Un uomo era fermo in mezzo alla strada, nel cuore della notte.
Pioveva.
Grosse gocce cadevano dal cielo plumbeo come tante lacrime, bagnando il completo elegante dell’individuo che nonostante il temporale appena scoppiato non accennava a muoversi per trovare un riparo.
Un lampo fulmineo illuminò abitacolo solitario.
E c’era il sangue.
Larghe pozze scarlatte coloravano il freddo e scuro asfalto, mischiandosi all’acqua scrosciante.
L’uomo rimaneva fermo, ed anche se all’apparenza sembrava calmo ed impassibile come una statua di marmo, in realtà dentro di sé stava turbinando una tempesta di emozioni.
Pregava a bassa voce.
Implorava un Dio nel quale non aveva mai creduto di perdonarlo, di espiare il suo peccato.
Supplicava la pioggia incessante di lavare via il sangue che gli imbrattava le mani ed i vestiti donando loro una strana sfumatura rossastra.
Un secondo fulmine, veloce come un pensiero, squarciò il buio notturno.
E c’era un cadavere.
L’individuo lo guardava con occhi vuoti e spenti, come se fosse lui privo di anima e non il contrario.
Tremava impercettibilmente.
Il coltello con il quale aveva strappato la vita a quell’innocente era ancora stretto nella sua mano, fradicia di sudore e di acqua.
Piangeva, Johnny.
Piangeva per ciò che aveva fatto, per l’omicidio commesso, per il dolore causato.
Per avere ucciso George.
Lo aveva visto accasciarsi di fronte ai suoi stessi occhi, aveva percepito il suo corpo disfarsi come gelatina tra le sue dita insanguinate.
Un altro lampo.
Un’altra visione fugace.
C’era Johnny.
C’era George.
E c’era la polizia.