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Autore: genesisandapocalypse    07/04/2015    10 recensioni
Gli occhi di Luke sono vitrei, nascosti da una nube di pensieri e ricordi. Dice di aver superato tutto, ma nessuno ci crede, Eloise per prima, che riuscirebbe a mettere da parte il suo odio colossale per Michael Clifford, se potesse aiutare.
Essere scappata nell’università al centro di Sydney è stata un po’ una salvezza, per Gioia. E che lo sia pure per qualcun altro?
Ashton ha perso fiducia nelle donne da tempo e scorbutico com’è, riesce a togliersele di mezzo, ma ogni tanto sa anche essere gentile.
A Cardiff c’è stata per soli tre anni, Eva, abbastanza per tornare a Sydney con qualcosa di troppo e far rimanere secco Calum.
E Scarlett, non sa bene come, finisce più spesso in quel bar che in camera propria.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Un po' tutti
Note: Lemon | Avvertimenti: Triangolo
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Home is wherever I am with you.
 
INCONTRI E SCONTRI.
 
“Ogni incontro è portatore di mistero.”
“Spesso è più salutare uno scontro di un silenzio.”
 
11:13
“Tornerai più?”
11:14
Da dove? Non mi sono mosso da casa.
11:14
“Lo sai che non intendo quello.”
11:15
No, non lo so, cosa intendi?
11:16
“Tornerai più a essere te?”
11:18
Non ha senso.
11:19
“Niente ha senso, da quando sei così.”
11:19
Ma così come?
11:20
“Così.. non tu!”
11:22
Sono sempre io, Eloise.
11:23
“No, non lo sei, non sei più tu..”
11:23
Non è vero!
11:24
“Non mentire a te stesso, Luke.”
La conversazione finisce lì, non risponde più, ma cosa si aspettava? Potrebbe benissimo alzarsi, rimboccarsi le maniche e andare nella camera accanto, urlandogli contro di smuovere quel culo e di darsi una svegliata. Ma non ha il coraggio, perché questo cambiamento ha un motivo e fa male anche a lei, ricordarlo.
È solo che vederlo buttare la sua vita la distrugge.
Si tratta sempre di suo fratello, no?
Sospira, lancia il telefono sul materasso accanto a sé, si porta una mano fra i capelli biondi e sente gli occhi inumidirsi, ‘ché perdersi nei propri pensieri non fa mai bene, specie se si è soli e se non si ha più un appiglio.
Luke lo era, il suo appiglio. Sempre lì, a due passi da lei a sostenerla nelle peggiori delle situazioni, a fare a pugni con il proprio migliore amico per averle spezzato il cuore, a nascondere qualunque tipo di prova che potesse metterla in punizione, a pararla ogni qual volta si ubriacava e dovevano tornare a casa, con i loro genitori ad aspettarli a braccia incrociate e cipiglio severo.
Ora però è spento, non c’è più, non è più la sua roccia, è crollato anche lui. Non c’è più quel sorriso smagliante che riusciva a illuminare le strade persino nei giorni di pioggia, non ci sono più gli occhi luccicanti che potevano ammaliare persino Angelina Jolie o Megan Fox.
Al loro posto vi sono due labbra screpolate e martoriate dai denti, mai incurvate un minimo verso l’alto, se non per un sorriso falso tanto quanto i Reality Show, e due occhi sottolineati da occhiaie e marcati dai segni dell’insonnia, che non sono più di quell’azzurro luminoso e brillante, ma sono velati, come se ci fosse del vetro, davanti. Come se si guardasse un panorama da uno specchio.
Non ha lo stesso effetto, no?
Si incammina verso l’armadio e tira fuori le Converse, infilandosele, prima di mettersi la propria giacchetta leggera, ‘ché a Ottobre non fa tanto freddo, ma nemmeno si schiatta.
Apre la porta e cammina verso l’ingresso, passa di fronte alla camera di Luke e ringrazia Dio che è chiuso dentro, senza la possibilità di vederla e di farle domande, o di arrabbiarsi come solo lui sa fare.
C’è gente, per strada. Tutti vanno e vengono, con i loro sorrisi stampati in volto e le mani infilate nelle tasche.
Eloise sospira rumorosamente, prima di iniziare a camminare senza meta, un po’ per svagare, un po’ perché chiusa in casa si annoia troppo. È quasi tentata di andare a fare due chiacchiere con Calum, o far sorridere almeno un minimo quell’apatico di Ashton, ma in entrambi i casi potrebbe incontrare l’ultima persona che vorrebbe vedere al mondo: Michael Clifford.
Con quei capelli multicolore, le giacche di jeans e i pantaloni più stretti delle sue calze, o la risata rumorosa, gli occhi così chiari da far impressione e le labbra a canotto tali e quali a quelle delle persone di colore.
Lo odia, lo odia con tutto il cuore.
«Eloise, dolcezza!» e parli del diavolo..
Si sbatte una mano sulla coscia con una smorfia di rabbia, indecisa se girarsi e fucilarlo con lo sguardo o continuare a camminare come se nulla fosse.
Ma ormai Michael Clifford le è già di fianco.
 
È mezzogiorno e lui si ritrova di fronte alla porta, pronto ad aprirla ed entrare in classe dopo una settimana che non si presenta alle lezioni.
Potrebbe dire otto giorni perché ne ha saltate due la mattina stessa, preferendo rimanere a casa a oziare. Ma Eloise, con quei messaggi del cacchio, gli ha fatto salire il nervoso e, o beveva, ma se lo beccava Ashton era fottuto, o usciva.
Alla fine ha optato per l’università, che su per giù non c’entra un cazzo con le due opzioni, ma la psicologia gli piace e, se non fosse che è diventato la pigrizia in persona, ora avrebbe il massimo dei voti a tutti gli esami che ha saltatoegregiamente.
Nessuno fa caso a lui, qualcuno si gira per un paio di secondi ma poi torna ad ascoltare il professore.
Si siede più dietro possibile, obbligato, comunque, a ritrovarsi accanto qualcuno.
E questo qualcuno – più precisamente una ragazza – non l’ha mai visto in vita sua, per questo si blocca per qualche minuto a osservarne il profilo con curiosità e sconcerto.
Chi cazzo è? Pensava di conoscere a memoria ogni studente delle sue classi.
Vuole sempre avere tutto sotto controllo, poi, per questo si infastidisce.
La continua a squadrare con la fronte aggrottata e lo sguardo curioso e indispettito e, come a sentirsi osservata –  non le si può dare torto – la ragazza si gira e ricambia l’occhiata con confusione, ridacchiando per l’imbarazzo senza nemmeno accorgersene.
«Perché mi guardi? Ho qualcosa sul viso?» presa dal panico corre all’astuccio e ne tira fuori uno specchietto, agitandolo a destra e a sinistra per vedersi ogni parte del volto.
Luke rimane in silenzio per un attimo, unendo le labbra e  aggrottando la fronte, prima di bloccarle con una mano lo specchietto e scuotere la testa.
«Uhm, no, non hai nulla,» biascica, le parole quasi rotolano fuori dalla bocca a fatica.
Non gli piace parlare con gli estranei. O meglio, non gli piace parlare e basta.
Lei si gira, lo guarda a occhi un po’ dilatati e a bocca schiusa dalla sorpresa.
«Ah no? E allora perché mi guardavi in quel modo? Sono così poco presentabile, stamattina? Beh, sai, mi sono svegliata un po’ tardi ma.. ehi!, perché non ti ho mai visto in una settimana che sono qui?» aggrotta la fronte e osserva meglio il ragazzo da vicino, che non può fare a meno di svagare con gli occhi perché, semplicemente, l’essere osservato poco gli piace.
«Hm, è perché non ti ho mai visto nemmeno io,» biascica, passandosi una mano fra i ciuffi biondi, portando lo sguardo sull’astuccio della ragazza.
«È da una settimana che vengo, sono sempre stata presente, se fossi venuto mi avresti visto,» alza un sopracciglio e gli sorride apertamente.
«Sono stato poco bene di salute,» si stringe nelle spalle, troppo larghe secondo lui, e storce le labbra.
«Capito.. ma smettila di fare il timidone, ti prego, non ti si addice proprio con l’aspetto che ti ritrovi,» ridacchia di nuovo e Luke aggrotta la fronte.
Timidone? Lui non è.. ok sì, ma che aspetto si ritrova?
«Uhm.. cioè?» mormora, finendo per guardare le mani di lei, tanto è l’imbarazzo che trova, sotto gli occhi inquisitori della ragazza.
«Oh, insomma! Sei alto e grosso, potresti mettere paura a chiunque e, poi, sembra che ti spaventa persino un moscerino,» ridacchia, scoprendo i denti bianchissimi e dritti.
«Grazie?» la sente ridacchiare di nuovo. Alza gli occhi e riesce, per un attimo, a puntarli in quelli di lei, che sorride apertamente.
«Sono Gioia, comunque,» gli dice, facendogli un occhiolino che non sa bene come interpretare.
Gioia.. non è poi così sorpreso di un nome tanto particolare.
«Luke,» e non è sicuro di aver sorriso veramente, ma almeno ci ha provato.
 
Sono giusto le quattro del pomeriggio e lei è arrivata alla propria casa da poche ore.
Butta lo scatolone, l’ultimo, ripieno di magliette e pantaloni, accanto a letto e lo fa con tanta di quella rabbia che sua madre sussulta, portandosi una mano al cuore.
«Tesoro, non trattare così le tue cose, dai!» borbotta, posandole la mano sulla spalla e massaggiandogliela leggermente, cercando di calmarla.
Ma che può dirle, alla fine? Lei stessa proverebbe tutto quell’odio e quella rabbia.
Quel Jackson… Jonathan… Joshua? Uhm, dettagli. Insomma, quello lì non le piaceva per niente!
E aveva ragione, a non farselo piacere!
Ma, alla fine, preferisce che si siano mollati ora, sebbene abbia lasciato un certosegno nella vita della figlia.
«Oh, sono solo vestiti, il massimo che si rompe è la scatola!» ringhia in risposta, camminando con furia verso l’armadio, pronta a riempirlo da cima a fondo.
Si china, poi, con uno scatto sull’ultimo scatolone portato in camera, lo tira su e lo butta sul letto.
Non l’avesse mai fatto!
«Per l’amor del Cielo, Eva, fai piano! – urla sua madre, tendendo una mano verso di lei e usando un tono preoccupato – non devi fare sforzi né movimento così bruschi, lo sai!» e la bionda sbuffa, alzando gli occhi al cielo.
Sua madre è terrificante, iperprotettiva e sarebbe persino pronta a legarla a una sedia, se servisse a farla stare ferma e immobile.
«Mamma, ti prego, non trattarmi come un’invalida!» sbraita, portandosi una mano fra i lunghi capelli biondi.
«Tesoro! – sospira la madre, portando una mano sulla fronte – qui ci pensiamo noi, dai, perché non esci? La tua macchina va riparata, no? Infondo alla strada c’è un meccanico, potrebbe fare proprio al caso tuo, non pensi? Così, appena aggiustata, potrai andare a farti un giro e magari incontri qualche vecchio amico!» propone, entusiasta, sorridendo gentilmente alla figlia.
Eva ci pensa su. Non le va granché di far fare tutto ai suoi, non sono dei giovaniarzilli, insomma, ma non sia mai che becca davvero qualche conoscenza, quando avrà l’occasione di andare verso il centro. E le toccherebbe proprio riprendere i contatti con qualcuno, se vuole sopravvivere, ora come ora.
Annuisce, sospirando rumorosamente, prima di afferrare la propria giacca marrone e stampare un enorme bacio a schiocco sulla guancia di sua madre. Poi ci pensa, si ferma e la guarda.
«E come ce la porto la macchina?» aggrotta la fronte e aspetta la risposta, che non tarda ad arrivare.
«Oh, tranquilla, è molto educato e gentile, verrà qui lui stesso per controllare – borbotta, fuggente, avvicinandosi all’armadio e aprendolo leggermente di più – ora vai, su, non metterci troppo,» aggiunge, sorridendole docilmente.
Eva esce di casa e respira l’aria tiepida di Sydney che, davvero, le è mancata da morire.
Insomma, a Cardiff ci aveva quasi creato la vita perfetta, ma il cielo costantemente grigio e i quartieri troppo silenziosi non hanno mai fatto al caso suo.
Sydney, invece, è caotica, confusionaria, soleggiata.
E, lo ammette, si sente proprio a suo agio nella sua città natale.
Cammina lentamente, prima di individuare un’officina e allungare il passo, entrandoci dentro e stringendosi nelle spalle.
Non è molto grande, ha tre macchine a riparare e due fuori, fresche di pulizia. Nota, poi, due lunghe gambe uscire da sotto un’auto grigia, mentre le orecchie vengono infastidite da un rumore di qualcosa che avvita e si ritrova ad arricciare il naso per il forte odore di olio motore.
«Ehi! – grida, senza risultati, appena di ritrova accanto al metà corpo – Scusa? Dico a te!» riprova, prima di dargli un leggero calcio sulla gamba più vicina, riuscendo nel proprio intento.
Il rumore si ferma, vede il corpo strusciare fuori e la persona – identificata come un ragazzo – la guarda di sfuggita, coprendosi dal sole con una mano, prima di alzarsi e togliersi delle cuffiette che portava alle orecchie.
Ai piedi calza due scarponi marroni, porta dei pantaloni blu scuro di minimo due taglie in più, che calano per via delle bretelle penzolanti ai fianchi, e il busto è fasciato da una canotta bianca, piuttosto sporca, che lascia scoperti i bicipiti ben evidenziati.
Cerca di far meno caso possibile al viso macchiato di nero ovunque e inchioda gli occhi verdi in quelli di lui e.. che le venisse un colpo!
«Eva? – sgrana gli occhi e osserva, nuovamente, da cima a fondo il ragazzo – Eva Palmer?» no, non ci crede, non lui.
Dopo tre anni, tre fottutissimi anni, proprio il suo famoso ragazzo del liceo?
Cos’è, uno scherzo?
«Calum?»
 
«Signorina Young, sono davvero compiaciuto di come sta portando avanti la sua carriera, non mi pento mai di averla accettata nella compagnia, ha vinto molti casi per la sua giovane età e per la sua inesperienza,» Scarlett sorride elegantemente, accennando un movimento del capo per ringraziare.
«Ho ancora molto da imparare, ma è davvero gentile da parte sua, signor Clifford,» accavalla una gamba e finge un’espressione umile.
Finge, perché Scarlett sa di essere intelligente e abile nel suo lavoro, non ha motivo di essere modesta.
Il signor Clifford la congeda con un cenno della mano, sorridendole nuovamente, e Scarlett si alza lentamente, prima di avviarsi verso la porta per uscire dall’ufficio.
«Ah, signorina Young! – esclama il suo capo, facendola voltare nuovamente – mi è arrivata voce della grande notizia, congratulazioni! E spero che alla prossima cena di lavoro, possa conoscere il futuro marito di una donna tanto in gamba,» Scarlett arrossisce, portandosi i capelli su una spalla sola con un movimento fugace della mano.
«Grazie mille, signor Clifford,» e se ne scappa dall’ufficio, ‘ché, insomma, parlare del suo matrimonio le mette sempre ansia, come se dovesse sposarsi il giorno stesso.
Esce dall’edificio con lo stomaco che brontola e una grandissima voglia di un pasticcino.
I tacchi risuonano sull’asfalto e le luci dei fari delle macchine le sfigurano l’ombra per tutto il tragitto fino alla metro, prima che un bar attiri la sua attenzione.
Non ci ha mai fatto caso, troppo presa di arrivare in tempo alla stazione per riuscire ad arrivare presto a casa, che è piuttosto lontana dal lavoro, quindi si avvicina con una certa curiosità – aggiunta alla tremenda voglia di un dolce.
Entra dentro e sussulta appena un campanello suona, accogliendola e facendola sentire, per qualche secondo, al centro dell’attenzione.
È un bar adorabile, vecchio stile, con il muro fatto di mattoni e il parquet, i tavoli e le sedie in legno, una luce brillante e la musica del momento nella radio, messa a basso volume per non disturbare.
Qua e là vi sono coppiette e gruppi di amici che mangiano, giocano a carte o chiacchierano indisturbati.
Lei si avvicina lentamente al bancone, notando che, dietro di esso, non c’è proprio nessuno. Si gira attorno per cercare un cameriere, ma nulla.
Alla fine si siede sullo sgabello e poggia il gomito sul legno, sicura che, prima o poi, qualcuno arriverà.
E aspetta per minuti interi, quasi dieci, prima che un ragazzo spunti da una porta – accanto a quella dei bagni – e si avvicini lentamente alla propria postazione.
«Dio santo, ho aspettato per ore,» il ragazzo le rivolge un’occhiata di sufficienza, prima di scoccare la lingua e poggiarsi con i gomiti sul tavolo.
«Quanto sei esagerata, principessina! – borbotta, aggrottando la fronte – vedi di sbrigarti ora, non ho nessuna voglia di starti appresso,» e Scarlett schiude le labbra, indispettita.
«L’educazione l’hai lasciata a casa? – gli dice, inviperita – diavolo, il direttore sa chi ha assunto?» borbotta, più tra sé e sé, imbrociandosi, prima di poggiare il cellulare, squillante, sul bancone, senza l’intenzione di rispondere.
«Sembrerebbe di sì – alza le spalle e la guarda con altezzosità – magari perchésono io il direttore,» e Scarlett rimane in silenzio per qualche secondo, prima di scoppiare a ridere, sconcertata.
«Non sei un po’ troppo giovane per fare il capo, tu? – alza un sopracciglio e scocca la lingua sul palato – ah, questo bar finirà allo scatafascio,» mormora tra sé e sé, facendo partire un’occhiata affilata dagli occhi d’ambra del ragazzo di fronte a sé.
«Ti ho sentito! – ringhia tra i denti, inarcando le sopracciglia verso il basso – e non credo ci sia un’età per poter aprire un bar, se uno è intelligente basta,» si rizza con la schiena e incrocia le braccia al petto.
«Ah, intelligente? Ma per favore,» ride, battendo le mani una volta.
«Dio mio, basta, mi sono rotto il cazzo – sbotta lui, colpendo il legno con il palmo – dimmi cosa vuoi e finiamola qui,» le dice, facendole arricciare il naso per la poca finezza.
«Mi è passata la fame, sai,» ribatte lei, prima di alzarsi e filare dritta verso l’uscita, sentendolo borbottare qualche insulto nella sua direzione.
Arriva alla metro e corre, traballando un po’ suo tacchi, ‘ché le sta per partire.
Ed è esattamente quando si chiudono le porte che si accorge di aver lasciato il cellulare sul bancone.

 
***
Ehilà,
eccomi con una nuova storia.
So che è strano, visto che ho appena postato l'epilogo di 
Imprevisti ma questa storia sta rimurginando da un po' nella mia testa, sebbene abbia solo un capitolo e mezzo e non ho la più pallida idea di come andrà a finire. 
Spero che vi piaccia e magari ditemi cosa ne pensate.
Allora, inizia con dei messaggi mandati fra il nostro amato Luke e sua sorella Eloise. 
Luke non è il solito allegro, pieno di vita. E' più un morto che cammina e questa cosa, ad Eloise, proprio non va giù.
Lei, invece, è una specie di maschiaccio, con un odio profondo per Michael, che da cosa deriva?
C'è l'incontro tra Luke e Gioia, che è logorroica e ha fatto un'impressione un po' strana sul nostro ragazzo. 
Ah, il suo nome dice tanto.
Eva, invece, è una vera forza della natura, con la voce squillante e la testa sulle spalle. Scappata a Cardiff per tre lunghi anni, chi è il primo che incontra quando torna a Sydney? Ovviamente il suo ragazzo famoso del liceo, Calum Hood.
Infine c'è Scarlett, che è una donna di classe e odia la maleducazione e l'arroganza, esattamente ciò che è Ashton, il direttore di quel piccolo bar in cui, lei, è costretta a tornarci.
Allora, penso di dover finire qui, perché sto scrivendo un altro dannato capitolo con 'sta cosa.

Vi lascio con le foto delle ragazze sotto!
Bye bye,
Judith. 
 
  
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