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Autore: rachel_hetfield    09/04/2015    3 recensioni
Scossi la testa con nervosismo. Aveva uno sguardo così penetrante. Non poteva essere Gerard Way, lui era morto. Era morto ieri sera, davanti a me, davanti ai miei occhi, avevo assistito ai suoi ultimi secondi di vita. Mi sentii stringere il petto. Che sensazione orribile.
«Volevo chiederti se è libero accanto a te» disse con tranquillità, come se non avesse capito che ero terribilmente a disagio. [...]
Non sapevo nemmeno che faccia avesse Gerard Way, poteva essere chiunque. Forse il ragazzo della macchina era un soggetto, quello della panchina era un altro, e Gerard Way non era nessuno. Sì, non era nessuno. Dovetti ripetermelo diciassette volte per convincermi. Gerard Way non era nessuno. Non l’avevo mai visto. Stavo bene. Non ero pazzo.
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Ray Toro | Coppie: Frank/Gerard
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Mi piaceva quella stanza, era piccola e spoglia e non mi faceva pensare a nulla, aveva quell’intonaco un po’ vecchio e scrostato di un colore indaco chiaro e ammuffito, dava l’impressione di essere resistito a tante persone, a tante tragedie, a tanta tristezza, e anche alla follia. Ogni tanto giravo intorno a me stesso facendo girare vorticosamente la testa e ricadere sul materasso, per trovare qualcosa da fare che non sia stato fissare il muro. A lungo andare quel colore mi faceva diventare ancora più pazzo.
Non avevo visto Gerard da quando ero lì, mi mancava da morire, mi mancava come l’aria. Mi aveva detto addio e se n’era andato, mi aveva lasciato da solo quando avevo bisogno di lui.
L’ospedale non era così male dopotutto, se non fosse stato che non potevo ascoltare la musica, neanche avere il mio cellulare o i miei CD. Gli infermieri dicevano che qualunque oggetto avrebbe potuto danneggiarmi, ma la musica no, non mi danneggiava.
Dicevano anche che mi stavano aiutando, che mi stavano curando e sarei tornato un ragazzo normale, e avrei voluto tanto essere un ragazzo normale, ma se ciò implicava stare lontano da Gerard e non rivederlo più, allora la normalità era solo un problema.
Mi piaceva essere pazzo quando c’era lui, mi piaceva essere anormale e diverso dagli altri. Gerard mi faceva sentire pazzo e felice, e sicuro. Lì Gerard non c’era, era sepolto sotto tre metri di terra e sigillato in una cassa come se potesse scappare. Ma lui era già scappato, idioti, ed era con me. Non più, almeno. Non eravamo più insieme da due mesi, e sentivo la sua mancanza come un pesce fuor d’acqua. Non avevamo passato abbastanza tempo insieme, non avevo potuto sentire abbastanza le sue labbra e mi pentivo ogni giorno che passava di aver tentato di mandarlo via più di una volta.
Che senso aveva essere normale se non potevi avere la persona più bella del mondo al tuo fianco?
Ma Gerard era al mio fianco, nella mia mente, e da un lato speravo che non se ne andasse mai più. Preferivo morire col suo ricordo che continuare a vivere senza sapere di aver conosciuto l’amore della mia vita, morto, ma almeno l’avevo conosciuto.
Più riflettevo su quelle parole più pensavo che ero davvero matto.
La serratura scattò e di nuovo entrò quell’infermiera che da due mesi mi rompeva l’anima con le medicine. Non le volevo le medicine, non ero malato. Eppure continuava a ripetermi “se vuoi guarire...” “con queste guarirai”, non ero malato, ero pazzo, e avevo letto sui libri che essere pazzi voleva dire essere innamorati, e lo ero, lo ero davvero tanto.
«Frank, non fare storie, devi prenderle» insistette quella mattina.
Scossi la testa con fermezza.
«Il dottore vuole che tu le prenda e devi farlo. Lo facciamo per il tuo bene.»
«Le medicine fanno male, me l’hanno sempre insegnato, alleggeriscono il dolore ma non eliminano il problema» risposi con aria di sfida.
Sbuffò. «Beh, queste il problema lo eliminano al cento per cento, ora prendi questo maledetto bicchiere e bevi tutto d’un sorso. E se nascondi la pastiglia sotto la lingua per poi sputarla te le iniettiamo.»
Rabbrividii. Afferrai il bicchierino di plastica senza delicatezza e bevvi il contenuto in un sorso, poi la guardai come per dire “contenta adesso?” e fece un’espressione di sollievo.
Prima di uscire si fermò sulla soglia. «Non vomitare, altrimenti ti facciamo pulire con la lingua.»
La guardai feroce e si chiuse la porta alle spalle. Non ero l’unico che non voleva i farmaci, nessuno li voleva. L’ora di cena sarebbe arrivata a momenti, dato che ci portavano le pastiglie ogni pomeriggio alle sei e trenta e ogni mattina alle otto e un quarto. Non ero uno abituato agli orari, ma avrei dovuto rispettarli, o mi avrebbero chiuso in isolamento, e non volevo, avevo paura di stare in isolamento. Quella stanza aveva le pareti bianche, era grande, e non c’era nient’altro se non un letto piccolo e scomodo al centro e con le asti per le flebo. Avevo visto che ci chiudevano un uomo là dentro, aveva provocato una rissa con un altro. Urlava, scalciava e rideva così forte da farmi raggelare, mi aveva anche guardato e detto “tu sei il prossimo”. Quella notte non dormii, restai a fissare la parete immersa nell’oscurità e la mattina dopo mi sentivo più pazzo e scorbutico del solito. Quando uscii nel corridoio mi guardava più di qualcuno, con curiosità, o immersi nella loro follia, all’improvviso vedevo la loro insanità come una cosa normale, come se non fossi l’unico. Erano riusciti a farmi impazzire davvero, invece che guarirmi. Avevo bisogno di essere guarito, e non lo facevano. Mi sentivo un cane abbandonato a cui somministravano iniezioni una dietro l’altra pur di non farmi scorazzare libero per la città rischiando di ferire nessuno, ma io non ferivo nessuno, non ero pericoloso, non volevo fare del male. Ero semplicemente innamorato, e lui mi amava. Lo sapevo che mi amava. Anzi no, non mi amava, perché se mi avesse amato davvero non mi avrebbe lasciato solo in questo posto che puzzava di siringhe e disperazione. E malattia.
Gerard mi mancava da morire, sarei morto per la sua assenza. In un senso logico o illogico, sarei morto. ero certo che sarei morto, presto o tardi, mi mancava troppo. Gli infermieri non lo capivano. Quando chiedevo se fosse passato a farmi visita, mi rispondevano che non sarebbe venuto nessuno, e non era vero, Gerard sarebbe venuto a prendermi, ne avevo la certezza. Mi amava, non poteva lasciarmi solo per il resto – breve – della mia vita.
Eppure ero pazzo. Sapevo anche questo.
Nella sala comune c’era una ragazza vestita bene, molto carina e curata. La osservai da lontano e quando si voltò a ricambiare lo sguardo lo distolsi subito, imbarazzato. La conoscevo, sicuro. Perciò mi avvicinai e mi sorrise radiosa.
«Ciao Frank» adesso il suo sorriso era più triste «sei ridotto... male.»
«Ti conosco» dissi.
«Sì, lo so, sono Jamia. La tua compagna di classe.»
Annuii trionfante. «Lo sapevo. Perché sei qui?»
Si strinse nelle spalle un po’ in imbarazzo. «Volevo... sì, volevo venire a trovarti. Con un po’ di storie, ma sono riuscita a venire. Ascolta, ti devo parlare.»
«Voglio uscire da qui, Jamia» mormorai «non sopporto questo posto. Ho bisogno di stare con...»
Le si illuminarono gli occhi come se sapesse di chi stavo parlando. «Con...?»
«Con lui. Con Gerard. Mi manca così tanto.»
Le cadde il sorriso. «Qui- qui potranno aiutarti, Frankie. Davvero. Sono dei bravi medici e... hai bisogno di cure. Vedrai che quando starai meglio uscirai da qui e potremo uscire insieme, andare al cinema...»
Avevo già sentito abbastanza. Anche lei era convinta che fossi malato.
«Vaffanculo» sibilai indietreggiando. Sperai non mi fermasse. Non lo fece. Non avevo bisogno della sua compassione, né delle sue cure, né dei fottuti medici. L’unica cosa che volevo veramente era sepolta sottoterra, ma io potevo vederlo, eccome se lo vedevo, ma non poteva entrare lì dentro. Nell’ospedale. Psichiatrico.
Ero in un cazzo di ospedale psichiatrico.
Perché ero pazzo.
Volevano curarmi, o forse cancellarmi la memoria. Non avevo niente da curare, la follia non era una malattia. Non potevo essere salvato. Mi avrebbero fritto il cervello con l’elettroshock, o chissà quali altri metodi dolorosi. Non volevo dimenticare, ero innamorato, e se lui fosse tornato? Se fosse venuto a prendermi? Non me lo sarei ricordato. E non saremmo potuti più stare insieme.
Mi sedetti su un divanetto in fondo alla sala, lontano da tutti, tenendomi la testa tra le mani, pensando a come fuggire, o evitare il cervello fritto. Non feci in tempo a pensare. Due uomini in bianco mi presero per le braccia e mi portarono via. Piansi tutto ciò che avevo da piangere. Forse urlai il nome di Gerard, ma non me lo ricordai. Non potevo ricordare. Sentivo già la friggitrice che mi faceva evaporare ogni ricordo.
Sentii frastuoni.
Un fischio potentissimo.
Non vedevo, ero cieco.
Non sentivo, ero sordo.
Non ragionavo, ero pazzo.
C’era Gerard, da qualche parte, in quella stanza, che mi stava urlando quanto mi amava. Avrei voluto ricambiare, ma ero anche muto.
Chi era Gerard? I dottori dicevano che non era nessuno, che non lo conoscevo. Bugiardi. Io me lo ricordavo. Ero innamorato di Gerard.
Dicevano che era morto. Cazzate. Mi aveva baciato. Mi aveva detto che mi amava.
Dicevano anche che sarei uscito da quel posto, mi dicevano tante stronzate, mi dicevano che stavo migliorando, ma io la notte piangevo e prendevo a pugni il muro. Volevo scappare.
Non sarei scappato, non c’era via d’uscita. Sarei rimasto là dentro per sempre.
Piansi ancora una volta pensando a Gerard, a quanto mi mancava. Non ci saremmo rivisti mai più.
 
 
 
«Ma quel matto che fine ha fatto poi? Lo facevo uno normale» rise Bob mentre sigillava la cartina, infilandosi poi la canna tra le labbra.
«Sta’ zitto. Non voglio neanche sapere dove sia e cosa stia facendo.»
«Iero in un ospedale per matti non resisterebbe neanche due settimane, figuriamoci a stare finché non lo curano. Anche perché, diciamocelo, una volta che ti chiudono in manicomio o ne esci morto o ne esci con qualche miracolo legale.»
Rabbrividii al pensiero di Frank Iero morto nell’ospedale. Non potevo permettermelo, ne valeva della mia coscienza, e io con la coscienza sporca non volevo vivere, neanche per sogno. Mi sentivo coinvolto nel suo dramma amoroso con una persona che neanche esisteva, ma che colpa ne aveva, era solo un povero matto che non era mai stato curato del tutto. Che cazzo di diagnosi gli avevano fatto, schizofrenia? Non era schizofrenico, era troppo ammattito per essere schizofrenico.
Giorni prima ero passato dal cimitero per lasciare dei fiori a Gerard, e c’era una coppia adulta. Riconobbi i tratti del padre, erano i genitori di Frank. Stavano osservando la foto di mio fratello. Chiesi loro perché fossero lì, e la donna mi disse che Frank se n’era innamorato, e lo aveva scoperto solo quella mattina grazie a una sua compagna di classe, Jamia, mi pareva si chiamasse. Era venuta a vedere chi fosse. Aveva capito tutto. Frank Iero era peggiorato, non aveva mai avuto le allucinazioni, mi aveva detto anche.
Il padre era stato accusato dal figlio di atti di violenza, ma non lo aveva mai toccato, cosa di cui invece Frank era convinto, e i filmati delle videocamere nascoste mostravano che il signor Iero era innocente. Mi disse che lo tenevano nell’ospedale psichiatrico del paese accanto, il Greystone Park.
Bob attaccò a discutere con Matt, quell’altro imbecille del suo amico fattone con il quale mi aveva tranquillamente rimpiazzato mesi addietro.
Non avevo voglia di fumare, e mi alzai dalla panchina e me ne andai a passo svelto, verso casa. Presi lo scooter, e guidai dritto verso una sola direzione: al Greystone.
 
«Frank Iero, dici?»
Annuii, deglutendo a vuoto.
«Sei un suo parente, un amico?»
Incrociai per un istante gli occhi al dottore riccioluto con le labbra a canotto, dalla targhetta potevo leggere “Toro R.”, quindi era il famoso dottor Toro che aveva il caso di Frank da anni. «No, sono... sono un conoscente.»
«Non so se posso dirti molte cose personali di Frank, però puoi dare un’occhiata al suo fascicolo.»
Mi porse una busta gialla contenente fogli, fotografie, dati medici. «Non posso vederlo?»
Scosse la testa, rammaricato. «Temo non sia più possibile.»
 
Frank Iero, anni diciotto, statura media, un metro e sessantanove, capigliatura castana, occhi nocciola, corporatura magra. Paziente dal 23 dicembre 2013. Riscontrati disturbi psicotici, tra le quali allucinazioni sviluppate, infermità mentale aggravata nel corso dell’adolescenza. Sotto la cura del dottor Ray Toro dall’anno 1998, diagnosticata schizofrenia, era stato dichiarato guarito nell’anno 2001. Riscontrati sintomi di schizofrenia nel 2012. Farmaci non assunti, malattia aggravata. Nel 2013 il paziente soffre di allucinazioni visive, tattili e uditive. Ricoverato nella clinica di Greystone fino al 9 aprile 2014.
 
Il primo foglio si concludeva così. Non diceva dove fosse, come stava, se si fosse ripreso. Continuai a guardare l’ultima data: 9 aprile 2014. Pochi giorni prima. Il giorno del compleanno di Gerard.
Mi tremarono le mani mentre poggiavo il foglio sulla scrivania del dottore, che mi scrutava con aria infelice. Non ero sicuro di voler leggere il secondo foglio.
Era stato trasferito, probabilmente, magari stava meglio.
 
Data del decesso: 9 aprile 2014
Luogo del decesso: clinica psichiatrica Greystone Park, NJ
Cause del decesso: suicidio per strozzamento
 
Un conato di vomito rischiò di uscire. Gettai il foglio per terra, tremando.
«Mi dispiace.»
No. Non doveva finire così.
«C’è una cosa che abbiamo trovato nella sua stanza che vorrei leggesti tu. Era indirizzata a qualche suo amico, non sappiamo chi o come rintracciarlo, magari tu lo conosci.»
 
 
Ciao Mikey,
non so perché voglio dirlo proprio a te. È davvero l’unica cosa che non so. Il resto però sì, e voglio dirti tutto quanto. Fai un bel respiro, siediti, non vomitare. Non so quanto schifo possa farti l’idea che un povero matto come me fosse innamorato del tuo fratello morto.
Perciò ti dico tutto, dall’inizio, alla fine, alla mia fine.
Non sono mai stato veramente pazzo, è sempre stata una roba clinica, capisci? Come nei film, dove ti incastrano e ti fanno credere pazzo da tutti quanti quando invece sei l’unico a sapere la verità. O, più semplicemente, quando il tuo migliore amico ruba l’ultimo cioccolatino del vassoio, lo vedi, mamma da la colpa a te e cerchi di dire che sia stato lui, ma non ti crede. Però tu sai la verità, non importa se non ti crede nessuno. E non importa se gli altri ti mentono pur di farti passare per bugiardo o per pazzo, come nel mio caso.
Io c’ero il giorno dell’incidente, ma non me lo ricordavo perché è stato il trauma. Quando mi hanno fatto la terapia per rievocare ricordi conservati nell’inconscio, ho rivisto l’incidente, e io ero nell’altra macchina, quella che ha ucciso Gerard. Prima di scontrarci io e lui, da lontano, ci siamo guardati negli occhi, terrorizzati ma anche dispiaciuti, come a dirci “scusami”. Eppure non l’ho mai sentito come un addio. Sapevo che in qualche modo quel ragazzo dai capelli rossi non era solo un’innocente vittima di mio padre che guidava ubriaco. Sapevo che c’era dell’altro.
Ho visto l’incidente in terza persona un anno fa, o poco più, quando ero in giro con mamma e altra gente ambigua che – a ricordarmene, oddio – non vedeva l’incidente. Lo vedevo solo io, come se la mia mente volesse dirmi “ehi, è successo, renditene conto, lo hai ucciso”. L’ho vista quella chioma rossa inerme che usciva dalla macchina. Ho sentito il suo cuore che cessava di battere. E mi stavo chiedendo perché lui e non io.
Poi, il giorno dopo, si sedette accanto a me nel parco.
Iniziò a seguirmi in casa. Mia madre non lo sapeva. Anzi, non poteva saperlo, lei non lo vedeva e non lo avrebbe mai e poi mai visto. Doveva essere me per riuscirci.
Mi piaceva stare con lui, mi faceva sentire protetto, mi voleva salvare da mio padre che non era altro che un folle omicida, e voleva uccidere anche me. Ma non ci è riuscito. Mi dispiace.
Mi ero innamorato. Capisci, non è una cosa da poco. Non potevo vivere senza la sua presenza.
Mia madre mi accusava di nuovo di non prendere i farmaci, e in effetti non li prendevo, non mi servivano affatto, o almeno ne ero convinto io. Tutti sapevano che ne avevo bisogno.
Mi hanno portato qui, a Greystone, sono stato qui dentro per più di un anno, capisci, un anno. Sono diventato ancora più matto. Senza vedere Gerard, non ero niente, non servivo a niente, mi sedavano quando davo di matto perché non mi lasciavano vedere mia madre, o quando un altro matto mi rompeva le palle e rispondevo per le rime. Se parlavo di Gerard con il dottor Toro lui mi diceva che non era nient’altro che un senso di colpa che non riuscivo a rimuovere, nient’altro che un’allucinazione.
Ma una semplice allucinazione non può essere così bella, Mikey. Spero tu sia innamorato. È una sensazione stupenda, quando sei con lei, o con lui. Ti auguro di innamorarti come io ero innamorato di Gerard, anche se il mio non era un amore sano. Ma non importa. È pur sempre amore.
Adesso ascoltami: leggi questa lettera, e poi bruciala. Non deve restare niente di me.
E ti prego, ti prego, quando vai da Gerard, lì dove dorme per sempre, digli che lo amo. Ti scongiuro di farlo. Io non posso uscire da qui dentro, in nessun modo che mi consenta di restare vivo.
Perciò, esco da qui. E vado da Gerard. Te lo saluto.
Grazie, Mikey. Mi sarebbe piaciuto essere tuo amico, in una vita normale. Ma la vita normale non fa per me. Quando leggerai questa lettera sarò sicuramente morto. È strano scrivere una lettera sapendo di essere morti. Sono già morto dentro da parecchio, da quando mi hanno strappato via da Gerard. Inutile mentire a se stessi.
Ti auguro il meglio.
Io starò bene. Starò meglio. Muoio prima che possano salvarmi l’anima.
Frank
 
 
Non riuscii a reggere tutto insieme. Svenni.
Starò bene. Starò meglio.
No, Frank. No dovevi.
Muoio prima che possano salvarmi l’anima.
Non hai niente da salvare. Non è colpa tua.
 
I suoi genitori decisero di cremarlo. E forse era meglio così. Non voleva che rimanesse niente di lui.
E, Frank, Gerard ti ama.
Si ricorda di te, tu non ricordi? Eravamo piccoli. Giocavamo tutti e tre insieme. Gerard era ossessionato da te. Ti cercava, era incollato a te. Ti amava. Ma tu hai deciso di amarlo troppo tardi.
Eravate destinati. Magari tu non mi crederai, Gerard neanche mi crederebbe, ma era così.
Ma l’importante era che lo sapessi io, non importava se non mi credeva nessuno.
 
 
«Ti piace l’arte, Frank? Dovresti sfruttare l’opera d’arte che c’è dentro di te, ma non lo fai. Voglio aiutarti in questo.»
Ti amo anch’io, Gerard.
 
 
SPAZIO AUTRICE
Scappo prima che qualche lancia mi trafigga il cervello va bene sì addio.
Scusate l’enorme ritardo... mi merito tanti insulti.
Niente da aggiungere.
Era scontato che finisse così.
Angelica
  
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