autore: A Dream Called Death    04/04/2015    0 recensioni
< Pensi a lei qualche volta? > chiese poi.
< In continuazione > risposi.
Mi alzai dallo sgabello.
Lui mi fissò, incuriosito.
< E come faccio a sapere che con lei al mio fianco tornerò a vivere? Può essere l'anestetico al dolore? > chiesi.
< Lei non è l'anestetico al tuo dolore... Ma potrebbe essere la cura definitiva. >
Anno 2006.
Il tour mondiale di American Idiot è stato appena cancellato ed i Green Day tornano in America dopo tre mesi dalla partenza.
Ma qualcosa è cambiato, fuori e dentro il gruppo.
Per Billie Joe Armstrong lo scontro con le ombre del passato non è mai finito.
I pensieri, i dubbi e le insicurezze di un uomo che deve fare i conti con se stesso: una vita spesa per la musica e per la propria band, ma anche colma di bugie e alcol, nemico ed amico da sempre del protagonista, unico rimedio al dolore ed alla rassegnazione.
Ma un incontro lo sconvolge, mescola i pezzi del puzzle della sua vita, lo mette di fronte alla cruda realtà: non si può fingere per sempre, si deve trovare il coraggio di prendere la decisione più difficile di tutte... Essere felici.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Billie J. Armstrong, Mike Dirnt, Nuovo personaggio
Note: Raccolta | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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"American Idiot ti rovinerà".
Quelle parole mi risuonavano in testa, incutevano paura.
Erano forti, chiare, battevano come pugni chiusi sulle tempie.
Una volta spalancata la porta dell'ingresso, accesi una sigaretta. 
-No, sto bene. Tu fumi come un condannato a morte, un tempo non fumavi così tanto- replicò Trè, rifiutando una sigaretta offerta da me.
-Chissà che cazzo è successo... Chi cazzo l'ha convinto a fare una cazzata simile- disse Mike, pensieroso ma innervosito dopo il dibattito con Magnarella.
-Se ne pentirá... Gli do una settimana. Tempo pochi giorni e farà una chiamata, tornerà come un cagnolino con la coda in mezzo alle gambe- sbottò il batterista.
-No- intervenni io, buttando fuori il fumo dalla bocca.
Mi sedetti sui gradini.
-Si, Big. Sa che ha fatto una cazzata-.
-Non chiamerà, Trè-.
-Come fai a dirlo? Lo conosci Pat, sai che spesso si rimangia ciò che dice-.
-Non questa volta. È finita. Lui era serio, l'ho visto nei suoi occhi-.
Trè scosse la testa.
-Cosa facciamo?- chiese, osservandoci.
-Chiama Tim-.
-Che cazzo c'entra Tim?- ribatté il batterista.
-Digli che abbiamo bisogno di lui, digli di impacchettare le quattro cose di questo pezzo di merda e rispedirgliele indietro. Digli anche che è licenziato- ripresi, gettando il mozzicone di sigaretta a terra.
Tré, che aveva il telefono in mano pronto a chiamare il nostro assistente, si fermò di scatto.
-Licenziato?-.
Io annuii.
-Big... Big, aspetta un secondo, abbiamo bisogno di Tim. Abbiamo bisogno dei ragazzi... Adesso siamo incazzati, molto incazzati, il primo ad essere fottutamente incazzato sono io! Ma non possiamo perdere Tim e i ragazzi, non possiamo mandarli a farsi fottere. Loro sono indispensabili e lo sai anche tu. Timothy Bakernail è il miglior tecnico ed assistente che potesse capitarci, è il miglior caposquadra che io abbia mai conosciuto- disse il batterista.
Sospirai, indeciso sul da farsi.
Perdere Tim e i ragazzi significava perdere una buona parte del nostro gruppo.
Erano delle persone straordinarie, lo sapevo bene, da quando Pat li aveva assunti per assisterci il lavoro della squadra era migliorato. Solitamente il lavoro degli assistenti e dei tecnici musicali dura circa quanto un tour, a meno che gli artisti non chiedano esplicitamente di essere seguiti da quelle specifiche persone anche successivamente. Gli assistenti vengono convocati, quindi assunti dopo un certo periodo di prova, si spostano e lavorano per gli artisti, anche se non sono assunti direttamente da loro bensì dal manager.
A fine contratto, solitamente a fine tour, vengono rimpiazzati da altri.
Tim Baker e compagnia, invece, erano con noi dal 2001.
Cinque fottuti anni. 
Non avevo mai lavorato così bene con nessun altro... Ma non volevo avere più niente a che fare con quel coglione del loro capo.
-Non si possono mandare via i ragazzi, ci troveremo con il culo per terra- intervenne Mike, guardando il batterista; non girò mai lo sguardo verso di me. 
-Eh va bene, non saranno licenziati. A meno che non vogliano andarsene loro, visto che con quel coglione del loro capo abbiamo chiuso- precisai. 
I miei compagni annuirono.
-Che ore sono?- chiese Tré.
-Le dieci, perché?-.
-Devo pranzare con mia figlia più tardi. Spero di arrivare a casa, hanno previsto traffico- rispose Il batterista, afferrando il casco.
-Hai fatto tanto per uscire da Oakland ed ora rimpiangi i bei tempi in cui ti spostavi con la bicicletta?-.
Mike rise della sua stessa domanda. 
-Fottiti tu e la tua città. Vado in bicicletta anche nei dintorni di casa, sperando sempre di non finire in qualche buca che quei fottuti contadini mi fanno trovare lungo la strada. Non tornerei mai in città, sto bene dove sono- ribatté Tré.
Dopo il matrimonio con Claudia ed il divorzio, Trè era rimasto in buoni rapporti con lei, condividendo la casa per il bene del piccolo figlio. Tuttavia, il batterista aveva acquistato da poco una villetta isolata nei pressi della cittadina di Orinda, inizialmente si recava lí nei fine settimana, negli ultimi tempi invece vi si era stabilito definitivamente portando via le sue cose. La proprietà non era facilmente raggiungibile ma a Tré piaceva molto la zona.
Anche a me piaceva la sua dimora e la tranquillità del posto.
-Ciao ragazzi- così dicendo, si mise il caso in testa ed andò via, diretto alla sua moto. Io lo salutai con la mano dopodiché, con Mike, mi incamminai alla macchina.
Nessuno dei due proferì parola.
Pensai di soffocare il silenzio accendendo un'altra sigaretta ma un brutto colpo di tosse improvviso mi fece cambiare idea, tuttavia per pochi secondi.
Attraversai con lui il piccolo vialetto pedonale che mi divideva dalla mia macchina, ben attento a non stargli troppo vicino ne tantomeno a dargli modo di cominciare un discorso.
Il bassista non parlò, non disse nulla, si limitò a camminare ed a curiosare nelle sue tasche, come se fosse alla ricerca di qualcosa; infatti, stava cercando gli occhiali da sole.
Quel silenzio mi infastidiva profondamente.
Non eravamo mai stati così lontani in tutta la nostra vita, così distanti, così assenti.
Ci eravamo sempre parlati, nel bene e nel male.
Avevamo sempre riso, scherzato su tutto e tutti, ci eravamo sempre capiti ed amati alla follia, io e lui: un'unica anima divisa in due, i miei occhi nei suoi, ogni giorno, sempre. 
Era successo qualcosa di molto grande quel maledetto giorno in cui mi aveva guardato la prima volta, mi aveva stretto la mano... Mi ero sentito un pò meno solo, mi ero sentito compreso.
La nostra storia era cambiata e ci aveva trasformati: prima sconosciuti, poi amici, quell'attrazione e la voglia di scoprirsi che si era fatta sempre più forte fino a farci diventare amanti. Infine eravamo arrivati a considerarci quasi come una coppia fissa. 
L'arrivo di Adrienne, la nascita dei miei figli.
I litigi, la gelosia, le incomprensioni, la rabbia, le continue rotture. 
Ed ancora amore, attrazione, la voglia di tornare insieme e di spaccare il mondo.
Un tira e molla senza fine. 
Poi, circa tre anni prima, la rottura definitiva per il bene delle nostre famiglie; quello squarcio così grande, alimentato dall'odio, talmente profondo da non permetterci neppure di pronunciare il nome dell'altro. 
Ero stato io ad allontanare Mike, mai nella mia vita avevo sofferto come in quel momento.
Ero abituato ormai a quei continui tira e molla ma non avrei mai potuto immaginare di arrivare fino a quel punto, il terribile epilogo chiamato indifferenza.
Letale.
Doveva odiarmi, dannazione, ma non fare finta che non esistessi.
Io esistevo, cazzo, ero lì davanti a lui e volevo contare qualcosa.
Afferrai le chiavi della macchina con una mano, con l'altra accesi una sigaretta.
-Prima o poi dovremmo parlarci- dissi, aprendo la portiera dell'auto, mentre Mike mi superava.
Il biondo si voltò di scatto, fingendo di non aver capito.
Mi sedetti in macchina lasciando la portiera aperta.
-Non puoi ignorarmi per sempre- continuai, fumando la sigaretta.
Non ottenni risposta.
Mike continuò a giocare con gli occhiali da sole.
-VUOI RISPONDERMI, CAZZO?- urlai, battendo il pugno sul clacson.
-Stai zitto, vuoi che ti sentano?-.
-Non me ne frega un cazzo- ribattei, ad alta voce.
Girai la chiave, accesi il motore. 
-È solo per il gruppo che sono ancora qui, pensavo l'avessi capito. Le nostre strade si sono divise già da molto tempo, tu hai scelto di seguire la tua. Capita nella vita, oppure pensi che le nostre debbano stare legate a tutti i costi? Ho già passato troppo tempo dietro a questa storia. Ora guarderò avanti, andiamo avanti e basta-.
I nostri occhi si incrociarono.
L'emozione mi travolse nuovamente, era sempre quella, era sempre la stessa.
Non potevo guardare Mike e rimanere impassibile, non era normale, non ero io.
-Tornerai, Mike, lo sai anche tu-.
Lui sorrise leggermente, scuotendo la testa.
-No-.
-Quello che ci unisce è più forte di quello che ci divide-.
-La vita è più forte, Billie-.
-La tua vita sono io, ammettilo. Ammetti che lo pensi anche tu, non puoi far altro che guardarti indietro e vedere solo me, nient'altro che me-.
-Devo credere che sei anche presuntuoso se veramente pensi una cosa simile-.
-Lo sono-.
Mike alzò le braccia.  
-Non ti capisco, sai, non ti ho mai capito. Vuoi stare con me, vuoi stare con tua moglie. Sei geloso perché ho trovato una donna, fai di tutto perché tra me e lei finisca. Però continui la tua vita, continui ad addormentarti tutte le sere accanto ad Adrienne. Intanto vuoi stare con me, dici di amarmi, dici che non esiste vita senza di me. Guarda cos'ho fatto per te, guarda quante ne ho passate, quanto tempo ho perso. Ti fai scopare da uno, ti fai scopare da un'altra. Poi un giorno torno a casa e dopo vent'anni vengo scaricato senza una fottuta spiegazione, così, perché dici di voler stare con tua moglie. Però torni a letto con me, devo ammettere che hai coerenza. Dopo tutto questo, incontri una ragazzina malata e vai fuori di testa, probabilmente ti ha fatto scoprire che in questo fottuto mondo c'è qualcuno più malato di te, quindi te la scopi giusto perché non si può lasciare nulla di intentato, interrompi un tour e ci fai tornare a casa. Ora, alla fine di tutto, Billie... Ma che cazzo vuoi dalla vita?-.
Cosa volevo dalla fottuta vita? 
Magari l'avessi saputo.
Avrei fatto di tutto pur di riuscire a dare una risposta a quella domanda.
Mike era esasperato, era furioso, la sua pazienza aveva superato il limite.
Non avrei mai pensato che ci sarebbero voluti vent'anni prima di vederlo mandare tutto a fanculo. Vent'anni, cazzo, mica pochi giorni.
Forse anche io avevo sopportato troppo e per troppo tempo.
Forse aveva ragione lui, ero solo un fottuto indeciso, uno che non sa cosa vuole, uno che dice una cosa ma nella sua testa ne pensa un'altra... E magari le desidera tutte e due.
Ero così, ero un fottuto idiota, ma era di quel fottuto idiota che Mike si era innamorato.
Era l'incertezza, l'indecisione, i dubbi che facevano parte di me che gli avevano preso la mente. Era di quei fottuti difetti che lui si era fottutamente perso, non di certo delle mie qualità. 
-Ecco, vedi, non sai rispondere. Sono vent'anni che non sai rispondere- continuò Mike. 
-Non posso dirti cosa voglio, è vero, non l'ho mai saputo. Ma posso dirti cosa non voglio. Non voglio perdere il nostro rapporto, Mike. Non voglio perderti: come persona, come amico, come tutto- risposi, tentando di fare luce in mezzo a quella confusione.
-Mi hai già perso, Billie, ma tanto tempo fa. Da quando ho capito che non cambierai mai: sei fatto di dubbi. Sei una casa fatta di legno, Billie, dove nessuno può vivere tranquillo: sembra solida se la guardi da fuori, potrà anche riparare da piccoli colpi di vento, ma alla prima forte tempesta crollerà-.
Silenzio.
-Scordati Mike Pritchard, quel ragazzo che qualche tempo fa hai conosciuto. Non esiste più, per te sarò il bassista, ecco. Uno con cui devi suonare. Sarò solo questo. Basterà andare d'accordo almeno quando siamo in scena, dovrò fingere di ridere quando spari una delle tue coglionate, come al solito, almeno quello. Così, tanto per mostrare agli altri che siamo i soliti coglioni di sempre. Nella vita avrai la mia indifferenza. Ma non devi stare qui a crogiolarti nel dolore di avermi perso, te ne farai una ragione, come sono convinto che probabilmente sia già successo. Mi hai perso, Billie e non c'è nulla che tu possa fare per tornare indietro, forse solo cambiare te stesso. Ma sappiamo entrambi che non accadrà mai-.
Detto questo, il biondo se ne andò voltandomi le spalle. 
Rimasi fermo dentro la mia macchina, immobile come una statua. 
La sigaretta tra le mani si era già consumata da un pezzo ma ero rimasto talmente rapito dagli occhi di Mike, dalla durezza dei suoi sguardi, che non me ne ero nemmeno accorto.
Non c'era modo di sanare i nostri conflitti.
Forse avrei dovuto lasciar perdere, continuare la mia vita senza di lui.
La verità è che nemmeno io sapevo cosa volevo: era difficile, in quel caso, dire esattamente in che ruolo volevo avere Mike nella mia vita. 
Il nostro legame aveva subito talmente tante trasformazioni che neppure io riuscivo a definire esattamente di cosa si trattasse quella nostra storia ne riuscivo a dire con certezza quali fossero i miei sentimenti per quell'uomo. 
Forse non riuscivo a definirlo perché Mike era tutto e lo era sempre stato.
Il tutto non è definibile, esiste e basta. 
Con il motore della macchina ancora acceso, mi persi nel fissare le spalle del biondo che, lentamente, si stava allontanando fino a sparire completamente dalla mia vista.
Avrei dovuto rincorrerlo, fermarlo, urlargli in faccia il mio dolore e la mia sofferenza.
Quello che era appena accaduto non era niente in confronto a ciò che sarebbe successo di lì a poco. 
Ero solo, chiuso dentro una macchina, tutti gli altri erano lontani.
Troppo lontani, oramai quasi irraggiungibili. 
L'auto di Jason White si parcheggiò accanto alla mia.
-Ciao, Billie- mi salutò il mio amico, con la mano alzata, scendendo.
Non lo ascoltai neppure. 
Improvvisamente innervosito dopo il litigio con il mio ex amante, mi misi a trafficare furiosamente tra le mie cose alla ricerca delle sigarette.
Con i nervi a fior di pelle, ingranai la marcia.
-Ehi- ripeté Jason due volte, avvicinandosi per mostrare la sua presenza. -Mi senti?-.
-Jason, vaffanculo!- sbraitai, infilandomi la sigaretta tra le labbra.
Partii, sgommando con le ruote della macchina sulla strada di sassi.
L'immagine della smorfia di Jason, un misto tra lo stupore e l'indignazione, mi accompagnò per il resto del tragitto. 
 
 
Mi fermai in una caffetteria poco distante da casa.
Volevo prendere un caffè in santa pace.
-Sí?-.
-Ciao, come stai?- chiese la voce al telefono.
Era un' amica. 
-Bene. Sono al Thornhill. Sto prendendo un caffè, raggiungimi-.
Dopo cinque minuti ci trovammo e chiacchierammo un pò. Con i miei amici non parlavo mai delle questioni riguardanti il gruppo, a loro non importava.
Una volta usciti a fumare una sigaretta, a raggiungerci fu un altro nostro amico, Paul. 
Nessuna parola riguardo i concerti, nessuna parola riguardo il tour annullato miseramente.
Con loro ero in pace, lontano dai riflettori: non dovevo dare spiegazioni e sapevo che non mi avrebbero fatto domande, a meno che non fossi stato io a volermi confidare. 
Una telefonata interruppe la nostra conversazione, questa volta a squillare era il telefono per le chiamate di lavoro. In pochi avevano quel numero telefonico. 
-Dimmi-.
Trè.
-Che cazzo é successo con Jason?-. 
Osservai Lizeanne e Paul e dissi loro che mi sarei allontanato un attimo dalla caffetteria.
Attraversai la strada.
-Allora?- insistette il batterista.
-Niente-.
-L'hai mandato a farsi fottere, eri fottutamente serio-.
-Capita. Chi te l'hai detto?-
-Cristo santo, si può sapere cosa ti prende?- chiese, ignorando la mia domanda.
-Posso mandare a farsi fottere chiunque e Jason non se la deve prendere. Posso scoppiare, anche io sono umano- risposi.
-Ultimamente ti infastidisci troppo spesso. Uno può anche incazzarsi nella vita, Billie, soprattutto dopo tutti i sacrifici che sta facendo quel ragazzo-.
-Billie? Sei dannatamente serio, allora-.
Mai e per nessuno motivo Trè mi chiamava per nome.
Solo nei momenti di estrema serietà oppure di rabbia.
Si trattava della prima opzione ma non era da escludere che potesse trattarsi anche di un insieme di quelle due cose. 
-Sono serio. Capisco che tu sia incazzato per la storia di Pat, il primo ad esserlo sono io. Ma non puoi girarti e mandare a fanculo chiunque, gruppo compreso. Se hai un momento di nervosismo, risolvitelo da te. Inutile creare delle questioni-.
-Io non creo nessuna fottuta questione. Siete troppo seri. Non è colpa mia se Jason prende tutto troppo seriamente e non ride una cazzo di volta. Posso avere un momento di nervosismo e volermi sfogare con il mondo, qual'è il problema? Ti mando a fanculo? Bene, ridi, sbattitene, mandami a fanculo, ma non stare zitto- ribattei, guardandomi attorno.
-Sta facendo dei turni impossibili, sta girando il mondo dalla mattina alla sera, viene sbattuto da un albergo all'altro, ha dovuto tenere una memoria di ferro e i nervi saldi per stare dietro a tre coglioni come noi. Vuoi riconoscergli un pò di merito?- sbottò il batterista.
-Trè, io voglio bene a quel ragazzo-.
-Ecco, allora vedi di non perderlo-.
-Nessuno vuole perderlo- replicai. 
-Ti conviene tenertelo stretto, se non vuoi che giri i tacchi e se ne vada. Ci stava già pensando una volta, ma per una cosa o per l'altra ci ha ripensato. Non voglio che uno se ne vada dal gruppo. Lascia stare i ragazzi; Tim, Jason e tutti gli altri- ribatté lui.
Jason White era sempre stato un amico per me, fin dai tempi in cui eravamo ragazzi. 
Ero stato io stesso a portarlo nel gruppo, facendolo integrare come secondo chitarrista nella band. Jason aveva legato moltissimo con Trè, tra i due era nata una forte amicizia, ormai si ritenevano inseparabili. Penso che White non si fosse legato in quel modo con nessun altro, me compreso. L'amicizia tra i due era più forte di tutto; alle volte ero arrivato perfino a chiedermi se fossero diventati anche amanti, ammetto di averci pensato.
Sapevo che erano solo mie fantasie: non si erano mai dichiarati aperti alla scoperta dell'attrazione verso lo stesso sesso. In poche parole nessuno dei due, che io sapessi, aveva mai avuto delle storie con gli uomini.
Ma niente era da escludere, tutto può cambiare nella vita: avevo sempre pensato che fare sesso con le donne fosse la cosa più bella del mondo... Questo prima di provare con gli uomini.
Non che fossi andato con alcun uomo al di fuori di Mike, a dire il vero.
Nella mia vita avevo avuto rapporti sessuali solo con lui.
Non ho mai capito esattamente se considerarlo "uomo" oppure "magnifica entità con membro maschile". Insomma, anche se Mike fosse stato una donna, un transessuale e che più ne ha più ne metta, io avrei provato verso di lui la stessa identica attrazione.
A prescindere da ciò che aveva tra le gambe. Non ho mai saputo, quindi, se definirmi esattamente "bisessuale" oppure semplicemente "innamorato di Mike".
Non era mia intenzione avere un dibattito con il batterista, non ne avevo la voglia ne la forza. Quei tempi, quelli dei dibattiti, delle litigate e delle incomprensioni, erano finiti da un bel pezzo.
Era ora di mettermi in luce, dovevamo lasciare da parte quelle stronzate.
Le cose non stavano andando bene: io mi ero allontanato progressivamente dagli altri, non era colpa solo della malattia oppure di Jane, la colpa era anche mia, di me stesso.
Forse mi ero solamente accorto che le cose si erano protratte troppo a lungo; per troppo tempo avevo finto di stare bene, così come avevano fatto anche gli altri. Non solo io mi ero staccato dal gruppo, poiché anche Trè cominciava a nutrire del risentimento; non essere messo a conoscenza dei fatti, soprattutto quelli riguardanti il tour, lo rendeva rancoroso e distaccato. 
Aveva cominciato ad evitare Mike, forse per via delle numerose litigate che in passato erano scoppiate tra i due a causa dei loro caratteri molto forti.
D'altro canto, il batterista con me invece continuava a tenere lo stesso rapporto di prima anche se negli ultimi tempi avevo notato in lui un cambiamento.
Era come se Trè volesse urlarmi in faccia qualcosa ma non trovasse il coraggio di farlo.
Sempre al fianco del batterista c'era Jason White.
Dall'altra parte, Mike andava d'accordo con il resto del gruppo, in particolare con Tim ed i miei assistenti, con i quali usciva abitualmente. I due Jason, entrambi sideman, avevano un buon rapporto, ma non quando si trattava di doversi schierare da una parte o dall'altra dei poli. Al centro di questi, esattamente in mezzo, c'ero io. Quasi tutti avevano intenzione di mantenere con me un buon rapporto di amicizia. Solo in quel momento mi misi a pensare a questi schieramenti e quasi mi venne da ridere; dannazione, stavamo parlando del gruppo, eravamo così preoccupati che andasse tutto in merda, eravamo così presi dal salvaguardare quel nostro legame lavorativo ( ed anche personale)... E poi alla fine? Che cazzo eravamo? Sicuramente non un gruppo. Potevamo considerarci tante persone che suonavano insieme e giravano il mondo, ma sicuramente non potevamo ritenerci il gruppo unito di una volta. Eravamo piuttosto un gruppo formato da tanti piccoli gruppetti. Non era forse meglio, alla luce dei fatti, dividersi davvero? 
Quella possibilità mi fece venire un nodo in gola. 
Forse avrei dovuto accettare le numerose proposte ricevute in quegli anni, ovvero dei contratti da solista? Avrei avuto successo, probabilmente avrei messo in ombra i problemi che il gruppo mi stava creando in quel periodo, in particolare American Idiot. 
No. Ma che cazzo stavo dicendo, ma che stavo pensando. 
Che cazzo mi passava per la testa? Mi parve un' idea bizzarra... e dire che non ero nemmeno ubriaco.
-Devo andare. Sono con amici- dissi.
-Tira fuori quel fottuto telefono e chiama Jason. Il numero ce l'hai. Lo inviti a bere una birra e vi fate quattro chiacchiere seduti al tavolino. Parlate, discutete, scannatevi se necessario, anche se non credo succederà mai a meno che non sia tu il primo a farlo. Con quello lì non si litiga, è vietato litigare. Sai quante volte ci ho provato?- disse Trè, con una voce così seria che non mi parve nemmeno la sua. 
Impossibile litigare con Jason White, l'avevo imparato con il passare degli anni.
Jason non litigava, non sbraitava, non diceva nulla.
Era sempre stato introverso, buono e riservato; era quello il suo carattere.
Non aveva mai perso la pazienza, cosa abbastanza insolita quando si ha a che fare con altri tre come noi. Assicuro che stare al mio fianco anche un solo giorno comporta un notevole dispendio di vaffanculo. 
Ovviamente Trè sapeva già che non avrei mai fatto quanto mi aveva appena detto. 
Se anche solo per un attimo, nella sua testa, avesse pensato il contrario, avrebbe significato che in tutti quegli anni non aveva capito nulla di me.
-Ciao-.
Riattaccai. Attraversai la strada e salutai i miei amici quindi me ne andai, salendo in macchina. Percorsi pochi metri correndo ed accesi una sigaretta fermandomi ad un semaforo.
Il sole caldo di mezzogiorno batteva sulla mia faccia.
Afferrai gli occhiali scuri.
In una mezz'ora feci un sacco di commissioni; per prima cosa, comprai una nuova scheda telefonica, quella che avrei usato per chiamare Jane in Inghilterra. In pochi minuti mi fu subito attiva e pensai di fare una chiamata alla ragazza per comunicarglielo.
Cambiai idea, l'avrei fatto nel pomeriggio. Non potevo cominciare una conversazione sapendo che probabilmente si sarebbe protratta almeno fino a quel pomeriggio, tante erano le cose da dire alla mia dolce ragazza. No. Non potevo far insospettire Adrienne: non vedendomi tornare a casa avrebbe telefonato. Solitamente chiamavo mia moglie verso quell'ora, a meno che non avessi impegni improrogabili che non mi permettessero di telefonare. Ma Adrienne sapeva che non avevo impegni in giornata, se non il colloquio mattutino con Magnarella. Sapeva anche che non dovevo vedermi con i ragazzi. 
Era il mio giorno libero, per così dire. 
Chiamai Adrienne.
-Ciao- rispose. 
-I bambini?-.
-A lezione-.
A causa degli impegni con il gruppo, raramente ero andato a prendere i miei figli a scuola. 
Si era sempre occupata di tutto Adrienne.
Dovevo solo esserle grato per come mandava avanti la famiglia. 
Adrienne era una mamma eccezionale, Jane lo sarebbe stata altrettanto?
-Sei a casa?- chiesi, girando il volante dell'auto con una mano.
-No, sarò a casa tra poco. Mangiamo?- chiese.
-Va bene. Vuoi che prenda qualcosa?-.
-Magari stasera- rispose Adrienne.
Riattaccai. Mi misi per un secondo a pensare al mio matrimonio, tentando di ricordare ciò che avevo provato quando le avevo infilato l'anello al dito. Non eravamo molto sobri all'epoca, ma ricordo quel momento con molta lucidità. L'avevo guardata negli occhi, credendo fermamente di amarla dal profondo del cuore. Erano passati giorni, mesi, anni ed io l'avevo sempre amata, avevo riposto in quel nostro sentimento tutte le mie speranze per il futuro. Avevo fatto di quell'amore per Adrienne quasi un punto fisso. Quasi.
L'amore che un tempo ci aveva così tanto legati, nel bene e nel male, si era poi 
affievolito fino a scomparire. Le nostre giornate, prima piene di felicità e di tenerezza, si erano fatte grigie e monotone. Un tempo ci parlavamo, io ed Adrienne, passavamo anche tutto il pomeriggio a conversare di ciò che si provava, delle emozioni, dei progetti, oppure semplicemente di come era andata la nostra giornata. Mi ricordo i bei pomeriggi passati all'ombra degli alberi nel parco, quando ancora ero un ragazzo e lei pure, solo con un pò più di buonsenso di me. Quei pomeriggi erano lontani, molto lontani, di noi due e della nostra bella storia erano rimasti solo i ricordi. Adesso eravamo così; distanti, freddi, senza voglia ne tempo di parlarci, addirittura di guardarci.
Parcheggiai la macchina fuori casa e scesi. 
Ad aprirmi fu mia moglie.
Non ci salutammo, le passai accanto senza dire una parola, solo un leggero sorriso.
Adrienne era ai fornelli, vidi la piccola pentola sopra al fuoco dal corridoio, ma oltrepassai la sala ed andai in camera per cambiarmi. Non lasciavo mai la porta della camera aperta quando dovevo andare alla cabina armadio, anche se in casa c'era solo mia moglie; infatti, una volta entrato, socchiusi la porta. Andai alla cabina e con le dita cominciai a sbottonarmi la camicia. 
-Billie...-.
La voce di Adrienne ruppe il silenzio. Non mi voltai a guardarla, continuai a svestirmi. 
-Billie, possiamo parlare?- chiese lei, avanzando verso di me.
-Va bene- risposi. 
-Che succede? È per i ragazzi?-.
-No, Adie- dissi.
-Perchè?-.
-Non chiedermi nulla. Non oggi-.
-Io non ti capisco, Billie. Non ti capisco davvero. So bene che ci sono dei problemi tra di voi, ma non credo che questo sia un buon motivo per non parlarne con me- affermò lei, affranta.
Mi tolsi la camicia.
-Abbiamo dei problemi, tutti i gruppi ne hanno, li risolveremo. Tu non devi preoccuparti, devi pensare alle tue cose- risposi.
-Mi manchi, Billie- così dicendo si avvicinò a me, afferrando i miei fianchi.
Mi accarezzò le spalle e mi baciò dolcemente con aria materna. Conoscevo bene Adrienne, era in cerca di attenzioni da parte mia ma sapevo che quel suo modo di toccarmi stava a significare solamente una cosa; voleva fare l'amore. 
Fui preso dal panico. 
Avevo tentato in tutti i modi di rimandare quel momento, il momento in cui Adrienne avrebbe richiesto di avere nuovamente un'intimità, la stessa che avevamo perso da qualche mese a quella parte. Sí, perché io non avevo rapporti con mia moglie da circa quattro o cinque mesi, dal momento in cui lei aveva scoperto di non essere incinta ed i miei piani per allontanare definitivamente Mike erano andati in fumo. L'ansia mi attanagliò il petto; sentii una forte pressione che non mi permise quasi di respirare.  
Sapevo con ogni fibra del mio corpo che mai e per nessun motivo al mondo sarei riuscito ad avere un rapporto con lei. Non perché disprezzassi Adrienne come persona oppure fisicamente come donna: mi era sempre piaciuta, avevo sempre adorato i suoi tratti ed il suo modo di fare. Non era una questione personale.
Non potevo pensare di spogliarmi, buttarmi a letto e stare con mia moglie.
Sarebbe stato uno stupido movimento meccanico ed al solo fine di procurare in lei il piacere che da tempo non provava più. Non era possibile sovrastare la potenza delle sensazioni che il rapporto avuto con Jane mi aveva inflitto, non potevo pensare di poter provare la stessa cosa penetrando un'altra donna che non fosse la ragazza.
No, non era quello che volevo. Non volevo stare con Adrienne.
Le sue mani che risalivano il mio corpo mi infastidivano, distruggendomi l'anima. Erano come lame che lentamente mi stavano uccidendo. 
Non volevo tradire Jane, non potevo farlo, non potevo tradire la notte a Berlino.
Se solo ripensavo alle emozioni fortissime che quella notte mi aveva lasciato sulla pelle, mi sentivo mancare il fiato. La mia emozione si era unita a quella di Jane, così come la nostra solitudine ed il nostro dolore, e solo da lì era nato qualcosa di grande ed indescrivibile, più grande di noi, più grande di tutto: nostro figlio. 
Quelle immagini erano così vive nella mia mente, mi passavano davanti in continuazione. 
Per un attimo le avevo perse di vista, a causa della tensione che in quei giorni mi aveva sconvolto, ma il tocco delle mani di Adrienne mi aveva riportato per un solo attimo a quella notte a Berlino, ricordandomi pochi piccoli particolari. 
Il piccolo ventre della ragazza, scoperto, con al centro l'ombelico.
Le pallide braccia che avevo afferrato per costringerla ad immobilizzarsi, in contrasto con i capelli scuri che, nel frenetico tentativo di averla mia per la prima volta, mi ero ritrovato tra le labbra. Le unghie che mi avevano graffiato una mano. 
Le gambe, tra le mie, il fastidioso scricchiolio del pavimento sotto alla schiena.
Le sue urla di dolore, le mie urla di piacere. 
Il bianco di Jane contro l'ombra della notte. 
Aprii gli occhi, lucidi, osservandomi la mano sinistra. Il segno del graffio era lì.
Terrorizzato, allontanai Adrienne.
-Billie, che succede?-.
Tentai di riprendermi. Non dovevo portare mia moglie ad avere dei sospetti.
-Niente- risposi, con il fiato corto.
Lei smise di toccarmi, mi sentii leggermente meglio. Il suo sguardo era un misto di delusione e di sgomento. Non era arrabbiata, semplicemente delusa.
Forse anche preoccupata per me.
-Billie... Sono mesi che non stiamo insieme- disse, appoggiandomi una mano sul collo.
-Adrienne, ti prego... Ti prego-.
Con fermezza, afferrai le sue mani, nell'estremo tentativo di liberarmi dalla sua morsa d'affetto. 
Lo sguardo di mia moglie si fece più duro e l'aria dolce di prima svanì completamente.
-Sono mesi che non mi cerchi più. Da quel maledetto test di gravidanza-.
Scossi negativamente la testa ma non risposi.
-Non rispondi?-. 
-Non é colpa tua- tentai di giustificarmi. 
-È per quel test? È perché non sono rimasta incinta?-.
Senza volerlo, Adrienne mi aveva appena fornito una valida scusa.
Mia moglie, infatti, pensava che io fossi contrariato per il fatto che lei non riuscisse a rimanere incinta. Del tutto ignara, invece, che i pensieri nella mia testa erano ben altri.
Un figlio lo aspettavo già, ma non certo da lei.
Da lei non avevo intenzione di averne altri.
-Sì-.
-Non devi tenerti tutto dentro. Lo so che sei arrabbiato perché non abbiamo avuto quel bambino, ma se non stiamo insieme come puoi pensare che succeda? Mi dispiace... Ma non voglio che questa cosa ci faccia allontanare. Io ti amo-.
-Non ci allontaneremo. Ma forse è un troppo presto per provare di nuovo... Forse é il caso di aspettare ancora un pò-.
Le giustificazioni reggevano.
-Hai ragione- acconsentì lei. Silenziosamente, ricominciai a svestirmi. Adrienne si sedette sul letto e, come se non fosse successo nulla, spostò l'attenzione su ciò che aveva fatto in quella giornata, sui suoi impegni e sulla cena con le amiche che l'aspettava l'indomani sera.
-Domani stai tu a casa con i ragazzi?- mi chiese, sistemando le cose sopra al tavolino.
-Va bene-.
Afferrai un maglioncino nero di lana e me lo misi addosso.
-Billie, mi è venuta in mente una cosa; ho guardato nella valigia e non ho trovato la tua maglietta bianca. Dove l'hai messa?-.
Mi sentii gelare. 
Era sporca di ketchup, stropicciata e buttata in un sacchetto in fondo ad una piccola borsa che avevo messo in soffitta. Era l'unico posto dove sapevo che Adrienne non l'avrebbe mai trovata. 
-Non so dove sia, ero convinto di averla messa in valigia- affermai, mentendo.
-Non c'è, non l'ho trovata-.
Non sapevo cosa rispondere, ero in difficoltà. Dovevo giocare bene le mie carte.
-Può essere che l'abbia dimenticata da qualche parte. Chiamerò Tim- affermai, con tono deciso; Adrienne annuì, cambiando argomento.
Lei parlava, ma io non l'ascoltavo. Ero troppo impegnato nel piegare i miei vestiti e pulirmi le scarpe. Avevo sistemato nuovamente le mie cose nella cabina, le stesse che qualche mese prima mi ero portato via per cominciare il tour. Poche cose, quelle essenziali.
-Va bene, vado a mangiare- disse mia moglie, alzandosi dal letto.
La salutai, dicendole che non l'avrei raggiunta.
Ero stanco, dovevo riposare.
   
 
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