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Autore: IMmatura    10/04/2015    1 recensioni
Dal testo: "Matthew scrive e cancella, riscrive, corregge, lottando con la voglia di far cadere sul foglio una lacrima. Non vuole piangere, perché quel che sta raccontando è qualcosa di bello. Così si sforza di lottare con l’inquietudine e i dubbi, riordinando sentimenti che prima di allora aveva faticato anche solo ad ammettere a se stesso. Sulla scrivania, una tazza di the al limone. Matthew ne aspira avidamente l’aroma, che pian piano sta riempiendo l’ambiente immerso nella penombra."
[partecipa al contest "Di cinque sensi e Crack-Pairing" indetto da _Doll e ,Bad Apple sul forum di EFP]
[partecipa alla challenge "La settimana degli AU" indetta da Jerkchester]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Canada/Matthew Williams, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Autore: IMmatura
Titolo: Pur di essere qualcuno per te
Fandom: Axis Powers Hetalia
Tipologia:
Long-fic (3 capitoli)
Generi: Romantico, Introspettivo, Malinconico
Avvertimenti: Nessuno
Note: AU
Pacchetto: Gusto
Nda:
//

 

Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Hidekaz Himaruya; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.


Pur di essere qualcuno per te

Capitolo 1

-Quindi dovrei... assecondarlo?- mormora con un filo di voce Matthew, mentre definisce con il medico gli ultimi dettagli affinché Arthur sia dimesso. Voleva portarlo fuori da quel maledetto ospedale da quando gli aveva visto riaprire gli occhi. Fisicamente stava bene e quei corridoi bianchi, freddi, asettici e vuoti non l’avrebbero di certo aiutato a risolvere... l’altro problema. Solo il tempo poteva, a detta del medico, e non ne sarebbe servito poi molto.

-Non è tenuto a farlo, se non se la sente, ma sarebbe il modo migliore di approcciare il soggetto. Questa fase di... confusione... durerà al massimo qualche giorno, mi creda.- La voce del medico è tecnica e affilata come un bisturi, impietosa del povero ragazzo che suda, trema, e avvampa notevolmente.

-Va bene. L’importante è che Arthur stia bene.-

Con quelle parole si congeda dall’esimio dottore, che lo indirizza alla porta con un sorriso di circostanza.

Arthur sta aspettando fuori, e sembra leggermente irritato. I capelli biondi, più arruffati del solito e il viso leggermente pallido sono una stretta al cuore per Matthew, che si sforza di sorridere. Un sorriso largo, di quelli che non è abituato a fare. Si sente ridicolo. I muscoli facciali protestano irrigidendosi in una maschera dolorosa, ma non gli importa. Non finché l’altro cammina al suo fianco, borbottando di non vedere l’ora di tornare a casa e prepararsi un vero the, ben diverso dalla brodaglia della mensa.

Matthew gli mette un braccio sulle spalle, perché sa che è questo che Arthur si aspetta, ed ignora le sue proteste per quel gesto d’affetto. In fondo gli fa piacere stringerlo a se, sentirlo vicino. Una sensazione a cui non è ancora riuscito ad abituarsi.

Arthur è più basso di lui, apparentemente gracile. Ogni muscolo del suo corpo, però, è tonico e sembra perennemente teso. Un fascio di energie indomabili, è quello che stringe ancora a se, inspirando l’odore dei suoi capelli per scacciare dalle sue narici quello asettico e pungente della corsia.

Finché, finalmente, non sono fuori. Un’insolita giornata di sole rallegra i ritagli di cielo tra i palazzi, riempiendoli d’azzurro e qualche spruzzo di nuvole candide. Tutti e due si rallegrano e, guardandosi, sorridono istintivamente. Anche Matthew, stavolta, ha un sorriso sincero, non calcolato, che sorprende Arthur. Dolce, quasi timido, quel sorriso... quasi il ringraziamento per un regalo insperato.

Tornato a casa Arthur non si azzarda più a divincolarsi dal suo goffo abbraccio. Esplora quell’espressione, con l’impressione di vederla per la prima volta. Il suo ragazzo ha un’aria assorta. Gli chiede cosa stia pensando e lui risponde che lo stava guardando. L’inglese protesta arrossendo, ma in fondo è felice.

Rientrare nel portone è una conquista. Non vedeva l’ora di rivedere il giallino della rampa di scale, così vivido paragonato ai corridoi grigi e bianchi dell’ospedale.

-Hai controllato la cassetta delle lettere?-

-Come diavolo ti viene una domanda del genere adesso?- chiede arrabbiato, pensando all’atmosfera appena caduta in frantumi sotto i suoi piedi. Sbuffa.

-D-dovresti farlo... magari c’è qualcosa di importante.-

Dato che insiste, lo accontenta (non ha voglia di litigare proprio oggi) e trova biglietti di circostanza, più un catalogo pubblicitario. Fratelli, sorelle e parentado tutto si congratulano per la pronta guarigione. Un collage di calligrafie ben curate, di ipocrisia levigata carattere per carattere: come se a qualcuno di loro importasse realmente qualcosa...

Leggendoli per farsi due risate, e commentandoli acidamente uno ad uno, risale le scale seguito a ruota dall’altro a cui, giustamente, ha mollato la sacca con le sue cose, per punizione. A dimostrazione del suo realismo la chiave della porta spalanca un antro con le serrande abbassate e odore d’aria viziata e stantia.

-Almeno tu potevi venire ad arieggiare un po’ l’ambiente...-

-Ho perso la chiave.-

“Tipico.” pensa, fiondandosi verso la finestra del soggiorno per riportare un po’ di vita in quella camera ardente. Grazie al cielo non ce n’è bisogno, sta benissimo.

-Allora io intanto preparo il the?- si sente proporre da una voce stranamente esitante, proveniente dalla cucina.

-Tu? Davvero?- chiede perplesso, per poi sorridere -Accidenti, sai sempre come farti perdonare...-

Lo invade la serenità delle vecchie abitudini. La casa esattamente come doveva averla lasciata, gli oggetti leggermente impolverati ma in ordine. Si siede sul divano concedendosi finalmente un po’ di calma. I problemi che deve ancora affrontare relegati ad un futuro remoto, sovrastati dalla riscoperta dei piccoli dettagli di se stesso e della sua quotidianità. Le riviste sul tavolinetto, lasciate in disordine. In cima a tutte una rivista di viaggi, con la copertina patinata tempestata dalle luci notturne di New York. Per qualche motivo la cosa lo infastidisce, così sposta altrove lo sguardo.

Intanto un frastuono assordante gli ricorda il the che sta aspettando.

-Puoi farcela, eh...- commenta sarcastico.

-Mensola sbagliata.- annuncia lui, con una risatina forzata. Ha l’impressione che la sua voce sia leggermente affaticata, come avesse il fiatone. Ripensandoci, è un po’ di giorni che sembra sottotono.

-Sicuro di stare bene, hai una voce strana...-

-Questo dovrei chiedertelo io!- ribatte piccato, facendo spuntare la testa dall’uscio e sorridendo, con la teiera in mano. -Comunque l’ho trovata, nessun problema. Ho tutto sotto controllo!-

-Certamente.-

Ridacchiano tutti e due, e poi Matthew sparisce di nuovo. Appoggia la schiena alla parete, scivolando lentamente fino a sedersi sul pavimento polveroso, con la testa tra le mane, pesante per i dubbi e le paure.

“Arthur ha già iniziato a preoccuparsi” deve constatare amaramente “Non funzionerà mai. Che diavolo sto facendo?”

Nonostante tutto la forza della disperazione gli fa compiere i gesti che servono. Acqua, bustina, tazzine. Mai dimenticare il limone, quella spruzzatina acida che ad Arthur piace tanto. Facendo appello a tutto il suo (scarso) coraggio, Matthew mette piede nel salone, per affrontare il resto di quella splendida, tremenda giornata.


---


Trattenendo il respiro, Matthew si è intrufolato nello studio, per poi accendere la lampada da tavolo. Nel cerchio di luce solo la sua mano, una penna, e una lettera quasi impossibile da scrivere. Il brusio leggero della punta che graffia il foglio è l’unico suono a spezzare la quiete della notte. Arthur dorme sereno, nella stanza accanto.

Si prende un secondo per pensare a come l’ha lasciato, scivolando via dal suo abbraccio. I capelli biondi più arruffati del solito, il viso affondato nel cuscino, con le labbra dischiuse, intente a sussurrargli chissà quale segreto. Forse ricordi che cominciano a riaffiorare.

Matthew scrive e cancella, riscrive, corregge, lottando con la voglia di far cadere sul foglio una lacrima. Non vuole piangere, perché quel che sta raccontando è qualcosa di bello. Così si sforza di lottare con l’inquietudine e i dubbi, riordinando sentimenti che prima di allora aveva faticato anche solo ad ammettere a se stesso. Sulla scrivania, una tazza di the al limone. Matthew ne aspira avidamente l’aroma, che pian piano sta riempiendo l’ambiente immerso nella penombra.

Si ferma per prenderne un sorso, ingoiando senza sforzo quel sapore che, poco a poco, ha imparato ad amare. Quel sapore intenso, con una punta di acidità, quel gusto che ha sempre, inevitabilmente, associato ad Arthur... chiedendosi se fosse quello il sapore dei suoi baci. Può sentire il sangue salire alle guance. No, questo non lo scriverà!

Per il resto, però, non censurerà più nulla, iniziando da prima della spiegazione che vuole dare, facendo un passo indietro rispetto a quello strano scherzo del destino. Tornando alla prima volta in cui si erano incontrati, e a come si era innamorato.


Matthew era sempre stato un tipo timido, silenzioso, remissivo. Difficilmente la gente si accorgeva della sua presenza e ancor meno spesso riusciva a suscitare il benché minimo interesse negli altri. Si era a poco a poco abituato così tanto a quella normalità, da sobbalzare notando quegli occhi verdi fissi su di lui. Impossibile pensare ad una coincidenza: un guizzo aveva illuminato quelle iridi smeraldine, mentre le sopracciglia incredibilmente folte si aggrottavano e lo sconosciuto si faceva largo come poteva tra la folla del bar.

Ricordava perfettamente di aver pensato ad un prato infinito percorso da un brivido di vento, e di aver sentito qualcosa di analogo correre lungo la sua spina dorsale. Quello sguardo l’aveva fatto sentire, in qualche modo, riconosciuto. Matthew avrebbe desiderato a lungo un’altra occhiata del genere.

Sfortunatamente, scoprì quasi subito di essere vittima di uno scambio di persona (l’ennesimo). Neppure il tempo di spiegare che lui non era suo fratello Alfred, che quest’ultimo sbucò da chissà dove a riprendersi con la sua ingombrante presenza il centro della scena. La normalità stava cercando di riassorbirlo nel suo ruolo di ombra silenziosa, ma finche osservava Arthur scusarsi, tossicchiando imbarazzato con un pugno chiuso davanti alla bocca, Matthew si sentiva diverso... più vivo.

Fu felice di rimanere a prendere un the con loro (anche se il fratello aveva dato segni non troppo discreti di non volerlo tra i piedi) e non si perse un movimento delle labbra di Arthur. Non capiva tutte le parole, frastornato dalla confusione del bar, ma quel che riuscì a sapere dell’altro gli piacque e, per quanto banale, lo registrò come qualcosa di eccezionale. Studiava Storia all’università, ed era all’ultimo anno della magistrale. Divagò a proposito della sua tesi sull’età elisabettiana, facendo velatamente pesare ad Alfred l’aver interrotto i suoi studi per organizzare una non meglio precisata sorpresa per il compleanno di un loro amico comune. Il tutto girando con la punta delle dita il cucchiaino in una tazza di the, seduto con le gambe accavallate e il torso un po’ girato, cosicché la camicia, anche se un po’ troppo larga, lasciava intuire con le sue pieghe un fisico asciutto e sensuale.

La risata di Alfred, decisa e un po’ ridondante, aveva riempito il resto della conversazione, assieme a varie ed eventuali battutine, a cui Arthur aveva risposto a tono. A Matthew piaceva molto il modo combattivo con cui tirava un’energica gomitata a suo fratello, senza però perdere del tutto la compostezza. Per il resto, infatti, sembrava una persona assolutamente educata. La stretta di mano che gli riservò era decisa, ma non troppo energica (a differenza di Alfred, che di solito scuoteva energicamente il braccio frastornando chiunque avesse la disgrazia di presentarglisi...). Si congedò salutando entrambi ed alzando il bavero di un cappotto marrone che lo nascondeva per tre quarti. Poi sparì oltre la porta, aprendo l’ombrello.

Quella figura in cappotto marrone, con la chioma arruffata, sotto l’ombrello con i colori della Union Jack, avrebbe tormentato a lungo i pensieri di Matthew. Il suo nome gli veniva alle labbra da solo, mentre cercava inutilmente di studiare. Pensava alla sua stretta di mano ed una sorta di scossa elettrica lo scuoteva fino alla spalla. Era più distratto e silenzioso, tanto da dar preoccupazione persino ad Alfred, di solito proiettato solo su se stesso. Lui però si limitava a liquidare le sue preoccupazioni con un sorriso sereno che, a qualcuno di più scaltro, avrebbe svelato tutto.

Ci mise un po’ a capire cosa provasse. Si rese conto che era amore quando, per la prima volta, sentì suonare il citofono dell’appartamento che condivideva con Alfred. Riconobbe subito la voce, ed aprì senza neanche chiedere chi fosse, con la mano che tremava e una nuova, inspiegabile frenesia che lo faceva camminare nervosamente avanti e indietro. Sentiva il rimbombo del battito cardiaco nelle orecchie. Si, si era preso proprio una cotta indegna, un assurdo colpo di fulmine.

A differenza di tanti suoi coetanei Matthew non aveva mai pensato all’amore, prima. Al liceo era condannato a rimanere nell’ombra di suo fratello, il campione della squadra di football della scuola. Quando poi si erano trasferiti in Inghilterra, ormai, si era abituato alla solitudine, dandola per scontata come unica compagna di vita. Triste, ma vero.

Di colpo recuperava tutto. In preda ai tremendi, primi batticuori, aprì la porta dell’appartamento e spiegò che Alfred non era ancora rientrato.

Gli offrì un the, e si sentì chiedere se aveva del limone. A quanto pare adorava quel sapore, quel retrogusto acidulo. L’odore intenso dell’agrume pizzicò il naso di Matthew inducendolo, assieme al nervosismo, a strofinarselo distrattamente con un dito. Impacciato, tentò una conversazione che si sarebbe rivelata piuttosto stimolante, se fosse stato in possesso delle sue facoltà mentali. L’inglese era un ragazzo dotato di grande intelligenza e, dopo poco, si rivelò anche un appassionato oratore. Non che Matthew avesse nulla da ribattere (avrebbe annuito anche se gli avesse detto che il cielo era fucsia, probabilmente...), in ogni caso Arthur era portato istintivamente a difendere gli argomenti che gli stavano a cuore, sviscerandoli e preoccupandosi di essere seguito da chi aveva di fronte...evidente la sua predisposizione per l’insegnamento. Fortunatamente non decise di interrogarlo, altrimenti il povero Matthew, paonazzo e balbettante, avrebbe fatto una pessima figura.

Quando finalmente aveva trovato la forza di formulare una frase un po’ più lunga, la sua voce uscì ancor più debole e strozzata del solito.

-Come, scusami?-

-No, niente... io, solo... volevo chieder...-

In quel momento entrambi sobbalzarono, sentendo sbattere la porta. Maledetto il pessimo tempismo di Alfred.

Per fortuna avrebbero avuto spesso occasione di riparlarsi, in compagnia. In mezzo ad un gruppo di amici di cui, a poco a poco, Matthew iniziò a fare parte. C’era Kiku Honda, il famoso “amico comune”, un giapponese dall’aria, se possibile, ancor più riservata ed impacciata della sua. C’era Francis, un ragazzo molto più sciolto di lingua che, un paio di volte, gli era sembrato ci stesse provando...

Lui però non aveva occhi che per Arthur, e per il suo modo di essere. Apparentemente così rigido, ma anche volitivo, energico, orgoglioso. A tratti rude quando si trattava di ribattere alle frecciatine del loro amico francese sulle sue sopracciglia, o sulla sua pessima cucina. Lo chiamavano “l’acido della situazione” e Matthew sentiva un’istintiva ribellione contro l’accezione negativa che quel soprannome voleva avere. Era vero: c’era una punta d’asprezza nel modo in cui si rapportava con gli altri, ma per la maggior parte del tempo era una persona seria, disponibile. Amabile.

Qualcosa che fece perdere la testa a Matthew, che attendeva senza leggere una riga dei suoi libri di sentir suonare il campanello, per poi abbandonare appunti e tutto, appena riconosciuta la voce di Arthur in salotto. Era bello riceverlo anche da solo, cosa che piano piano iniziò ad avvenire più spesso...e che a qualcuno di meno accecato dall’infatuazione, avrebbe dovuto far intuire qualcosa.

  
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