Anime & Manga > Creepypasta
Ricorda la storia  |      
Autore: Shetani Bonaparte    05/04/2015    1 recensioni
Jeffrey Woods aveva tredici anni, era dolce, timido, simpatico e soggetto a bullismo. Aveva un padre impegnato nel lavoro, una madre fin troppo presa da se stessa ed un fratello, Liu, al quale era davvero molto affezionato.
Chi lo conosceva, poteva giurare che non avrebbe mai fatto del male ad una mosca.
Un misterioso killer era in piena euforia, sfacciato, assetato di sangue. attaccò la propria famiglia, una notte, con un coltello da cucina, anche chi non lo meritava, anche l’unico che mai lo aveva abbandonato.
Chiunque lo abbia conosciuto, raramente può sopravvivere e raccontarlo.
E se ti dicessi che Jeffrey e il killer sono la stessa persona?
Se ti dicessi che sta arrivando, che ti troverà quando meno te lo aspetti?
Sappi che quando ti parlerà, sarà troppo tardi. Le ultime parole che udirai saranno: GO TO SLEEP!
Genere: Drammatico, Horror, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Homicidial Liu, Jeff the Killer
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
NOTE DI SHETANI:
“Jeff The Killer” è una delle mie Creepypasta preferite, ed assieme allo Slenderman – il mio preferito – è considerato una delle colonne portanti della così detta “Creepyfamily”.
Ma la storia proprio non la sopporto.
Ecco, vi linko la storia su Creepypasta Wikia: http://it.creepypasta.wikia.com/wiki/Jeff_the_Killer
Come potete notare, la storia presenta molti errori grammaticali e sbalzi temporali, i personaggi sono piatti e vi sono alcune discrepanze logiche – ad esempio: perché i capelli di Jeff sono subito ricresciuti ed hanno cambiato totalmente colore? Non avrebbe dovuto essere quasi calvo? Come mai non si è accecato bruciandosi le palpebre? E poi… undici anni? Jeff ha undici anni nella Creepypasta originale, però molte fonti dicono che ne ha 13, e lo preferisco così, un po’ più grandicello, volevo cambiargli età e farlo crescere di più, fargli avere almeno 16 anni, ma non volevo cambiare troppe cose, quindi… vada per i 13.
Alla fine della storia, noterete che Liu è ancora vivo. Ebbene, egli diverrà infatti Homicidal Liu. Nel racconto originale, si crede che sia morto, e quindi crea discrepanze con la Creepypasta dedicata al fratello di Jeff, ebbene ho sistemato la cosa.
Jeff di per sé mi piace molto, ma non pensiate che mi piaccia perché ne elogio la violenza e la tendenza all’omicidio: nonostante la storia sia pessima – motivo per cui l’ho riscritta, dovendo anche cambiare alcune cose per renderle più logiche – il personaggio, specialmente dal punto di vista psicologico, in mano ad un bravo scrittore può avere un ottimo potenziale per essere, assieme a Slender, un vero e proprio ‘Re’ delle Creepypasta.
Spero di poter esser considerata una brava scrittrice, e di aver dato al suo personaggio una storia degna di questo nome, nonostante vi potrebbero essere alcune discrepanze logiche che non ho potuto eliminare.
 
 
JEFF THE KILLER:
 
 
Jeffrey Woods aveva tredici anni.
Era un bel ragazzo, dai capelli corvini e gli occhi azzurri come il cielo, era abbastanza forte per la sua età ma nonostante ciò era vittima di bullismo.
Sin da piccolo, infatti, era stato preso di mira dai ragazzi più grandi, che si divertivano a rubargli le merende o a stracciargli il materiale scolastico. Poco importava che lo dicesse ai professori, quei bulletti se ne fregavano delle note sul registro o del un richiamo del preside. E poco importava che lo dicesse ai suoi genitori: suo padre era sempre al lavoro e sua madre… beh, sua madre era troppo buona, diceva che bastava ignorarli. Troppo presa da se stessa, dai pettegolezzi e dalla moda, ecco cos’era.
L’unica persona che veramente lo ascoltava e lo capiva era suo fratello Liu di un anno più grande – anche se non si notava -, così simile a lui sia caratterialmente che fisicamente. Erano entrambi molto timidi, ma Liu aveva una marcia in più, era decisamente più solare e popolare.
Fino ad allora i bulli che lo tormentavano erano ancora abbastanza smidollati da danneggiare solo i suoi effetti personali ed eventualmente offenderlo solo verbalmente, quindi Liu non era mai intervenuto e Jeff poteva cavarsela anche da solo, però era stanco.
Stanco di essere deriso, maltrattato, isolato.
Stanco di sentire ridicole storie su di se, le prese in giro, stanco di ritrovarsi i libri scolastici – già usurati di loro, essendo di seconda mano – stracciati e strappati.
Stanco di tutto.
Quindi quel giorno ebbe una lieta notizia: suo padre aveva ottenuto un ottimo lavoro fuori città, e il suo salario era abbastanza buono da permetter loro di trasferirsi in una casa un po’ più grande e che fosse vicina al suo luogo di lavoro.
‘Beh, almeno quei deficienti non potranno più infastidirmi’, pensò Jeff, sollevato, anche se un po’ gli dispiaceva: dopotutto, era cresciuto in quella piccola città, aveva anche qualche amico assieme a Liu.
Tuttavia, nonostante gli altri non avessero ancora iniziato i preparativi per il trasloco, lui, appena ne venne a conoscenza, si diresse nella propria, piccola stanza e iniziò a preparare le valigie.
 
Jeff fu il primo ad entrare nella nuova casa, spalancando la porta.
Lui e Liu salirono di corsa una rampa di scale in legno, semplice ed elegante, e scelsero una stanza a testa: erano felici, per la prima volta non erano obbligati a condividere la stanza da letto e a dover stipare tutti i loro oggetti personali in spazi angusti o in una sezione dell’armadio.
Una nuova casa, una nuova vita, la possibilità di essere qualcuno, finalmente, qualcuno di amato e rispettato, pieno di amici. Ecco quale opportunità vedeva il minore dei due fratelli Woods in quel radicale cambiamento.
Sarebbe stato difficile, ma ce l’avrebbe fatta.
‘Sempre che la timidezza non mi freghi’, pensò.
Emise un sospiro, lì, sdraiato nel ligneo e levigato pavimento della stanza vuota come il resto della casa, con le braccia incrociate dietro la testa a guisa di cuscino, sentendosi comodo con addosso dei vecchi jeans, le sue nere scarpe e la sua felpa preferita, bianca e un po’ logora, che lo rassicurava, una felpa che, in realtà, aveva rubato al fratello; poi si ritrovò a non riuscire a respirare: Liu, con noncuranza gli si era seduto sopra il petto.
“Oh!” disse, aprendo la bocca in una ‘O’ di sorpresa tanto fasulla quanto comica. “Scusa, Jeffy, non ti avevo proprio visto, sai?”
“Sempre il solito burlone” sorrise Jeff, “Però ora scendi, che non respiro!”
Detto ciò, lo spinse giù, bloccandolo a terra per poi aiutarlo a rialzarsi per poter andare ad aiutare i genitori a portar dentro alcuni scatoloni.
Dopo qualche ora, Jeff stava sistemando i propri CD di Marilyn Manson su una mensola assieme a qualche libro e ad un paio di fumetti e ad una foto di famiglia incorniciata nella quale lui e Liu erano ancora molto piccoli e si erano appena trasferiti nella vecchia casa. Il ragazzo sorrise, osservando un Liu di quattro anni con il viso pieno di torta che tentava di far mangiare a lui, che all’epoca aveva tre anni, un muffin al cioccolato, ottenendo solo di sporcare ovunque mentre i loro genitori se la ridevano.
Ridacchiò ancora e si sedette su un materasso singolo, a terra, sotto la mensola, sperando che i tizi del trasloco si spicciassero ad arrivare.
“Liu, Jeff! Venite!”
“Arrivo mamma!” rispose per poi avviarsi verso il piano terra, saggiando con le dita la ruvidezza del muro, scendendo le scale.
Fu raggiunto e superato da un Liu in corsa, e con calma raggiunse la madre sulla soglia di casa.
Fuori dalla porta v’era una bassa e tonta signora, coi biondi capelli raccolti in una paffuta crocchia, gli occhi verdi ed un allegro sorriso, vestita con un semplice abito estivo a fiori.
La madre dei fratelli Woods, alta, magra, elegante, con un profilo severo, i lunghi capelli neri e lisci ed un penetrante sguardo castano, sorrise alla sconosciuta.
“Salve” disse lei, “sono Barbera, abito oltre la strada, di fronte a voi. Volevo solo presentare me e mio figlio” e detto ciò chiamò a gran voce Billy, un bimbo timido e paffuto, di circa sei o sette anni, con due occhi verdi e imbarazzati e i corti capelli di un biondo più chiaro dei capelli della madre.
“Forza, tesoro, saluta i nuovi vicini!”
“C-ciao” mormorò il piccolo, nascondendosi dietro la materna figura e aggrappandosi alla floreale veste.
“Scusatelo, è molto timido con chi non conosce” sorrise la donna.
“Oh, anche Jeff era così timido, da piccino! Comunque, io sono Margaret” si presentò la madre di Jeff, “e quello è mio marito Peter” disse, indicando suo marito che stava sistemando alcuni cavi della luce del salotto.
L’uomo, forte e dai capelli neri e gli occhi azzurri, masticò un veloce ‘ciao’ mentre riusciva finalmente a far accendere la luce della stanza, per poi raggiungere la moglie e i figli.
Nel mentre, anche Jeff e Liu si presentarono, stringendo la mano alla signora e facendo un cenno a Billy, anche se il bimbo sembrava più interessato ai propri balocchi, abbandonati nel suo giardino, proprio dinanzi la casa della famiglia Woods.
“Sentite” disse Barbara, “perché non venite al compleanno di mio figlio? Devo ancora organizzare la festa, ma vi terrò aggiornati, potreste approfittarne per far conoscenza”
“Molto volentieri!” acconsentì Margaret, sotto lo sguardo scocciato di Liu e il piccolo sbuffo di Jeff.
Quando la donna e il marmocchio se ne andarono, il minore dei due fratelli emise un sospiro di pura esasperazione.
“Mamma, possiamo evitare di andarci?” supplicò il maggiore, con un’espressione da cucciolo bastonato ed un tenero broncio patentati Liu.
“No”
“Ma dai, ti prego!” pigolò Liu, che già sapeva che avrebbe perso.
“No”
“Ma non siamo bambini! Non mi va di giocare con le macchinine…” commentò Jeff, affondando le mani in tasca.
“Dobbiamo farci conoscere, a quella festa ci andremo, volenti o nolenti, vero Peter?”
L’uomo annuì, poco entusiasta.
I due ragazzi non poterono fare altro che rassegnarsi: non si discuteva con Margaret Woods.
 
Il mattino di qualche giorno dopo, Jeff si stiracchiò nel letto, osservando camera propria: era quasi del tutto a posto, mancavano solo un paio di scatoloni da sistemare e poi avrebbe potuto ritenerla completa.
Si vestì velocemente e si mise lo zaino in spalla: avrebbe dovuto affrontare il primo giorno nella sua nuova scuola. Nonostante continuasse a ripetersi di star calmo, sentiva un principio di ansia che gli pesava nel cuore; dopotutto non è mai stato facile essere il nuovo arrivato, specialmente se si è timidi come lo era lui; aveva speranza, però, perché lì nessuno lo conosceva e forse avrebbe potuto integrarsi e farsi molti, nuovi amici.
Scese velocemente le scale dopo essersi dato una veloce pettinata ai neri capelli che erano abbastanza lunghi da solleticargli il collo. Si sedette accanto al fratello, tutto trafelato, leccandosi le labbra alla vista di una deliziosa ciambella alla crema, la mangiò in un paio di morsi – sentendosi definire ‘ingordo’ dalla madre – e poi ingollò un paio di sorsate di latte caldo e zuccherato.
Dopo aver salutato la madre con un abbraccio, i due ragazzi si diressero alla fermata del bus, erano in anticipo di mezz’ora, certo, però volevano studiarsi per bene gli orari dei trasporti pubblici per essere più agevolati in futuro; inoltre, volevano parlare un po’ della loro nuova vita.
“Scommetto che Jane potrebbe iniziare a farti il filo!” ridacchiò Liu.
“Jane?”
“Sì, è una nostra vicina, dovrebbe avere la tua o la mia età, quando siamo arrivati ti ha guardato. Oh, eccola!” disse il maggiore per poi salutarla con un cenno della mano, mentre la vedeva affacciata alla finestra.
Ad un certo punto, Liu, seduto sul marciapiede accanto al fratello, abbassò la testa di scatto, evitando per un pelo un ragazzo in skateboard che aveva fatto un enorme salto usandolo come ostacolo.
“Hey, ma che diavolo…?” sbottò Liu.
Alcuni ragazzi si fermarono davanti ai due fratelli Woods, frenando coi piedi affinché gli skateboard si bloccassero. Dato che indossavano tutti delle fantasie mimetiche, Jeff dedusse che fossero un gruppo.
Ebbe un brivido, fu attanagliato dal panico: riconosceva quegli sguardi sprezzanti, quel modo di fare così sicuro, del lupo che guarda il povero agnello attendendo il momento propizio per sgozzarlo. Erano bulli, bulli seri, di quelli che ti mandavano tranquillamente all’ospedale e poi venivano protetti da un padre ricco e stupido.
Liu aveva sentito parlare di loro, il figlio di un loro vicino gliene aveva parlato e lo aveva avvertito sulla loro pericolosità: il capo – alto, con gli occhi castani e gli occhi perennemente nascosti da un paio di occhiali da sole – era Randy, che come gli altri due era un quasi sedicenne, il più basso dei tre, dai rossi capelli ed un’acne alquanto spietata, era una spalla perfetta, data la faccia ebete che aveva, e si chiamava Keith; l’ultimo, invece, di nome Troy, era moro di capelli, occhi castani e poteva esser considerato obeso.
“Sentite, se non volete mettervi nei guai, dovete sapere che questo è il nostro territorio, e che dovrete pagare una piccola tassa per prendere l’autobus” tuonò Randy.
Liu si alzò, tentando quasi di nascondere il fratello minore dagli sguardi acidi dei tre ragazzi, mettendosi sulla difensiva. Sapeva della loro pericolosità, certo, ma non quanto potevano essere nocivi. Infatti Troy e Keith estrassero un paio di pugnali, mentre Randy se ne stava lì, strafottente, ben conscio di poter conciare entrambi i fratelli Woods per le feste con il solo utilizzo delle proprie mani.
Jeff era paralizzato dal terrore, fissava quelle due affilate lame, di ben dodici centimetri l’una, se non di più, ed esse riflettevano i suoi occhi, più azzurri e sbarrati che mai. Sentiva le proprie ginocchia tremare, la sua gola si era seccata e temeva per l’incolumità del fratello.
Randy afferrò il bavero della camicia di Liu e lo strattonò verso di sé con fare intimidatorio, facendo cenno a Troy di passargli il proprio pugnale.
Jeff, in quel momento, sembrò una statua che prendeva vita: poco prima che l’affilata lama sfiorasse la pelle di Liu in una leggera ma efficacie minaccia, sentì l’adrenalina dilatargli le arterie e, agendo sotto il comando di un istinto che nemmeno credeva di avere, tirò un pugno in faccia a Randy; esso chiuse gli occhi, mollando Liu e portandosi la mano a stringere il naso sanguinante, e tentò di affondare il coltello proprio dinanzi a se, volendo colpire alla cieca, incurante. Liu sbarrò gli occhi, ma la lama non affondò nel suo torace, non lo sfiorò nemmeno.
Aprendo un occhio dopo aver udito un terribile ’crack’, il maggiore dei fratelli Woods vide Jeff con una mano a stringere il polso di Randy, ormai piegato in un’innaturale angolazione, spezzato.
Keith lo caricò, a mo’ di toro, e Jeffrey, ancora scioccato da se stesso, quasi si fece travolgere. Tuttavia, poco prima dell’impatto, si scansò e fece per pugnalarlo col coltello rubato a Randy, la tentazione era forte… troppo forte…
Ma io non sono come loro, non voglio essere come loro, pensò. Ma fu costretto a farlo quando Keith per poco non lo pugnalò a sua volta. Come in trans, Jeff affondò la lama nel braccio sinistro del bullo.
Si limitò poi a farlo cadere a terra e a sedersi poco distante, tremando, sudato e ancora colmo d’adrenalina, col cuore che batteva forte contro lo sterno come a volerlo sfondare.
Troy, che nella rissa si era beccato un anonimo pugno nello stomaco, era accanto a Randy, mentre esso si stringeva la mano al petto.
“Jeff” disse Liu, inginocchiandoglisi di fronte.
“Liu…” mormorò lui per poi alzarsi di scatto e stringere le spalle al fratello con uno sguardo spaventato e appannato dalle lacrime. “Stai bene?”
“Dovrei chiederlo io a te, non avevi mai fatto così”
“A-avevo paura” mormorò il giovane, scoppiando in un silenzioso pianto liberatorio.
Il terrore era ancora lì, radicato nel profondo del suo essere, lasciandogli la mente in bianco e allo stesso tempo colma di tanti – troppi – pensieri. In quella confusa matassa, una sola domanda era chiara: perché la voglia di accoltellare uno di quei tre era ancora così forte e seducente?
“Vieni, andiamo via da qui” disse il maggiore, facendo alzare il fratello di peso, scortandolo fino a scuola, col tacito accordo di non dire nulla a nessuno. Liu fece togliere maglietta a Jeff, sporcata da qualche schizzo di sangue, e per non lasciarlo a petto nudo gli cedette la propria felpa bianca, quella che Jeff amava tanto rubare.
Arrivato a scuola, Jeff si calmò abbastanza da poter sorridere e… oh, era stato così bello ripagare quei bulli con la loro stessa moneta…
A scuola, durante i cambi dell’ora e a ricreazione, fece conoscenza con molti altri studenti, si divertì veramente.
Era strano. Stare tranquillamente in mezzo agli altri senza essere il loro zimbello, era strano. Una meravigliosa, inebriante stranezza mista alla soddisfazione di aver difeso il fratello.
 
Il mattino dopo un paio di poliziotti bussarono alla porta di casa Woods.
Ci furono discussioni, incredulità, paura.
Jeff sentì una stretta al petto quando Liu consegnò la maglia sporca di sangue, una maglia che, come erano abituati a fare, condividevano, come qualche altro indumento, dicendo di averla usata il giorno prima.
Liu era più alto e muscoloso di Jeff, la maglietta era stata nascosta nel cassetto del comodino della sua camera, e ora si diceva colpevole. I poliziotti non ebbero esitazioni: lo arrestarono per portarlo in centrale, intendendo fare approfondimenti sulla questione, interrogarlo e vedere se considerarlo davvero colpevole.
“No! Liu, no! Sono io! Sono io il colpevole!”
“Jeff, stai zitto” ringhiò Liu, mentre veniva scortato verso l’auto delle forze dell’ordine.
Jeff provò a seguirli, ma fu bloccato all’ingresso dal padre.
“Liu! Digli di incolpare me!”
Le lacrime rigavano il viso di Jeff. Ancora una volta – una volta di troppo – era stato Liu a difenderlo, e lui non poteva farci niente, suo fratello era stato troppo previdente e furbo.
Non potendo fare altro, il ragazzino salì lentamente le scale, per poi chiudersi in camera propria, mentre sua madre si lasciava cadere a terra, delusa, amareggiata, disperata, e iniziava a piangere a sua volta, rumorosamente.
Il trasferimento avrebbe dovuto significare speranza, una nuova vita, felicità. Invece no, quella ‘speranza’ lo aveva solamente illuso, beffeggiato come facevano i suoi vecchi compagni di classe, e ora gli aveva portato via Liu, gli aveva distrutto quel poco che gli rimaneva della vecchia vita.
Il mattino dopo dovette andare a scuola, ma non era il ragazzo solare che i suoi compagni avevano visto durante il suo primo giorno, era un Jeffrey Woods spento, quello che vedevano, morto.
Spezzato.
Trovò una lettera sul proprio banco.
Essa diceva: “ Jeff, sappi che hai un amico nel quartiere. So la verità, andrò alla polizia e dirò loro ciò che ho visto. – J”
Strane storie sfociavano dalle bocche degli ignoranti riguardo l’arresto di Liu, la più assurda diceva che Liu aveva tirato a Randy un cazzotto così forte che il naso gli era spuntato dall’altra parte della testa. Jeff le odiava, quelle cazzate, le odiava perché non erano sul suo conto e perché lo isolavano: appena entrava in una stanza tutti si ammutolivano, sperando che non intuisse i loro discorsi, erano tutti esageratamente gentili, premurosi, quando si degnavano di parlargli.
 
Tra i sensi di colpa, la preoccupazione e l’attesa di notizie sul conto di Liu – notizie che non arrivavano – arrivò sabato.
“Jeff, oggi c’è la festa di Billy”
Il ragazzo guardò la donna che, davvero, non glielo aveva detto se non in quel momento.
“Non ci voglio andare. È solo un bambino e poi…”
“Lo so, Jeff. So cos’è accaduto, pensi che non m’importi, che non ci stia male? La vita, però, va avanti. Deve andare avanti. Ti prego, solo un piccolo sforzo”
Con un cenno d’assenso, il giovane si alzò dal letto nel quale si era seduto a leggere. Si obbligò ad alzarsi, indossò dei jeans, le vans nere e una t-shirt a caso, ma sua madre lo obbligò a cambiarsi, così sostituì semplicemente la maglietta con una felpa. Ignorò le proteste della madre e partirono. I suoi genitori erano elegantemente vestisti: Peter vestiva con uno smoking abbastanza costoso, che solitamente riservava alle riunioni lavorative, mentre Margaret, così vanitosa e narcisista, era vestita con un abito color acquamarina chiaro, era privo di spalline, la schiena era scoperta ed era leggermente scollato, arrivava fino ai piedi della donna, abbinandosi alle scarpe coi tacchi, agli orecchini e alla collana di perle – un prezioso cimelio di famiglia.
Jeff li trovò oltremodo ridicoli: era la festa d’un semplice bambino, quella alla quale si stavano recando, non era la festa d’un principe!
Barbara li accolse tutti e tre a braccia aperte, indicò a Jeff il giardino dove v’erano i bambini – tutti di massimo sei anni. Ma che cazzo ci faccio io qui?, si chiese il giovane Woods.
Già, tu sei lì e Liu è in carcere, gli disse una perfida voce – quella del senso di colpa – nella sua testa.
Billy, reso meno timido dalla felicità, gli si avvicinò, porgendogli un cappello da cowboy e una pistola giocattolo. Jeff sorrise al piccolo, più per educazione che per altro.
“Auguri, Billy!”
“Grazie! Vuoi giocaue ai cowboy?” disse Billy con quel difetto di pronuncia tipico dei bambini.
“No, sono… sono troppo vecchio per queste cose”
“Per favoue”
“Uff… va bene”
Il ragazzino si mise il cappello e finse di prendere di mira Billy.
Pian piano iniziò a giocare veramente, con un misto di malinconia e divertimento ricordò quella volta che lui e Liu avevano fatto il medesimo gioco. Il gioco lo distrasse a tal punto che si divertì davvero, per un momento non sentì più quel macigno pesargli sulla coscienza.
Si stava bene senza quel dannato macigno, si sentiva leggero, ma poi… oddio, poi li sentì arrivare sui loro dannati skateboard. Ebbe un tuffo al cuore, il petto iniziò a pesargli più di prima perché al senso di colpa s’era aggiunta la paura, la paura che potesse succedere di nuovo, di sporcarsi di nuovo le mani di sangue e che qualcun altro ci rimettesse a causa sua.
Randy si fermò davanti al giardino, fiero, acquisito forse più per un coraggio dovuto al non aver mai incontrato prima d’allora qualcuno che lo contrastasse che per intelligenza. Troy e Keith gli erano alle spalle, influenzati dal coraggio del loro capo, un po’ come astri che brillavano della luce riflessa del loro Sole, anche se Keith, con la pugnalata al braccio ancora dolente, era almeno un po’ sull’attenti.
Jeff si bloccò sul posto, ignorando Billy che nell’euforia del gioco non s’era accorto dei tre nuovi arrivati e gli aveva sbattuto contro.
“Tu” disse Randy, senza aggiungere altro.
Il suo tono lasciava trasparire puro odio. In fondo era risaputo: a Randy non piaceva perdere, se puntava una vittima, non era soddisfatto finché non l’aveva spezzata totalmente. Ma questa volta era stato sfidato, questa volta sarebbe andato oltre.
I bambini non facevano caso ai ragazzi, giocavano tranquilli, tenendosi però un po’ lontani, fino a quando Randy non si scagliò contro Jeff; allora i bimbi urlarono, mentre Keith e Troy puntarono su di loro un paio di pistole, prese illegalmente chissà dove, chissà da chi – probabilmente le avevano rubate.
Randy e il suo avversario caddero a terra, azzuffandosi. Jeffrey tentava semplicemente di evitare d’esser colpito, ma quando l’altro tentò di strozzarlo, gli diede una testata in pieno viso.
Gli scagnozzi di Randy urlarono qualcosa che il minore dei fratelli Woods classificò come una minaccia a chiunque si fosse intromesso.
Dopo esser stato preso a pugni nello stomaco, Jeff osservò Randy alzarsi e sentì dei calci impattare nel suo costato; una fitta particolarmente acuta di dolore lo fece urlare – che gli si fosse incrinata o spezzata una costola? Una fitta di dolore gli appannò lo sguardo quando Randy lo pugnalò ad una spalla.
Il giovano tentò di alzarsi e quando, barcollante, ce la fece, tentò di aprire la porta su retro della casa di Billy, mentre alcuni genitori portavano via i figli e i marmocchi urlavano. Doveva allontanarsi, doveva allontanare Randy dai bambini e cercare qualcuno che potesse aiutarlo. La porta non l’aprì lui, non direttamente almeno, dato che il suo avversario lo afferrò per il colletto della t-shirt e lo sbatté contro la sorprendentemente cedevole porta, aprendola. Jeff tentò di rialzarsi ma fu atterrato da un calcio.
Possibile che nessuno… che nessuno lo aiutasse? Che nessuno chiamasse la polizia? Era ridicolo.
Fu sballottato nella sala da pranzo. Colpì il mobiletto degli alcolici e gli cadde addosso una bottiglia aperta di vodka. La bottiglia non gli fece molto male, ma l’alcolico gli inzuppò i vestiti.
“Sai qual è la cosa più bella?” disse Randy. “Io ho mandato tuo fratello in carcere, sto per ammazzarti e poi ammazzerò anche lui. Il bello è che nemmeno ci rimetterò: mio padre è un giudice. Mi parerà il culo. E ora non c’è più nessuno che possa pararlo a te”
Stavolta aveva esagerato.
Stavolta Jeff non ci pensò, semplicemente afferrò una spranga di ferro, appoggiata al camino lì vicino, e colpì Randy talmente forte da farlo cadere. Gli si mise sopra a cavalcioni, lo picchiò così selvaggiamente… i suoi pugni prima e la spranga dopo lo colpirono così ferocemente da ucciderlo – un arresto cardiaco, avrebbero detto i medici più tardi, causato da un arresto cardiaco.
Jeff corse su per le scale, sentendo Troy e Keith rincorrerlo e sparargli contro i pochi colpi di pistola che avevano, mancandolo di striscio; lui si nascose in bagno, stringendo la spranga tra le dita, contraendole in maniera compulsiva.
Qualcosa si era infranto dentro la sua psiche, il suo unico pensiero era uccidere per non essere ucciso.
Troy fu il primo ad entrare nel bagno. Grosso errore: si ritrovò il cranio fracassato. Keith fu più prudente, lo colse alle spalle e lo spinse su un mobile, ma per poco non ci lasciò la pelle quando Jeff lo attaccò.
Jeff non sentiva nulla, solo un fischio acuto nelle orecchie. Non uccise Keith, poté solo ferirlo: il criminale infatti disse qualcosa riguardo la vodka, disse qualcosa simile ad un ‘vai a dormire’ e gli diede fuoco con un accendino.
Jeff urlò, fino a quando le corde vocali non lo tradirono, preso dal panico, come un animale, corse nel giardino, ruzzolando giù dalle scale. Non si accorse nemmeno di svenire.
 
Quando si svegliò, Jeff aveva solo un pensiero: uccidili, o loro uccideranno te.
Preso dal panico, fece per alzarsi, rinunciandoci dopo una tremenda fitta di dolore; era tutto buio, era forse cieco?
Ancora inebetito dagli antidolorifici, sobbalzò quando qualcuno – un infermiere? – gli tolse delle bende dal viso. Strinse gli occhi, non ancora abituato alla luce della stanza, intravide alcune figure sfocate e si allarmò.
Uccidili, o loro uccideranno te. Vai a dormire. Fiamme.
Urlò, ma fu calmato da un abbraccio delicato.
Liu. Liu era lì, con lui. Ma a Jeff non importava, non più. Il suo cervello era andato in frantumi.
Anche nei giorni seguenti, in cui venne visitato da uno psicologo, in cui ricevette la visita di tutti i propri famigliari, si sentì indifferente al loro affetto.
Uccidili, pensava, o loro uccideranno te. Vai a dormire. Fiamme.
I giorni passarono vaghi, ognuno uguale agli altri, e Jeff sembrò migliorare, specie con suo fratello, i medici dissero che aveva sviluppato un trauma psicologico strutturato.
“State attenti” disse il medico curante, “potrebbe avere degli attacchi di panico o rabbia, istinti autolesionisti, incappare nei trigger. Dategli le medicine che gli ho prescritto. Al minimo problema, chiamatemi senza esitare”
Solo allora a Jeff furono tolte totalmente le bende dal viso. Ignorando i visi allibiti dei presenti volle guardarsi allo specchio.
I suoi capelli erano quasi totalmente bruciati, ve n’erano pochi e radi ciuffi sparsi totalmente a caso, la sua pelle, dov’era totalmente ricresciuta, era bianca, sembrava essersi inspessita ed aveva un aspetto… strano, sembrava fosse bagnata, ma era solo colpa dei punti in cui non era ancora totalmente ricresciuta, il suo naso era quasi irriconoscibile, le narici erano più dilatate del normale, causa la carne bruciata.
Sua madre si era già protesa per abbracciarlo, ma la sua reazione la sorprese: non pianse, non urlò, ma rise. Una risata orribile, che avrebbe fatto accapponare la pelle a chiunque, che sgorgava da due bruciate labbra rosa chiaro.
Jeff fissò il proprio nuovo viso, il viso di chi sapeva difendersi, sopravvivere, di chi sapeva ripagare chiunque con la propria moneta. Un viso bellissimo.
“Dottore” chiese timidamente Margaret, “mio figlio è… è pazzo?”
“Beh, è solo traumatizzato. Ora portatelo a casa, fatelo riposare, ci penseremo noi a venire a monitorare il suo stato di salute psichica. Solo così potremo dirle se è recuperabile”
“Grazie”
La sua famiglia lo portò a casa, facendo un lungo e silenzioso tragitto in macchina; quando scese dal veicolo incrociò lo sguardo di Jane, cosa che a quanto pareva la turbò.
Come quando s’erano appena trasferiti, Jeff fu il primo ad entrare in casa, spalancando la porta, respirando a fondo.
 
Era felice. Euforico.
Era triste. Disperato.
Era arrabbiato. Furioso.
Non poteva sorridere, non voleva sbattere le palpebre per non rivivere quei momenti di fuoco e dolore, quei momenti che lo avevano reso così meraviglioso ma che erano così terrificanti, non voleva piangere perché le lacrime sono per i deboli, non voleva smettere di vedere il proprio viso nemmeno per un secondo, no  voleva dormire.
Coltello. Sangue. Lacrime. Fiamme.
“Ahahah”
Si chiuse in bagno con un coltello da cucina e un accendino. Sì, quella visione gli aveva fornito la soluzione ai suoi problemi.
Con la punta del coltello incise un macabro sorriso lungo le proprie guance, ignorando il dolore, a denti stretti; era orribile e meravigliosa la sensazione di quella fredda lama che si faceva strada nelle sue calde carni, mentre il sangue colava lungo il suo viso e gli inondava la bocca, stuzzicando le sue papille gustative col proprio sapore ferroso. Mollò la presa sul coltello, lasciandolo cadere nel lavandino abbondantemente bagnato di sangue. Con un panno si pulì il viso alla meglio, poi si disinfettò le due ferite autoinflitte, profonde ma non tanto da trapassare totalmente la carne. Le tamponò fino a che l’emorragia non si fermò quasi del tutto.
Era debole, il sangue perso era troppo, quindi decise di riposarsi mentre si medicava – pazzo sì, totalmente scemo no. Si riposò per almeno un’ora, poi decise di andare avanti col suo lavoro. Avrebbe voluto bruciarsi le palpebre, ma il dolore era troppo, e non voleva accecarsi. Come avrebbe potuto godersi quel suo meraviglioso e nuovo viso da cieco?
Provò a sorridere appena, ma le carni lese si fecero sentire.
Stava sorridendo, avrebbe sempre sorriso, d’ora in poi. Ma perché faceva così male?
 
Margaret si svegliò.
Aveva sete, quindi volle andare in cucina però, passando dinanzi la porta del bagno, sentì qualcuno… stava piangendo dal divertimento? O stava ridendo per coprire il pianto?
Preoccupata, aprì la porta.
I suoi occhi affogarono nel rosso del sangue che spiccava nel bianco bagno. Ve n’era ovunque: nel lavandino, nelle piastrelle, nella tendina di plastica della vasca da bagno…
Appoggiato al muro debolmente, Jeff emetteva la risata più triste che si fosse mai sentita.
“Jeff…”
“Mamma… haha… ero così triste: tu e papà pensate solo a voi stessi, anche quando Liu era in prigione. Ero solo”
“Jeff, che cos’hai fatto…”
“Forse sembro felice, ma l’unico modo che ho per sorridere davvero è quello di tagliarmi da orecchio a orecchio… Non sono bellissimo, ma’? Bello come vuoi sempre apparire tu?”
La donna indietreggiò.
Era così terrorizzata che non ascoltò quelle sottintese accuse, quell’accusa di non esser stata una brava madre, di essersi curata solo delle apparenze. Voleva solo scappare da quello che era stato suo figlio.
“S-sì, Jeff… sei bellissimo…”
Margaret ritornò in camera da letto e stava per svegliare il marito quando…
“Lo so che mi hai mentito, ma’. So che non t’importa. Non sono bello, secondo te, vero? Dovrei vestirmi meglio, eh? Quand’è stata l’ultima volta che mi hai chiesto se sto bene?”
Jeff strinse il manico del coltello e lo affondò nello stomaco della donna; non si era mai sentito così libero, così soddisfatto. Chiunque avrebbe provato ciò che aveva provato lui in tutti quegli anni. Chiunque.
Sì. Li avrebbe mandati tutti a dormire, come aveva fatto Keith in quei dannati minuti che si ripetevano in un dannato loop nella sua mente.
Finì frettolosamente anche suo padre, sgozzandolo, poi si diresse, come in trance, la camera di Liu.
Pensò un attimo a Jane. Era lei che gli aveva scritto la lettera, che aveva fatto scagionare Liu. Era lei che aveva spento le fiamme che avevano dilaniato il suo corpo, a quella dannata festa. Lei gli era stata amica. La ringrazierò, la renderò bella come me, la renderò come me, pensò Jeff, guardando dalla finestra più vicina la casa della ragazza. La vide e sorrise orribilmente, sbattento la punta del coltello sulla finestra per qualche volta.
‘tap-tap-tap’
Liu si svegliò, vedendo il fratello a pochi centimetri da lui. Era troppo buio perché vedesse quel sorriso inciso nella carne, ma si spaventò comunque.
Jeff gli tappò la bocca con una mano; un raggio di luce lunare lo illuminò e Liu poté vedere il suo viso tumefatto, quel viso così spaventoso…
“Vai a dormire, Liu, vai a dormire…” mormorò Jeff a fatica. Parlare faceva così male…
Pugnalò più e più volte il fratello, godendo del caldo sangue che lo sporcava. Ma poi si fermò, lasciandolo in fin di vita.
Portò i corpi senza vita dei suoi genitori in cucina e li mise a tavola, come se fossero stati pronti a cenare, assieme a quelli dei genitori di Jane, che avevano avuto la sfortuna d’imbattersi in lui.
“Siate educati” ridacchiò.
Portò giù anche il fratello, nuovamente preso dalla follia, insensibile ad ogni cosa che non fosse la brama di uccidere. Incise dei sorrisi ai quattro cadaveri e a Liu.
A Jane sarebbe piaciuto, vero?
 
Dopo aver sistemato Jane, dovette scappare, udendo le sirene della polizia in lontananza.
Si rifugiò in un bosco fitto dopo aver rubato la bianca felpa di Liu e dopo averlo raggiunto in un’ora di corsa. Si accasciò contro un albero, stanco, debole, eppure euforico.
Stava bene. Era quasi felice. Ma poi… poi la follia omicida che lo aveva colpito sembrò svanire, lasciandogli dei terribili attimi di lucidità.
Liu.
Aveva quasi ucciso Liu.
E perché, poi? Per farla pagare a chi lo aveva ferito… ma lui non lo meritava.
“Oddio…” piagnucolò, gli azzurri occhi gonfi di improvvise lacrime.
Suo fratello sarebbe sopravvissuto? Ne dubitava, ci sarebbe voluto un miracolo.
“Perché? Perché?! Perché!!!” urlò. No, non poteva davvero averlo fatto… no, lui era Jeffrey Woods, aveva tredici anni ed era timido, dolce, goffo e preso in giro da molti…
Preso dal dolore, prese a calci dei sassi, si strinse nella felpa e pianse. Pianse e rise e si sentì morire.
Jane. Solo lei gli rimaneva, lei, che ora era bella come lui. Sarebbe andato a trovarla, le avrebbe fatto dei regali.
“Ha ha ha!”
Se ne andò zoppicando, sporco di sangue e polvere, condannato a rimpiangere l’unico che lo aveva protetto, l’unico che avrebbe dovuto proteggere da se stesso, dal mostro ch’era divenuto.
E, oh, pensò poi di non essere un pazzo assassino: lui semplicemente prendeva il proprio dolore e mostrava agli altri ciò che provava. Lo avrebbe dimostrato a chiunque.
Tre parole si stagliarono nitide nella sua mente: vai a dormire.

[UN ANNO DOPO]
 
(stralcio d’un giornale locale)
MINACCIOSO ASSASSINO SCONOSCIUTO È ANCORA A PIEDE LIBERO
Dopo settimane di assassinii il killer è ancora all’opera. Dopo alcune ricerche è stato trovato un ragazzo che afferma di essere sopravvissuto ad un attacco del killer. Coraggiosamente ci racconta la sua storia.
<< Stavo facendo un brutto sogno e mi svegliai nel bel mezzo della notte, >> dice il ragazzo, << notai che, per qualche motivo, la finestra era aperta, anche se ricordavo perfettamente di averla chiusa quando andai a letto. Mi alzai e la richiusi ancora una volta. Quindi mi riarrampicai letteralmente sul letto e tornai a dormire. Fu stato in quel momento che sentii una strana sensazione, come se qualcuno mi stesse guardando. Mi guardai intorno e per poco non saltavo fuori dal letto: nel raggio di luce che filtrava dalle mie tende c’era un paio di occhi. Non erano occhi normali, erano scuri e minacciosi. Erano cerchiati di nero e… mi facevano estremamente paura. Aveva dei lunghi capelli neri ed il viso era come… come se fosse stato bruciato. Poi vidi la bocca. Un largo, orrendo sorriso che mi fece rizzare ogni pelo che avevo sul corpo. La figura stava lì, guardandomi. Infine, dopo quello che sembrava un tempo infinito, pronunciò una sola frase. Una frase semplice, ma detta come solo un pazzo potrebbe fare. Disse, "Vai a dormire". Urlai, e forse fu quello che lo fece muovere verso di me. Tirò fuori da non so dove un coltello, puntandomelo al cuore. Saltò sul mio letto. Combattei, provai a respingerlo, pugni, calci, rotolai sulla schiena nel tentativo di levarmelo di dosso. Fu in quel momento che entrò mio padre, impugnando la sua pistola. Mirò all’uomo, ma prima che potesse premere il grilletto quello scivolò di lato, e lanciò il coltello in direzione di mio padre. Lo colpì alla spalla, e lui lasciò cadere la pistola. Probabilmente, se un nostro vicino non avesse chiamato la polizia, l’uomo avrebbe finito a coltellate mio padre. Gli agenti entrarono di corsa nel cortile, ma l’uomo li sentì prima che potessero raggiungere l’ingresso, perciò si voltò e corse in soggiorno. Sentimmo un forte colpo, come di vetri rotti. Quando corsi fuori dalla mia stanza vidi la finestra che dava sul retro a pezzi, e mi avvicinai velocemente, in tempo per scorgere l’uomo che svaniva in lontananza. Non dimenticherò mai quella faccia. Gli occhi malefici e freddi, il sorriso psicotico. Non lasceranno mai la mia mente. >>
La polizia è ancora sulle tracce del criminale. Se vedete qualcuno che corrisponde alla descrizione, contattate il dipartimento di polizia locale.
 
FINE
  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Creepypasta / Vai alla pagina dell'autore: Shetani Bonaparte