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Autore: IMmatura    10/04/2015    1 recensioni
Dal testo: "Matthew scrive e cancella, riscrive, corregge, lottando con la voglia di far cadere sul foglio una lacrima. Non vuole piangere, perché quel che sta raccontando è qualcosa di bello. Così si sforza di lottare con l’inquietudine e i dubbi, riordinando sentimenti che prima di allora aveva faticato anche solo ad ammettere a se stesso. Sulla scrivania, una tazza di the al limone. Matthew ne aspira avidamente l’aroma, che pian piano sta riempiendo l’ambiente immerso nella penombra."
[partecipa al contest "Di cinque sensi e Crack-Pairing" indetto da _Doll e ,Bad Apple sul forum di EFP]
[partecipa alla challenge "La settimana degli AU" indetta da Jerkchester]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Canada/Matthew Williams, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Hidekaz Himaruya; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.


Pur di essere qualcuno per te

Capitolo 3

La sera dopo. Matthew non accenna a muoversi. Il cellulare, in bilico sull’angolo della scrivania, cade scosso dalla vibrazione. Lo afferra al volo e legge il messaggio di suo fratello: “In partenza”.

Fino all’ultimo aveva sperato di avere più tempo. Inspira profondamente, pensando ai segnali che non può più ignorare. Poche ore prima Arthur gli aveva chiesto confuso e, per una volta, con gli occhi lucidi, se prima dell’incidente avessero litigato. Lui aveva risposto di si.

Arthur aveva chiesto silenzio, per riordinare le idee. Era in salotto a sorseggiare il the, e poi sarebbe andato a letto. Matthew non l’avrebbe raggiunto.

La busta già aspettava, nella sua tasca, di accogliere quella lettera, che ormai sembrava più un romanzo, o una confessione, ed essere lasciata nella cassetta della posta.

Era il momento di scrivere dell’incidente.

 

Il giorno dopo il telefono squillò ancora. Matthew alzò distrattamente la cornetta, mentre riordinava dei vestiti che Alfred aveva lasciato sparpagliati mentre preparava le valigie. Il sorriso quasi nostalgico con cui aveva messo mano a quel marasma si spezzò improvvisamente. Nel suo orecchio la voce di Kiku spiegava cose che già non stava più ascoltando. Le parole “incidente” ed “ospedale” avevano completamente annichilito la sua mente. Si mosse senza pensare verso il cassetto con le chiavi di casa e della macchina. Nello stesso stato percorse le strade ricoperte ancora di pozzanghere, senza neppure farsi domande. Eccetto, l’unica, assillante, opprimente: “Come starà Arthur?”

Le spiegazioni vennero dopo. Viaggiava a velocità troppo elevata su un tratto scivoloso, in direzione dell’aeroporto. Il resto riuscì a ricostruirlo da se. Non sapendo cosa fare tentò di contattare Alfred. Irraggiungibile.

Un’infermiera grassoccia ed imbronciata gli ordinò di spegnere il cellulare e lui ubbidì, ripromettendosi di ritentare il prima possibile. Era come soggiogato da qualsiasi indicazione gli venisse data. Non era ancora nel pieno della sua lucidità.

Arthur rimase incosciente per diversi giorni. Matthew gli rimase vicino, constatando con amarezza che nessun parente si era presentato al suo capezzale. Le poche volte che si concedeva una pausa, approfittava delle gentili visite di Kiku. Una volta venne anche Francis, che accolse il suo sfogo improvviso. Un pianto quasi infantile, ma soffocato, rispettoso anche del dolore altrui, tra i corridoi dell’ospedale. Il francese loro amico, che aveva intuito tutto da tempo, lasciò che piangesse sulla sua spalla, e non criticò la dedizione con cui si ostinava a rimanere.

Quando finalmente l’inglese riaprì gli occhi Matthew credette di morire di felicità. I suoi occhi verdi erano stati percorsi da un guizzo, vedendolo. Un guizzo fin troppo familiare. A fatica Arthur si era sollevato sui gomiti, farfugliando qualcosa con la bocca impastata dai medicinali. L’aveva abbracciato e Matthew aveva ricambiato quasi con la smania di sfiorare quel corpo così desiderato. Poi aveva sentito il suo fiato vicino all’orecchio, un nome sussurrato.

Gli si era gelato il sangue. L’aveva chiamato Alfred.

Amnesia lacunare. Era stata quella, la diagnosi. Il medico disse che sarebbe durata pochi giorni, massimo qualche settimana. Disse anche che era naturale che Arthur cercasse di riordinare i suoi ricordi, e che nel processo potevano avvenire fenomeni singolari come quello.

Matthew era stato sottoposto ad un impietoso interrogatorio.

In che rapporti erano Arthur e suo fratello? Stavano insieme.

Ultimamente i loro rapporti com’erano? Tesi, forse si erano anche lasciati, non lo sapeva...

E lui, invece, in che rapporti era con Arthur? Buoni, amichevoli.

Fisicamente lei somiglia a suo fratello? Molto.

-Capisco.- aveva pacatamente esposto alla fine -Credo sia un meccanismo inconscio di difesa. Il paziente ha subito un forte shock e il suo subconscio cerca di evitargli ulteriore stress emotivo. Ha rimosso tutto il periodo dei litigi, gli ultimi mesi. A questo punto è subentrato il meccanismo di ricostruzione: essendo convinto di essere ancora coinvolto in una relazione stabile, si aspettava il suo compagno al suo capezzale. Il cervello ha rielaborato la sua presenza in base a quell’aspettativa.-

-M-ma perché continua ancora a confondermi con lui?-

-Beh...non posso averne la certezza, ma credo che il paziente stia inconsciamente colmando così il suo recente vuoto emotivo. Mi ha detto che i suoi rapporti con il soggetto erano più pacifici e stabili: il subconscio del soggetto ha registrato quest’informazione e ha fatto si che lei diventasse un surrogato.-

Matthew mormorò a mezza bocca quella parola. Surrogato.

-Recupererà certamente la memoria, ed anche piuttosto in fretta. La cosa importante, adesso, è che non subisca un nuovo shock, che potrebbe alterare seriamente il suo stato psichico.-

-Quindi dovrei...assecondarlo?-

Facile a dirsi, molto meno a farsi. Recitare notte e giorno un ruolo che gli calzava decisamente stretto. Il tutto con le telefonate di Alfred, divenute sempre più insistenti da quando, finalmente, era riuscito ad informarlo dell’accaduto.

I toni erano diventati in fretta accesi, ed era stato questo a convincerlo a scrivere. Non voleva che Arthur fraintendesse, si sentisse preso in giro in nessun modo. Non voleva sospettasse alcuna malafede. A Matthew interessava davvero solo e soltanto la sua tranquillità. Se poi aveva iniziato a desiderare segretamente qualcosa di più, a temporeggiare, ad accettare i suoi baci, era stato solo per debolezza. Tuttavia, Arthur stesso ne era testimone, non si era mai spinto oltre. Non l’avrebbe mai ingannato con  malignità.

Alfred, invece, dopo il panico iniziale, era stato letteralmente dilaniato dalle circostanze. Era proprio vero: per capire il valore di ciò che si ha bisogna rischiare di perderlo. Quasi subito aveva iniziato a chiamare Matthew ad ogni ora del giorno e della notte.

Alla fine era stato costretto a spiegargli la faccenda dello scambio di persona, e lui non l’aveva presa bene. Assieme all’amore, al pentimento, si era risvegliata un’improvvisa gelosia. Ricordava bene una delle ultime chiamate:

-Non provare ad approfittarti della situazione!-

-A-approfittare? Come ti viene in ment... -

-Non sono stupido, Matthew. Ho visto come lo guardavi.-

-E se anche fosse? Proprio per questo non potrei mai volere qualcosa di cui poi si pentirebbe. Come puoi pensare..?-

Aveva pianto di rabbia e di tristezza assieme, asciugandosi con un pugno una lacrima dallo zigomo.

-Digli come stanno le cose, o lo faccio io.-

-Ti stai vendicando, per caso?- chiese, riconoscendo in queste parole l’eco delle sue.

-E anche se fosse?- rispose, facendogli il verso con una punta di cattiveria.

-Beh, allora sei un vero idiota! Lo sai dove stava andando Arthur, in macchina, quando ha sbandato? All’aeroporto. Deve aver pensato che con la tempesta il volo fosse stato sospeso.-

-Stai dicendo che è colpa mia?-

-No, sto dicendo che è te che ama, e proprio perché continua ad amarti, ed ha un disperato bisogno di te sta succedendo tutto questo. Se davvero te ne importa ancora qualcosa, anziché fare il geloso e assillarmi al telefono, salta su uno stupido aereo e vieni qua!-

-Ho già prenotato. Arrivo lunedì.-

-Perfetto.-

-Davvero?- aveva chiesto, dopo un attimo di esitazione, dilatato dal senso di colpa -Bro, per prima...mi dispiace. Grazie per quello che stai facendo.-

Si erano salutati con le consuete frasi di circostanza, mentre Matthew si frugava dentro cercando di capire se Alfred potesse, in fondo, avere ragione. Quanto aveva influito sulla sua disponibilità a quella farsa il fatto che fosse innamorato di Arthur?

Quanto era stato egoista, dietro le mille scuse che aveva propinato anche a se stesso? Aveva paura di scoprirlo, ma gli piaceva credere, o almeno sperare, di essere riuscito a regalare qualcosa ad Arthur, in quei pochi giorni. Un briciolo d’affetto che lo convincesse a non pensare troppo male di lui.

 

---

Il sole sveglia Arthur, colpendolo con un raggio dritto sul viso. L’inglese cerca istintivamente il corpo di Alfred al suo fianco, per poi ricordare. Ricordare tutto ciò che ha sognato quella notte, le memorie che sono, finalmente, tornate. Dolorose ed intere. Alfred è a New York. Lui è solo...oppure no? Perché in quei giorni qualcuno gli era stato vicino, giusto?

Si rizza a sedere tra le lenzuola candide, con gli occhi sgranati, scosso da dei brividi.

Si, qualcuno era stato li. Eppure, non poteva essere Alfred. In preda al panico scese dal letto, spalancando una porta dietro l’altra. Dove? Chi?

Gli sembra un incubo: qualcosa di talmente assurdo ed irreale da credere di averlo immaginato. Baci dolci. Tocchi delicati. Un abbraccio protettivo, di qualcuno che l’aveva guardato addormentarsi con sguardo adorante, senza pretendere nient’altro. Quel pensiero lo tranquillizza leggermente. Non aveva dato se stesso a qualcuno che non era Alfred.

In quel momento il citofono suona.

Parecchi minuti dopo, mentre Alfred (quello vero, stavolta) spinge per l’ennesima volta il citofono, Arthur finisce di rivestirsi e decide di scendere le scale per controllare, prima di sbloccare il portoncino. Poteva essere chiunque e lui voleva vederci chiaro in tutto quel groviglio di ricordi e impressioni.

Lo vede attraverso il portoncino di vetro. Stavolta ne è assolutamente sicuro. Si fionda ad aprire, rischiando persino di inciampare all’ultimo gradino.

-Dude, mi dispiace...come stai? Cosa ti ricordi? Come te la sei cavata in questi giorni?-

Questo è Alfred. Preoccupazione pura, violenta e infantile. Con le lacrime agli occhi.

-Non posso credere che... mi dispiace. Mi dispiace per tutto! Comunque adesso sono qui, e non devi preoccuparti più di niente. Il tuo eroe è arrivato e non ti succederà niente di male.-

Arthur non avrebbe mai pensato di commuoversi per una di quelle sue uscite stupide, a proposito dell’essere “il suo eroe”. Di solito si era sempre limitato ad accoglierle con un sospiro, e alzando gli occhi al cielo. Tuttavia gli erano mancate così tanto...

La coda dell’occhio esplora il pianerottolo, ma non vede bagagli. Si chiede se sia passato prima da casa, ma scarta l’ipotesi. Si vede che è corso direttamente li, in preda ad un’ansia del tutto momentanea. Il fiatone, ed il modo in cui lo abbraccia, non cambiano il fatto che non sia tornato per restare.

Il cuore di Arthur smette di battere all’impazzata, scivola dalla gola giù, come un pesante macigno fino allo stomaco.

-Matthew si è comportato bene, vero?-

“Matthew!” pensa “Ovvio, come ho fatto a non pensarci!”

-Si...per quello che mi ricordo... però credo se ne sia andato. In casa non c’è più nessuno.-

La bocca di Alfred si allarga in una risata che Arthur vorrebbe disperatamente condividere. Eppure di colpo l’atmosfera è straniata. Si sente come se stesse assistendo a quella scena da fuori di se stesso, e fosse in attesa di qualcosa. Un’intuizione risalendo le scale. La cassetta delle lettere.

Senza sapere perché ci fruga dentro. Un comportamento automatico. In quei giorni Matthew glielo suggeriva ogni volta che passava per l’androne, quasi preparasse le circostanze per fargli trovare quella corposa busta. Nessun nome. Nessuna intestazione. Tuttavia Arthur ha la certezza assoluta di chi sia il mittente.

-La posta? Ma ti sembra il momento?- chiese Alfred, sporgendosi oltre la sua spalla.

-Sta zitto.- ordina l’inglese girandosi di scatto, perché non sbirci. Risale le scale accompagnato dal ciarlare allegro di Alfred, che cerca di colmare il silenzio e combattere l’imbarazzo. Sanno entrambi cosa succederà, appena arrivati a casa, o al massimo quella sera. Arthur sa che non riuscirà a dire di no, perché Alfred, l’uomo che ama, nonostante tutto, gli è mancato da morire.

Sa anche che ricomincerà a mancargli presto, forse già dal mattino dopo. Perché la sua testa, forse, è già altrove. Di nuovo a New York.

L’immagine della sua casa vuota, buia come una cripta, com’era quando era rientrato dall’ospedale, gli danza davanti agli occhi. La solitudine è un’ombra che, a poco a poco, divora la felicità del momento.

Alfred parla anche di Matthew, ed Arthur si scopre interessato, mentre un leggero tepore gli invade le guance. Non sono solo belle parole, quelle per il fratello. Anche qualche frecciatina, dettata dalla gelosia, cui lui vorrebbe ribattere. Quel che ricorda lui, di quei giorni con Matthew, è solo tranquillità. Sorrisi dolci, attenzioni, premure, il the sempre pronto e servito sul tavolinetto del salotto. Presenza.

Quei ricordi lo tormenteranno spesso, da allora, nella stanza vuota, di fronte al computer, in attesa che Alfred si connetta su Skype. Arthur non lo ammetterà mai, ma rileggerà spesso le ultime righe di quella lettera di tante, troppe pagine:

“Ti prego di perdonarmi, se puoi, per averti rubato questi pochi giorni che per me sono stati i più belli della mia vita. So che non può essere una scusa sufficiente, ma spero tu abbia capito che pur di essere qualcuno per te, ero disposto a indossare qualsiasi maschera potesse piacerti. Il desiderio che tu mi guardassi con amore forse mi ha reso un po’ egoista, ma ho cercato di ricambiare con tutto l’amore che potevo la gioia che mi dava starti accanto.

Ho deciso di partire per un po’. Non ho indicato la destinazione perché probabilmente non t’interessa e perché vorrei non mi cercassi, per ora. Non riuscirei ad affrontare il tuo eventuale risentimento. Preferirei conservare nella memoria quel poco che di bello c’è stato, di là dalle bugie, sperando che, con il tempo, possa vederlo anche tu.

Con amore (per quel che può valere)

Matthew.”

Arthur ci penserà spesso, la notte, nel letto vuoto del suo piccolo appartamento, guardando il buio e pensando ai chilometri di distanza che lo condannano alla solitudine. Ricorderà il calore di una discreta, devota presenza e, qualche volta, senza sapere perché, verserà una lacrima.

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