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Autore: Nina Ninetta    09/04/2015    4 recensioni
Yumiko ed Eri, due donne, una trentenne e una quindicenne, una madre e una figlia, catapultate dall’altra parte del Mondo, costrette a ricominciare tutto d’accapo, a confrontarsi con una cultura completamente diversa, lontane anni luce dal loro Paese d’origine: il Giappone. Ma Yumiko quel nuovo Paese lo conosce già in un certo senso, ha imparato a conoscerlo attraverso i racconti del padre di Eri.
N.B. Il titolo è tratto dalla canzone di Malika Ayane “E se poi” così come i titoli di ogni capitolo saranno presi da frasi del medesimo testo.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1
Tra questo mondo e un altro per trovare l’universo 
 
“Sono Derek Sheperd e questo è un ottimo giorno per salvare vite”
Il Dottor Stranamore sorrise con gli occhi alla tirocinante che aveva di fianco, il paziente era già disteso e addormentato sul lettino della sala operatoria, tutto intorno il silenzio e i visi dei presenti nascosti dietro a mascherine di un verde pallido.
Eri adorava quel telefilm americano. Aveva iniziato a vedere la prima stagione nel suo paese d’origine, in Giappone, poi trasferendosi in quello di suo padre si era resa conto che mentre da lei stavano trasmettendo ancora i primi episodi, lì erano avanti di diverse puntate. Certo, il doppiaggio nella sua lingua madre era tutt’altra storia e spesso capitava di non riuscire a seguire un discorso troppo lungo e complesso in quell’altra lingua, per fortuna che sua madre lo masticava piuttosto bene e quando poteva, quando il lavoro non la teneva impegnata per troppe ore, si sedeva con lei e le faceva la traduzione simultanea di quello che si stavano dicendo in TV. Solo sul sesso si era imposta il divieto di tradurre, o lo comprendeva da sé o si decideva una buona volta a studiare quella nuova lingua come Dio comanda. Eri però non credeva in Dio, quindi non si faceva neanche il problema di imparare la lingua di suo padre: lo spagnolo.
Aveva già visto quella puntata in cui il neurochirurgo salva la vita di un giovane affetto da tumore al cervello, sapeva anche che dopo quell’operazione sarebbe finito a letto con la sua amata tirocinante che aveva lo stesso cognome dell’ospedale in cui si svolgeva la fiction, mentre il suo personaggio preferito, che manco a dirlo era asiatica come lei e con gli occhi a mandorla come i suoi, si preparava a sposare il cardiochirurgo che per Eri era un gran figo.
In verità i ragazzi non erano ancora un argomento che le stuzzicava la fantasia, nonostante i suoi 15 anni, in generale erano poche le cose che le destavano curiosità. Non si era mai chiesta se il problema fosse il nuovo Paese, dove la gente era tutta cordiale eccetto quelli della sua età. I maschi le stavano alla larga perché era diversa dai canoni di bellezza a cui aspiravano e cercavano in una donna. Le ragazze la guardavano con un che d’interrogativo, erano abituate a vedere orientali dagli occhi a mandorla (e lei ce li aveva), dai capelli lisci e scuri (e aveva anche quelli), con la pelle chiara e lei la pelle chiara non ce l’aveva. Colpa di suo padre. Anzi, di sua madre che si era innamorata di uno come lui.
Ah, ma “obasaan”, la nonna, gliel’aveva detto a suo tempo:
«Troppo diverso da te, nel cuore e nella mente» e “obaasan” aveva avuto ragione, in una maniera differente da quella che aveva inteso con le parole pronunciate, ma aveva previsto che sua figlia avrebbe sofferto d’amore «Tua madre sarebbe morta d’amore senza di te» le diceva lavandole i capelli e la schiena, ma Eri era ancora troppo piccola e immatura per comprendere appieno il significato di quelle parole.
Sentì i passi di sua madre Yumiko, chiuse gli occhi e fece il conto alla rovescia 3, 2, 1 …
«Eri spegni, dobbiamo andare»
«Macchia può venire con noi?»
«No, non può …» la donna si voltò a guardare sua figlia, avevano così pochi anni di differenza che la gente le scambiava per sorelle, ma lei ci teneva a precisare che era sua figlia, o per lo meno lo faceva in questo nuovo mondo dove la gente non la conosceva ed era facile indossare i vestiti di un’altra persona. Lì poteva essere chiunque volesse, una persona senza passato venuta da lontano e con un solo biglietto da visita: il cognome che sua figlia aveva ereditato dal padre.
Non perché fosse una persona famosa lì nel suo paese d’origine, ma semplicemente perché era uno di loro. Quando si era trasferita in quella casa che aveva comprato con i soldi che lo stato giapponese le aveva reso dopo l’incidente mortale in cui il suo innamorato era stato coinvolto, i vicini l’avevano guardata con sospetto, solo dopo aver messo davanti alla porta d’ingresso la targhetta con il cognome Morales si erano tranquillizzati ed erano scesi in strada ad aiutare una donna di trent’anni circa e una ragazzina di quindici a portare gli scatoloni in casa, formando una specie di catena umana su per le scale che terminava direttamente sull’uscio dell’appartamento. Questo non era molto grande, ma ben fatto e suddiviso in due stanze, un bagno e una cucina adiacente al salone, inoltre le due padrone indiscusse avevano fatto di tutto per renderlo accogliente, ridipingendo ogni stanza di un colore diverso. L’unica cosa a cui la mamma di Eri non si era ancora abituata dopo un anno, era il fatto di camminare per casa con le pantofole. Nel Paese in cui era nata e cresciuta una delle abitudini più radicate era di togliere la scarpe all’ingresso e percorrere il pavimento con solo i calzini ai piedi. Lì non poteva farlo, innanzitutto perché il pavimento non era in parquèt e se d’inverno le mattonelle si gelavano, d’estate con la calura lasciava centinaia di pedate che spiccavano fastidiose, quindi il giorno dopo il trasferimento era stata costretta a comprare un paio di ciabatte.
Eri si alzò dal divano in tutto il suo metro e cinquantacinque, porgendo a sua madre Macchia, una cagnolina rachitica che avevano trovato una sera davanti il portone di casa mezza morta per il caldo. L’avevano presa e accudita, innamorandosene senza limiti, confondendo ad un certo punto chi aveva salvato chi dalla solitudine. Macchia era tutta bianca, con una macchiolina nera sul muso, da cui poi era scaturito il nome di battesimo. Yumiko sospirò e le disse che poteva portare Macchia con sé – proprio non resisteva a quelli occhietti castani tenerissimi che la guardavano supplichevoli – a patto che si sedesse sui seggiolini posteriori con lei e la tenesse ferma.
 
E in effetti Macchia andava tenuta bella stretta, poiché viaggiare in macchina le piaceva da matti e per la contentezza si metteva a saltare e scodinzolare davanti alla faccia di Yumiko, tentando di leccarla tutta.
Eri sarebbe potuta andare a scuola anche in autobus, o addirittura a piedi se si avviava per tempo e percorreva a passo spedito gli ottocento metri che la separavano dall’istituto, ma dopo sei mesi di scuola non aveva ancora trovato il coraggio di aspettare il bus alla fermata davanti casa sua, popolata sempre da studenti, troppi studenti, né tantomeno quello di salirvi a bordo e sentirsi gli occhi dei presenti puntati addosso. Yumiko continuava a dirle che era solo una sua impressione, che nessuno le guardava in maniera strana, che anche loro come tutti lì avevano due occhi, un naso e una bocca:
«I nostri occhi sono diversi da quelli degli altri»
«Se li guardi attentamente non sono poi così tanto diversi»
«“Obasaan” mi ha insegnato che è cattiva educazione fissare le persone in faccia»
Ogni volta che sua figlia pronunciava la parola nonna, Yumiko sospirava e non aggiungeva altro. Così, tutte le mattine dei giorni lavorativi accompagnava sua figlia a scuola, con la macchina che aveva comprato usufruendo dei soldi che le erano rimasti dopo aver preso l’appartamento. Avrebbe voluto portare la sua dal Giappone, ma le spese di viaggio le sarebbero costate di più, così aveva comprato una macchina di terza mano, poco costosa, carina e di fabbrica giapponese: una Toyota Yaris grigia di diversi anni, ma tenuta bene.
Era una tiepida giornata invernale, una delle ultime a dire la verità. L’avvento della primavera era oramai prossimo e lo si poteva intuire dall’erbetta verde e dalle foglioline che iniziavano a spuntare sui rami degli alberi sparsi lungo le strade.
Quando Eri intravide il tetto dell’istituto della scuola superiore si incupì, come tutte le mattine, e come sempre a Yumiko si strinse il cuore. Una parte di lei avrebbe voluto fare inversione di marcia e riportarsela a casa, ma sapeva bene che così facendo non avrebbe fatto altro che nuocere a sua figlia. Tentò di provare con qualche battuta per risollevarle il morale, o per lo meno di vederla uscire dalla macchina con un sorriso, ma fallì miseramente, all’improvviso anche Macchia pareva essersi intristita.
Yumiko accostò lungo il bordo del marciapiede a qualche metro dai cancelli d’entrata della scuola, all’ombra di un muretto. Sapeva che Eri detestava farsi vedere con lei, non tanto perché si vergognava, quanto perché temeva che i suoi compagni di classe l’avrebbero canzonata vedendola scendere dalla macchina della mamma che a quindici anni ancora si preoccupava di accompagnarla a scuola, come una bambina delle elementari.
La donna osservò la figlia attraverso lo specchietto retrovisore, teneva lo sguardo puntato sull’istituto come se avesse potuto mangiarla da un momento all’altro, poi capì che non le faceva paura la costruzione in sé, quanto i ragazzi e le ragazze che vi si stavano dirigendo, o quelli che sostavano nel cortile in cemento.
In Giappone i cortili erano adornati di erbetta verde e alberi di ciliegio …
«Dovresti fare amicizia con qualche ragazza» disse poi Yumiko osservando un gruppetto di ragazzine che se la ridevano complici di chissà quale segreto
«Come no …» fu la risposta vaga di Eri che finalmente lasciò libera la sua cagnolina di girovagare a proprio piacimento per l’abitacolo del veicolo. Yumiko aprì lo sportello e si accinse a scendere lei per prima dall’auto, affinché sua figlia potesse poi uscire – adesso capiva perché il padre della ragazza si opponeva fermamente alle macchine a soli due sportelli - ma urtò qualcosa. 
Era ancora troppo presa dallo sconforto che leggeva sul volto di sua figlia per accorgersi che proprio nel momento in cui apriva lo sportello stava passando una persona, la quale inevitabilmente colpì in piena faccia.
«Mierda
Yumiko si precipitò fuori dall’abitacolo e tutto ciò che vide fu un ragazzo con le mani sul naso, le palpebre strizzate dal dolore e ricurvo in avanti che imprecava in spagnolo.
«Me perdóname señor» balbettò la donna imbarazzata «Gomena sai» cominciò poi con le scuse nella sua lingua, perché quando era agitata le riusciva difficile parlare nell’altra lingua. Il ragazzo la guardò incuriosito dal suo accento straniero, Yumiko era china su di lui e aveva un’espressione spaventata che gli fece venir voglia di ridere, nonostante il dolore. Tornò dritto, si accertò che i palmi fossero puliti dal sangue che invece gli usciva copioso, mentre la sconosciuta dagli occhi a mandorla lo coglieva alla sprovvista soffocandolo quasi con un malloppo di fazzoletti che gli premette sul naso con tanta forza che gli arrivò un’altra scarica di dolore:
«Puta madre!» esclamò.
Nella macchina Eri scoppiò a ridere crollando con la schiena contro i sedili posteriori dell’auto e Macchia prese a scodinzolare allegramente.
Yumiko si scusò di nuovo, ma non mollò la presa sul naso dello sconosciuto, intanto che i fazzoletti si imbrattavano di rosso, lo sospinse girando intorno al muso anteriore dell’automobile e con tono autoritario da madre disse a sua figlia di aprire lo sportello dalla parte del passeggero. Il malcapitato non comprese una parola di quello che l’asiatica stava dicendo, ovviamente, ma quando vide la portiera aprirsi capì e tentò di divincolarsi, affermando che stava bene:
«Perdòname, perdòname, gomena sai» Yumiko lo fece entrare in macchina «Ti porto in ospedale» continuò nel suo personale spagnolo, aspettò che il malcapitato si fosse seduto, poi richiuse lo sportello e fece di nuovo il giro del veicolo per riprendere il suo posto al lato del guidatore, mise la prima e partì evitando per un soffio una macchina che stava svoltando all’incrocio. Lo sconosciuto sudò freddo e mentalmente si fece il segno della croce.
 
Eri si affacciò fra i seggiolini anteriori e salutò con un enorme sorriso il nuovo passeggero,
divertita per la scenetta comica a cui aveva assistito, e anche contenta perché aveva saltato la scuola:
«Hola!» esclamò alzando un palmo e lo sconosciuto quasi sobbalzò, cosa che Eri trovò ancor più spiritosa
«Eri!» la richiamò sua madre lanciandole uno sguardo truce attraverso lo specchietto retrovisore e la ragazzina tornò al suo posto, intanto che Macchia saltava sulle gambe dell’ultimo arrivato, preso dal tamponarsi le narici, con i fazzoletti oramai inzuppi di sangue fresco. La cagnolina abbaiò un paio di volte e lui pensò che ci mancava solo che lo mordesse. La tenne lontana con una mano:
«Morde?» chiese poi, con la voce ovattata
«Ti sembra una cagnolina aggressiva?» replicò Eri offesa come se l’avessero insultata personalmente, allungando poi le braccia per prendere il suo cane con sé «Si chiama Macchia» aggiunse
«Ma va! Non l’avrei mai detto!» attraverso i fazzoletti Yumiko ebbe la sensazione che quel ragazzo stesse sorridendo e che sua figlia fosse a proprio agio per la prima volta al cospetto di un perfetto estraneo del nuovo Paese.
L’ospedale non distava molto dalla scuola e quando una Yaris grigia frenò davanti l’entrata del pronto soccorso erano appena le otto e trenta. Yumiko disse a sua figlia di non muoversi, mentre scendeva dalla macchina e andava incontro allo sfortunato ragazzo per accompagnarlo all’interno dell’ospedale. Eri lo salutò muovendo una zampetta di Macchia:
«Bye bye!»
Nel pronto soccorso c’erano pochi pazienti in attesa e subito un infermiere si interessò a loro, chiedendo cosa fosse accaduto e sbirciando attraverso i fazzoletti il naso del ragazzo. Yumiko gli spiegò il tutto con il cuore impazzito e quando l’infermiere si rivolse a lui per chiedergli se aveva intenzione di sporgere denuncia, alla donna mancò il respiro. Alzò sul ragazzo due occhietti spauriti e si accorse che anche lui la stava osservando, ma il suo sguardo sembrava divertito:
«Certo che no» disse e a Yumiko si inumidirono le iridi.
«“Arigatou”» sussurrò e intuì che le stava sorridendo per via delle rughette ai lati degli occhi, forse aveva compreso quel grazie biascicato in giapponese.
L’infermiere lo invitò a seguirlo all’interno dell’ambulatorio e lo sconosciuto lo fece senza replicare, senza dire altro, senza voltarsi a salutarla. Yumiko rimase ad osservarlo di schiena, i capelli scuri rasati ai lati e a punta sul capo, la pelle color caramello, i diversi tatuaggi sulle braccia che spiccavano dalla camicia a mezze maniche, i jeans larghi e stracciati, fino a quando non sparì dietro le porte automatiche.
Improvvisamente si ricordò di sua figlia Eri in macchina e del fatto che doveva accompagnarla a scuola. Tornò in tutta fretta in auto e annunciò che si sarebbe presa una nota sul registro per il ritardo se fosse stato necessario, ma che non avrebbe saltato un giorno di scuola senza un valido motivo. Eri sbuffò e tornò ad imbronciarsi.
Mentre ripercorreva a ritroso la strada per raggiungere nuovamente l’istituto scolastico, Yumiko non smise di pensare al ragazzo che aveva appena lasciato all’ospedale, con il naso insanguinato e il davanti della maglietta sporca, rammaricandosi di non avergli chiesto neanche come si chiamava … 
  
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